L’NBA è lega di stelle. Di campioni sempre più a 360 gradi, modello Re Sole, modello LeBron: giocano alla grande, sono la faccia della franchigia e icone globali. Si improvvisano persino General Manager, fanno mercato sfruttando influenza e popolarità. In qualche caso allenano addirittura in certi momenti, anche se non si può dire. Hanno l’ultima parola su schemi offensivi e rotazioni. E soprattutto scelgono il Coach, nominale o sostanziale che sia.
Kobe Bryant
Phil Jackson è un genio quando si tratta di dettagli e ritmo di gioco
Dunque è lecito cominciare a domandarsi: in questa epoca storica NBA e sociale in America in cui impera il marketing e le competenze sono sempre più improvvisate, quanto conta davvero il Coach in NBA? C’è rimasto qualcuno che fa la differenza da valore aggiunto?
I 4 comandamenti
I miei quattro parametri per “pesare” un allenatore in NBA sono i seguenti:
1) Le qualità tecniche Allenare non è per tutti. Parlo di schemi, ma anche di sangue freddo, di velocità di adattamento alle dinamiche che offre la partita, di aggiustamenti in corso d’opera, di partita e di stagione. Parlo di capacità di lettura a tavolino e di letture live, e di insegnamento. In NBA c’è poco tempo per allenare, con i continui spostamenti e le partite congestionate da un calendario senza pause. Serve attorniarsi di uno staff di qualità, formato dai tre assistenti che vanno in panchina col capo allenatore, ma anche degli altri collaboratori che sono preziosi soprattutto durante il lavoro in palestra.
La capacità di caratterizzare la squadra con un’identità, difensiva o offensiva, l’elasticità mentale che permetta di mettere i migliori giocatori nella condizioni ideali per eccellere, senza inseguire dogmi manichei o slogan populisti, sono doti speciali. L’esperienza conta, poi. Per reggere le pressioni costanti e feroci. Importante quanto stare tatticamente al passo coi tempi in uno sport che cambia per motivi di immagine, con le regole che vengono calibrate in questo senso, per renderlo più spettacolare, più appetibile come prodotto. Non esiste un gioco moderno, esiste un brand di marketing contemporaneo. Di cui va tenuto conto.
2) Le qualità personali Il carisma non si compra da Walmart. Una beautiful mind non è in vetrina, da Macy’s. Una spina dorsale non te la possono regalare, non ci sta, costretta in un pacco di Natale. Ci sono Coach che avrebbero avuto successo in qualsiasi (o quasi, dai) altra professione. Più intelligenti, più brillanti, più capobranco, perfetti per gestire un gruppo di lavoro eterogeneo per storie e culture, per doti tecniche, fisiche e temperamentali. Ce ne sono altri che sono al posto giusto, su una panchina. L’unico in cui si sentono comodi. “Nati” allenatori, non vorrebbero mai essere da nessuna altra parte e non sarebbero capaci di primeggiare, altrove. E poi ci sono gli intrusi. Sempre più frequenti, per dir la verità.
3) Il rapporto con la squadra Diverge dalle qualità personali, è più specifico. Un Coach in questa epoca può essere popolare perché yes man, servo più o meno sciocco che si mette a disposizione delle sue stelle. A cui concede tutto o quasi. Persino l’ultima parola su schemi e rotazioni. Questo lo rende allenatore comodo, se non addirittura amato, ma non per forza allenatore ideale. Perché dovrei pagare milioni per un allenatore così, nei panni di un proprietario? Poi si sono i Coach talebani delle X&O’s. Insomma, i professori da lavagnetta. Vecchia scuola. Inappuntabili, ma lontani da una realtà che fa di loro pedine sacrificabili se non gradite a stelle che spesso non vanno oltre il leggere e scrivere basic. Che non chiedono ghirigori, ma linguaggio semplice, fiducia, responsabilità. E talvolta persino adulazione. Non vanno più bene neanche loro. Poi c’è la categoria ideale, rara come un cocktail dagli ingredienti segreti, ma maledettamente gustosi. Gli allenatori preparati, capaci di far gruppo, ma di mantenere l’autorevolezza. Non amici, ma neppure nemici dei giocatori. Rispettati per la qualità nel loro lavoro. Competenti senza essere troppo egoisti, determinanti senza voler fare ombra a chi esegue le loro formule tattiche.
4) La comunicazione: i rapporti col mondo Non va sottovalutata. Perché conta tanto. La capacità di presentarsi bene in TV o su Zoom, è presupposto indispensabile per un allenatore NBA, ormai. Serve essere credibili, provare a essere “freschi” millantando o rappresentando novità/modernità, saper essere divertenti e franchi almeno ogni tanto, e se serve una bugia per il bene dei “propri ragazzi” non dirla troppo grossa, perché poi ti potrebbe essere presentato il conto. Serve essere buonisti, quando si tratta di politicamente corretto. Purtroppo. C’è modo e modo, comunque. Meglio evitare di essere falsi come Giuda, per non dimostrarsi ottusi, con personalità così debole che è imposta dal protocollo di circostanza. Serve poi avere la pelle dura. Perché certi mercati, Los Angeles, New York, Boston, ti spellano vivo. Pronti a fare di te un capro espiatorio comodo, quando le cose non vanno bene.
