Karma Police
Arrest this man
He talks in math
He buzzes like a fridge
He’s like a detuned radio
“Polizia del Karma, arrestate quest’uomo! Parla in numeri, ronza come un frigorifero, è come una radio desintonizzata” cantavano i Radiohead nel 1997, quando, per darvi un appiglio temporale completamente fuori contesto, da tre anni la NBA utilizzava già il sistema di lottery mandato in pensione la scorsa estate. Stando agli autori stessi della canzone, “Karma Police” è ispirata ad un tormentone interno alla band durante la registrazione dell’album “OK Computer“: quando qualcuno faceva qualcosa di male, gli altri lo minacciavano di chiamare la Polizia-del-Karma. Sembra tanto l’analogo orientaleggiante del fantomatico cugino che lavora alla postale, sebbene abbia un significato più profondo che, però, a noi poco interessa. Perché in realtà i Radiohead ci stavano parlando di tanking.
Karma Police
Nei primi trent’anni di vita della NBA la lottery non esisteva; la peggior squadra della Eastern Conference sfidava a duello la peggior squadra della Western Conference nella nobile arte del coin flip, il “testa o croce”. La pratica era stata introdotta nel 1966, perché fin dalle prime stagioni i dirigenti avevano iniziato a perdere partite strategicamente con la certezza di ottenere la scelta corrispondente al proprio misero record. E c’è chi pensa che il tanking sia un’invenzione della nostra degenerata generazione… ma non divaghiamo. Oggi fa sorridere, eppure al tempo il lancio della monetina era consuetudine negli sport, tanto che il capitano della Nazionale di calcio Giacinto Facchetti conquistò l’accesso alla finale degli Europei del ‘68 non segnando un gol ma vincendo a testa o croce contro i russi.
Prima del ‘66 le squadre avevano anche l’opzione della territorial pick, un tentativo della giovane NBA di attirare tifosi verso le franchigie locali. Usandola, si rinunciava alla propria prima scelta, sostituendola con un qualunque giocatore di un college nel raggio di 50 miglia dalla propria arena. Esempio: c’è questo ragazzo interessante, Wilt Chamberlain, che gioca a Kansas University e i Philadelphia Warriors avrebbero diritto, stando al record, solamente alla terza scelta? Sfruttando la territorial pick si accaparrano il giocatore più dominante di sempre con buona pace di Cincinnati Royals e Detroit Pistons.
La svolta arrivò nel 1984 dopo che i Rockets, peggior record della lega, ebbero vinto l’ultimo coin flip della storia contro i Blazers, che avevano ottenuto la prima scelta dei Pacers in uno scambio tre anni prima. Indispettiti dal 3-14 nelle ultime 17 partite stagionali, con cui Houston riuscì a farsi superare dai Clippers, i proprietari NBA decisero di introdurre in tutta fretta un rudimentale sistema di lottery. Il fatto curioso che il 38enne Elvin Hayes fosse stato in campo per 88 minuti totali – media stagionale, dodici – nelle ultime due fondamentali sconfitte dei Rockets venne motivato da Coach Fitch con il desiderio del giocatore di ritirarsi esattamente a quota 50’000 minuti giocati. Missione compiuta! Ma guarda, che coincidenza! Akeem – che all’epoca era ancora senza “H” – benvenuto in squadra! Per dovere di cronaca aggiungo che Fitch non era un grande amico o estimatore di Hayes, al punto che il primo giorno di allenamenti di quella stagione si raccomandò con Ralph Sampson, futuro Rookie of the Year: “Stai alla larga da quel no-good fucking prick di Elvin!”.
Ma anche ammettendo che Fitch e Hayes si fossero riavvicinati nel corso della stagione, il tornaconto di finire con un numero tondo di minuti quale sarebbe esattamente? Verrebbe da rispondere “Hakeem ‘The Dream’ Olajuwon”. In tutta questa vicenda, tuttavia, il risvolto più ironico e che dovrebbe servire da monito per tutti i sostenitori di un tanking esasperato è un altro. I Rockets sono sì riusciti a sfruttare un sistema studiato per garantire equità a proprio favore e si sono sì accaparrati uno dei migliori centri di tutti i tempi, ma due slot dopo di loro i Chicago Bulls hanno scelto Michael Jordan. E il futuro pluricampione olimpico Carl Lewis alla chiamata #208. Karma Police.
Intermezzo – Generali cinesi e dinornitidi neozelandesi
Nel celeberrimo “L’Arte della Guerra” Sun Tzu sostiene che se conosci te stesso e il tuo nemico, la vittoria sarà sicura. Principio valido sia per sottomettere regni ostili nella Cina del quinto secolo avanti Cristo, che più in generale nella vita di tutti i giorni e di conseguenza nei discorsi sul tanking, che fanno tristemente parte della quotidianità di chi scrive. Questo preambolo per mettere le mani avanti e dire che non sono un old man yelling at cloud, ma ho studiato a fondo i metodi di Sam Hinkie prima di giungere alle mie conclusioni. A proposito, se non lo avete già fatto leggete la sua lettera di congedo ai Sixers; oltre a contenere riflessioni e spunti validi in qualunque campo professionale si parla anche di moa, in parole poverissime un gigantesco uccello preistorico senza ali di circa tre metri per duecento chili. A volte sembra che tutto l’universo ci parli di tanking, ma non siamo qui per filosofeggiare e quindi non mi perderò in questo delirio. Torniamo a noi.
