Andrew Toney era, sportivamente parlando, uno cattivo. Quello forse il suo miglior pregio. Cattiveria, coraggio, forza e scorza dura.
Magari non era l’assassino della definizione datagli da alcuni. Neppure così sinistro come lo Strangolatore di Boston, nomignolo con il quale sarebbe passato alla storia del basket. Ma di paura ne metteva. Chiedete a Michael Cooper, oppure a Danny Ainge, non esattamente delle mammolette. Chiedete ai compagni di squadra, magari i malcapitati journeymen che dovevano contenerlo in allenamento. Andrew li mangiava vivi, li scaraventava fuori dalla palestra. Metaforicamente e non solo.
Charles Barkley, un altro osso duro, lo adorava. Solo lui e Moses Malone erano in grado di portarmi in post. Ricorda. Toney, guardia di poco più di 1.90, ma con dei tronchi al posto delle cosce, spalle rotonde e quella che a Napoli chiamano cazzimma.
Anche Andrew era del Sud, di Birmingham, Alabama, sud degli Stati Uniti. Quello profondo. Alabama e Louisiana, dove avrebbe frequentato la Southwestern, luoghi non facili – eufemismo – per un nero, ancora oggi. Immaginate nei “burning years” ’60 e ’70. Essere duri per avere – forse – una speranza di sopravvivenza. Tutto il resto, umiliazione.
Nei quattro anni di college Andrew emerse come scorer prolifico e affidabile e il suo nome cominciò a circolare tra gli scout. Meccanica di tiro non ortodossa, ma efficace, di chi ha imparato sui canestri attaccati ai portoni dei fienili. Ball-handling da play, capacità di occupare il pitturato da lungo e soprattutto la rara attitudine a segnare nei momenti decisivi. Il prototipo del clutch player. Lo adocchiarono, tra gli altri, i Sixers del GM Pat Williams, che nel 1980 sceglievano alla 8. Fino all’ultimo temettero di perderlo, visto che i Nets avevano le due chiamate immediatamente precedenti. Le Retine pescarono altrove e l’opera di architettura in via di assemblaggio a Phila, trovò in lui un pilastro fondamentale.
Nell’anno da rookie scalò a grandi falcate le gerarchie, per ritrovarsi, molto presto, in rotazione. Da lì a diventare il nemico pubblico numero uno dei rivali di Boston, fu quasi un tutt’uno. Sul finire di stagione gliene piazzò prima 35, un antipasto, per poi realizzarne 26 e ancora 35, in gara 1 e 2 delle ECF, nella tana del lupo, in casa Celtics. Il suo sforzo fu vano e i Sixers subirono una dolorosa rimonta.
La sua consacrazione da serial-killer della post season sarebbe arrivata nel 1982. Trascinatore dei suoi nelle prime due gare fuori casa, vide il vantaggio di 3-1 svanire ancora una volta per mano degli indomabili biancoverdi. Settima ancora al Garden. A sentir Toney, bastava incrociare anche solo gli inservienti della mitica arena per mandarlo in bestia. Per caricarlo quindi al punto giusto. Quella sera di fine maggio 1982 ne segnò 34, trascinando i suoi alle Finals. Peccato dall’altra parte ci fosse un certo Magic.
L’anno dopo Andrew conquistò il quintetto, con quello i 20 punti di media e la sua prima partecipazione all’ASG. La presenza di Moses e il suo Fo’ Fo’ Fo‘, la parola d’ordine per riportare i Sixers sul tetto del mondo. Andrew Toney, in prima fila nella cavalcata. Solo la presenza di compagni dal prestigio inarrivabile gli impedì di fregiarsi anche di riconoscimenti personali. Fu un trionfo, durò poco.
Nella stagione successiva e negli anni a venire qualcosa si incrinò all’interno della squadra, stessa cosa accadde con i piedi di Andrew. Fitte sempre più forti e insistenti lo costringevano a uscite penose. Provava a giocare col dolore, ma le prestazioni ne risentivano. Fratture da stress, malformazioni congenite. Difficile diagnosi. La medicina di allora non era in grado di dare risposte. All’interno della dirigenza Sixers crescevano dubbi e malumori.
Fu lo stesso proprietario, Harold Katz, a minare la fiducia nel rapporto giocatore-squadra. Toney vuole più soldi, finge per strappare un nuovo contratto. Circolarono voci su presunti abusi di stupefacenti – cosa invero non rara, all’epoca – venne sottoposto a test antidoping, la polveriera esplose. A cinque anni dal suo approdo in NBA a due dal titolo, la carriera di Toney cominciò a deragliare. Alla fine dell’ottavo anno, al compimento dei 30 anni, giunse ad un binario morto.
Il veleno sparso sulla coda della relazione con quella che fu la squadra che arrivò all’anello anche grazie a lui, non venne più riassorbito. Andrew uscì dal giro per chiudersi in se stesso. Si rifugiò in Georgia, dove per alcuni anni insegnò in una scuola media.
Nessuna rimpatriata di vecchie glorie, nessun contatto col mondo del basket, nessun riconoscimento alla carriera. Poi il ghiaccio sembrò sciogliersi. Discrete apparizioni in tribuna ed esplosioni di giubilo all’annuncio del suo nome al Wells Fargo Center. Lui però, rimase ancora ufficialmente contumace. Ma tornerò, fece sapere.
Nel frattempo, il grande Moses e il pirotecnico Darryl ci hanno lasciati, oltre a Doctor J, anche Maurice Cheeks e Bobby Jones, sono giustamente entrati nella Hall of Fame. Lassù dove sventolano le maglie ritirate c’è molto affollamento, ma pure un grande vuoto. Quello non ancora riempito dal 22 di Andrew Toney. Un duro, uno sportivamente cattivo. Un grande della storia dei Sixers.