Le pagelle per categorie
Se passiamo in rassegna i 30 allenatori NBA attuali pochissimi rispondono al meglio ai quattro requisiti sopra elencati. Perché vengono scelti dai giocatori, prima ancora che dai General Manager. In maniera empirica, non ragionata. Per simpatie, persino. Per tenere buona una stella, o dare un “nome” in pasto a una tifoseria. Phil Jackson e Pat Riley, fenomeni della loro generazione, non potrebbero allenare, nella NBA contemporanea. Troppo ingombranti come personalità. Farebbero ombra alle stelle, creerebbero frizioni con un linguaggio troppo autentico, pane al pane. Sarebbero troppo esigenti e perfezionisti.
Ci sono i santoni, come Popovich (San Antonio) e Carlisle (Indiana). Esperti, con un curriculum con un elenco di riconoscimenti da far concorrenza alla fila di macchine che scorrono mattina/sera/notte di fronte a Penn Station, proprio davanti al Garden. Preparati, carismatici. Ma moderni? Freschi? Capaci di rapportarsi coi giovani per tirare fuori il loro meglio? Mah, forse no.
Ci sono i parvenu, i vari Udoka (Boston), Unseld (Washington), Mosley (Orlando), Green (New Orleans), Silas (Houston), Daigneault (Oklahoma City). Ci sono gli ex grandi giocatori, Nash (Brooklyn), Kidd (Dallas) e Billups (Portland) che devono dimostrare di valere oltre la loro reputazione sul parquet.
Ci sono i veterani, solidi, ma non dei geni del pensiero come McMillan (Atlanta), Casey (Detroit) e Gentry (Sacramento) e le loro versioni più accessoriate, come allori, Rivers (Philadelphia) e Thibodeau (New York). E poi color che son sospesi, parliamo di Bickerstaff JR (Cleveland), Finch (Minnesota), Borrego (Charlotte), Jenkins (Memphis), sui quali la giuria non si è ancora espressa, meditabonda.
Poi ci sono quelli bravi, MA a cui manca ancora un centesimo per fare un dollaro. A Snyder (Utah) manca l’exploit ai playoff, Nurse (Toronto) deve dimostrare di essere più del miraggio di una stagione magica, a Vogel (LA Lakers) manca il carisma, a Williams (Phoenix) la riprova ad alti livelli, a Donovan (Chicago) la consacrazione, persino a Budenholzer, campione in carica con Milwaukee manca più di qualcosa, senz’altro l’appeal. Ha vinto il titolo dopo essere stato a 2 centimetri, quelli che separavano il piedone di Kevin Durant dalla linea dei 3 punti, dal licenziamento, se solo quel tiro fosse stato scagliato da appena più indietro, in gara 7 contro i Nets, gli scorsi playoff.
Poi ci sono i casi Lue (LA Clippers) e Malone (Denver). Paperino ve l’ho raccontato in tutte le salse: perfetto signorsì, sino a 10 anni fa non avrebbe potuto fare il capo allenatore, adesso è funzionale ai tanti campioni che non vogliono sentirsi impartire lezioni sul gioco da nessuno. Malone è il mio allenatore NBA preferito, adesso. Intelligente, alla mano, pane al pane, fantastico raccontatore di storie di pallacanestro, duro quando occorre, eppure sempre capace di far gruppo. Ma gli manca il riconoscimento a livello nazionale, confinato sul cucuzzolo della montagna, o meglio delle Montagne Rocciose, da mentore di Jokic.
Parentesi: non c’è uno straccio di allenatore europeo. Non c’è mai stato, a parte la toccata e fuga di Kokoskov a Phoenix. Ma lui aveva comunque una formazione di basket statunitense, non da Vecchio Continente. Per una lega che si proclama inclusiva, beh, è l’elefante nella stanza. E dire che avrebbero tanto da insegnare, ma persino Ettore Messina ha dovuto fare anticamera e poi salutare l’America. Il mondo alla rovescia…
I due fuoriclasse
Se avete fatto bene i conti, sì, dal mazzo sono avanzati due allenatori. Che per me a oggi sono gli unici che fanno la differenza a prescindere dal gruppo che hanno a disposizione: Kerr e Spoelstra.
Kerr ha avuto successo da giocatore, da commentatore, da dirigente e da allenatore, in NBA. Intelligente, pratico, capace di empatia col prossimo, carismatico. Domatore di leoni (Green) e pantere (Durant), allevatore di purosangue (Curry). L’allenatore dei Warriors è uno dei cardini della recente dinastia di successi Dubs. Gioca una pallacanestro bella da vedere, sa adattarsi ai suoi fenomeni, lo ha dimostrato nella parentesi con KD, gode della fiducia delle proprie stelle, si vende bene davanti ai microfoni: figura da surfista mancato e argomentazioni politiche che vanno di moda, di questi tempi.
Spoelstra è meno coreografico, ma maledettamente solido. Caratterizza le sue squadre, che difendono forte e giocano duro, sono sempre in grande condizione atletica. In Butler ha trovato la perfetta sponda sul parquet, ma non è difficile andare d’accordo con Spo. Agonista feroce, come Kerr, dietro l’aria affabile. Ne conto solo due, però. Non è una lega per centri, ormai. Se non sei un fenomeno, come Jokic o Embiid. E non è una lega per Coach, ormai, se non sei Kerr o Spoelstra. Chissà che non possiamo ritrovarli a darsi battaglia alle Finals. Sarebbe uno spettacolo tattico, oltre che atletico, per una volta. Maledetta nostalgia…