Al termine dell’ennesima notte segnata da sprazzi di alcolismo privo di senso e dall’assenza pressoché totale di sonno – dettaglio che mi accompagna da un po’ ma questa, come cantava un mio celebre conterraneo, è “tutta un’altra storia” – con il mio amico Toto stavamo occupando il tempo del tragitto verso casa consultando l’app NBA sullo smartphone:
– «Vediamo se c’è qualche partita che posso vedermi ché tanto qua di dormire non se ne parla Allora Magic-Raptors, Spurs-Nuggets…»
– «Sta Blazers-Thunder. Vai con quella…»
– «Guarda qui: tre minuti alla fine del primo quarto e i Sixers stanno 25-3 sui Nets…»
– «To. Blazers-Thunder…»
– «Cla ok che non ho sonno, ma inizia alle quattro e mezza, se va bene finisce alle sette…»
– «Capirai, si tratta di aspettare un paio d’ore. E poi Damiano. Cazzo, ti vuoi perdere Damiano che può eliminare Westbrook? Che altro ti serve?»
Già. Che altro gli serve?
Ho realizzato stamattina, dopo aver visto la replica esatta del buzzer beater che nel 2014 eliminò gli Houston Rockets in gara-6 della prima serie di playoff che i Blazers vincevano dal 2000, che questo dialogo è probabilmente il modo migliore per raccontare Damian Lillard a chi Damian Lillard non lo conosce e, di conseguenza, non ha propriamente familiarità con la mistica del “Lillard time” (o “Dame time”: pare ci sia una differenza, ma per comodità andiamo sul classico). Non con le statistiche, non con l’aneddotica, non con l’adesione alla narrazione dell’underdog che «48 minuti giocati ogni sera per vendicare una vita di ingiustizie» alla maniera di Allen Iverson – cosa che, tra l’altro, farebbe anche quel Russell Westbrook di cui sopra che finirà dalla parte sbagliata di questa storia, ma per ogni hero deve esserci un villain, tanto più se si porta dietro la fama di statpadder, quindi pace – ma con un dialogo da “Muppet show” al limite del surreale.
Perché Damian Lillard è surreale. È aspettarsi l’inaspettato, è passare la stagione a parlare e scrivere di qualsiasi altra combo guard che non sia lui, è pentirsene e provare a rimediare quando si intuisce che sta per arrivare di nuovo quel momento dell’anno, è aver voglia di urlare quando riguardi in loop un tiro che sai che andrà dentro, hai visto che andrà dentro, ma ogni volta è come se fosse la prima in presa diretta, è retwittare all’impazzata quella faccia da “e allora?” che sai già che farà il giro del mondo ammesso che non l’abbia già fatto, è sentire Paul George dire «quello di base è un brutto tiro. Un bruttissimo tiro. Non mi interessa quello che si può dire. Quello è un brutto tiro. Ma lui l’ha segnato e la storia non ricorderà che quello era un brutto tiro ma solo che lui l’ha segnato», è sentirsi percorsi da una strana e salvifica elettricità che ti aiuta a superare una noiosa mattinata pre-festiva, per di più con meno di quattro ore di sonno alle spalle, è (ri)trovare motivazioni da traslare nella quotidianità in colui che un giorno disse «Ci tengo a ringraziare tutti quelli che pensavano che non fossi all’altezza. Non che sia nulla di nuovo per me. È tutta la vita che ne traggo ispirazione», è vedere le reazioni di chi a tutto questo dovrebbe esserci abituato eppure è come se non ci si abituasse mai.
Questo, e null’altro, ci e vi serve per capire chi è Damian Lillard, per capire cos’è questo “Lillard time” che a breve invaderà le timeline di ogni social passato, presente e futuro, che lo vogliate oppure no.
Perché ci saranno altri, più bravi e preparati di chi vi scrive, che vi diranno quante e quali statistiche e quanti e quali record spieghino i motivi per cui si dovrebbe iniziare a parlare, finalmente, di un top 3 tra le point guard, che vi mostreranno il tipo di impatto di ogni sua prestazione su quelle di una squadra privata nel momento decisivo di Jusuf Nurkic come tradizione Blazers impone da Greg Oden in poi, che vi faranno conoscere ogni singolo aspetto tecnico di un giocatore i cui aspetti tecnici dovrebbero essere conosciuti fin dal suo anno da rookie e che invece non lo sono per motivi misteriosi (o, più semplicemente, per la sfiga di essere coevo dei vari Harden, Curry, Westbrook e Irving), che vi inviteranno a non sottovalutarlo più ben sapendo che, puntualmente, lo rifaremo e lo rifarete; ma nulla di tutto questo sarà anche solo minimamente paragonabile a quello che state provando questa mattina, mentre guardate e riguardate quel video ipnotico chiedendovi se sia successo davvero – «Yes, it’s happened» -, mentre vi promettete di non darlo più per scontato, mentre state guardando tutto, anche la vostra quotidianità, in modo diverso, mentre vi ritrovate a dare ragione a Justin Verrier che qualche giorno fa scriveva su The Ringer, commentando un acceso confronto verbale con Steven Adams, che «non vai a sfidare quello più grosso e cattivo degli altri per il puro gusto di farlo. Lo fai perché sei nel bel mezzo della più grande serie di playoff della tua carriera e senti che nessuno può fotterti in alcun modo e ci tieni a fralo sapere al resto del mondo».
È tutto qui, è sempre stato tutto qui, è sempre stato tutto questo, è sempre stato cuore, anima, sensazioni, percezioni, emotività, talvolta persino retorica spicciola. Il resto non conta, il resto è secondario, il resto lo lasciamo a chi non riesce ad andare oltre.
It’s always Lillard time! Come al solito. Come sempre. E adesso lo sanno tutti, ma proprio tutti.