La prima lottery funzionava così: si mettevano insieme quattordici buste con i nomi delle squadre non qualificate ai playoffs e se ne pescava una alla volta per determinare l’ordine di scelta. Dopo un paio di anni e le prime teorie del complotto – ancora una volta: non ci stiamo inventando niente – si decise che solo l’ordine delle prime tre squadre sarebbe stato sorteggiato, mentre le altre avrebbero scelto in base alla propria posizione in classifica. Nel 1990 è arrivata la vera svolta, con il principio del weighted system utilizzato ancora oggi. Inizialmente era meno complesso: la peggior squadra aveva 11 palline su 66, la seconda 10, la terza 9 e così via, in modo da dare più possibilità alle ultime in classifica di scegliere fra le prime tre.
Ci sono voluti tre anni per affinare il sistema e arrivare al metodo attuale (14 palline numerate, 1000 combinazioni disponibili e altrettanti articoli in giro per il web che si addentrano nelle questioni tecniche, a differenza di questo), varato dopo che i Magic avevano ottenuto la prima scelta con un record di 41 – 41. Metodo che ha resistito con le stesse lottery odds assegnate alle squadre per 24 (∞) anni, fino alle modifiche introdotte nel 2018 proprio per scoraggiare altri esperimenti come The Process di Sam Hinkie.
OK Computer
#TrustTheProcess, un’idea geniale. Di marketing. Di gestione aziendale. Di comunicazione. Di pallacanestro? Nah. Eppure sembrava un piano perfetto, a prova di bomba. Molti detestano The Process perché ne hanno una visione estremamente banalizzata che ne equipara l’approccio a quello dei Rockets nell’anno uno A.L. (Ante Lottery). Si può dire che una delle tante ramificazioni del piano di Hinkie sia un’evoluzione del tanking occasionale che da sempre viene praticato e nei confronti del quale la NBA chiude un occhio, a patto che non si oltrepassino certi limiti per riuscire a mettere in campo ogni sera un prodotto presentabile. Questo era però solo un aspetto di un piano più ampio che comprendeva un profondo rinnovamento delle infrastrutture, del personale e delle prassi con cui si operava all’interno dell’organizzazione dei Philadelphia 76ers. In particolare, il tanking sistematico e apertamente dichiarato che ha reso famoso Sam Hinkie deriva da una intuizione corretta: per vincere in NBA, al netto di una gestione senza errori, serve una dose di fortuna enorme. Intuizione sviluppata secondo una logica ferrea e inattaccabile che aveva un solo, imperdonabile difetto.
Io credo di essere il peggior giocatore di tombola che la storia abbia mai conosciuto, ma so per certo che per vincere a tombola serve fortuna, e più schede si hanno più è facile che la fortuna arrivi. Lo stesso vale in NBA; per costruire una squadra vincente servono le star, che ci si può accaparrare in tre modi: draft, free agency o trade. Il draft offre statisticamente le probabilità maggiori, che aumentano con quante più scelte si hanno e con quanto più queste scelte sono alte, per cui Hinkie ha sfruttato trades e free agency allo scopo di migliorare la propria situazione al momento del draft. Ha ceduto tutti i giocatori di buon livello – ma non abbastanza forti da essere star – in cambio di scelte e ha liberato spazio nel salary cap per potersi far carico degli scarti altrui in cambio di altre scelte. Questo turbinio di transazioni ha portato all’annientamento del concetto di squadra e alla mancanza di una struttura stabile con veterani in grado di guidare i nuovi arrivi, rendendo il prodotto messo in campo dai Sixers inguardabile – come confermato dal crollo del numero di spettatori – e suscitando le ire dei proprietari NBA, che hanno avuto la meglio quando Hinkie è stato “invitato” a farsi da parte con l’arrivo di Colangelo e dei suoi colletti che non sono esageratamente grandi.
Vale la pena demolire fino a quel punto una squadra nella speranza di incappare in un giocatore che possa guidare una contender? Il draft non è una scienza esatta, e come ci insegna il caso dei Rockets, spesso sembra che la Karma Police intervenga per punire chi si è comportato male. Più razionalmente, le probabilità di incappare nella combinazione vincente sono così esigue che avere qualche scheda della tombola in più fa poca differenza. Nel 2013 i Sixers avevano la scelta #6 e la scelta #11, ma si sono lasciati scappare il futuro MVP Giannis, finito a MIlwaukee con la #15. Se avessero avuto la prima scelta l’anno dopo, probabilmente avrebbero selezionato “Maple Jordan” Wiggins invece dell’infortunato Embiid. Simmons ha reso secondo le aspettative, ma ancora non è un giocatore completo; Fultz doveva essere una garanzia, invece è stato un disastro. L’errore imperdonabile di Hinkie è la premessa implicita che i giocatori siano un bene dal valore quantificabile e prevedibile nel tempo, cosa che la storia del gioco ha smentito più e più volte. Quindi no, non vale la pena, soprattutto perché il prezzo da pagare è il maltrattamento del gioco che tutti amiamo.
Non sapremo mai in che modo Sam Hinkie sarebbe riuscito a gestire la fase di ricostruzione dopo l’arrivo di Embiid e Simmons; tuttavia, come ha osservato un anonimo GM qualche anno dopo le sue dimissioni, “non chiami la ditta di demolizioni se vuoi rimettere in piedi una casa”. Quando l’obiettivo dichiarato è perdere e il draft viene considerato una partita a tombola, non essendoci alcuna pressione, è molto facile rispettare le aspettative. Altrettanto facile è tralasciare tutti gli aspetti non misurabili che sono le fondamenta di una squadra vincente, ancor prima che la dea bendata la benedica con l’arrivo del tanto agognato franchise player. E se, quattro anni dopo la resa di Sam Hinkie, qualcuno è ancora convinto che l’approccio estremo di The Process possa funzionare, la mia risposta è molto semplice: OK Computer.