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NBA, casa delle seconde chance
Wiggins l’ha colta, ora Simmons?

Riccardo Pratesi by Riccardo Pratesi
23 Dicembre, 2021
Reading Time: 6 mins read
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L’America è il Paese delle grandi opportunità. Prima di andarci a vivere, pur dopo 17 viaggi, ne ero convinto. Dopo averci trascorso 4 anni da residente in tre Stati diversi, ne ho la certezza, ma per motivi diversi da quelli inizialmente immaginati: il livello di cultura e di professionalità medio è così basso che davvero c’è speranza per tutti. Soprattutto per chi arriva da una condizione economica e sociale insoddisfacente, altrove. L’America è anche il Paese delle seconde opportunità. L’ipocrisia che ne permea l’essenza sociale lo impone, quasi. E’ un vanto da politicamente corretto poter esibire una storia di redenzione, di quelle a lieto fine da film al miele hollywoodiano. Sotto Natale funzionano sempre, tra l’altro.

L’NBA non fa eccezione. Questi super atleti sono descritti come “poveri milionari” dalla narrativa corrente, costretti a una vita infernale, con la costante pressione da sopportare: di franchigie, allenatori e tifosi. E poi ci sono le aspettative pressanti da social network, i viaggi un giorno sì e uno no, beninteso tutto pagato in hotel 5 stelle in giro per gli States. Persino il tifo contro, e ora addirittura il Covid che si mette di traverso come fossero persone normali, screanzato. E gli allenatori hanno addirittura l’impudenza di chiedere loro di eseguire degli schemi, castrandone gli istinti e ferendone le sensibilità quando vengono criticati o perdono minuti per aver giocato male. Anzi, meno bene degli altri, dai. Così suona meglio, per la cronaca da “veline” che troppo spesso circola sui siti web d’oltreoceano. Come faranno, poveretti, col loro brand danneggiato, ad accumulare ulteriori milioni, costretti a condividere il parquet con altri 4 individui che si fanno chiamare “compagni di squadra”? A loro spesso neppure stanno troppo simpatici…

Il broncio di Simmons, separato in casa a Philly

Dura. Basta chiedere a Ben Simmons, ala australiana di Philadelphia, che non vuole più giocare con i 76ers. Perché il Coach, Doc Rivers, e il miglior giocatore della squadra, Joel Embiid, lo hanno criticato apertamente, addirittura con i media. L’oggetto del contendere? Aveva fatto schifo, come sempre, più che mai, ai playoff, stavolta quelli del 2021, costando l’eliminazione alla squadra, contro Atlanta. Dunque il 25enne di Melbourne l’ha presa male. Ha fatto il broncio. Lui non gioca più con “quelli lì”. Però nel 2019 ha firmato un’estensione contrattuale da 170 milioni di dollari in 5 anni, e non ha intenzione di rinunciare a un cent. Mica è colpa sua – sostiene – se non l’hanno messo nelle condizioni di essere il nuovo LeBron, l’aspettativa che lo aveva fatto scegliere al numero 1 del Draft 2016. E dunque si è dato “malato”. Salute mentale. Motivazione sensibile. tematica importante. Si è detto “mentalmente non pronto per giocare per le proprie aspettative”.

Non si è presentato al raduno. Poi per le partite di stagione regolare l’interrogativo vado/non vado, anzi sì che vado perché nel frattempo hanno smesso di pagarmi. Ma è presto diventato vado, ma mica gioco. E a questo ancora siamo. Al braccio di ferro via certificati medici, e Philly che non vuole farsi prendere per il naso, ma neppure recitare sui social la parte del Lupo Cattivo delle fiabe che se la prende con Principe Azzurro oltre le rivendicazioni legittime. Separati in casa. In attesa di scambio. In attesa che Morey, il primo dirigente, capisca che per Simmons non può (più) chiedere la luna. Deprezzato, perché persino nella patria dell’apparire, piuttosto che dell’essere, il fatto che deluda sistematicamente da 5 anni sul campo, e fuori non lo voglia vedere nessuno, tranne le sanguisughe Kardashian, non è passato inosservato. Ma siamo in America. Per cui s’aggrappa alla speranza della seconda chance. Che non si nega a nessuno. Anzi, fa tremendamente Stati Uniti. La foto, anzi di questi tempi lo screenshot, con in primo piano il (presunto) profilo buono.

La resurrezione di Wiggins

Può funzionare, sia ben chiaro. L’esempio Simmons ce l’ha proprio davanti, ammesso e non concesso che abbia lasciato per soli due minuti lo specchio dove si contempla infaticabile – “specchio, specchio delle mie brame, chi ha più talento nel reame?” – per guardarsi attorno. Andrew Wiggins, ala canadese, scelta numero 1 del Draft 2014 aveva deluso tutti per cinque stagioni e mezzo, nel Minnesota, la tana dei Wolves. Grande atleta, tanti punti nelle mani. Ma molle e perdente. Inefficiente come realizzatore, poco completo, difesa rivedibile e sacro fuoco sconosciuto, da acquistare magari su ebay, che tanto i soldi non mancano, per chi ne avesse in sovrappiù. Ho seguito Wiggins per lavoro da cronista per Gazzetta e Sky Sport da Minneapolis durante la stagione 2017-18. Sorriso dirompente che ti lascia spiazzato, balzi da giaguaro. In allenamento un mostro, in partita un gattino, spesso impaurito. Jimmy Butler se l’era mangiato vivo, allora. Sbranato. Prima ci aveva provato con le buone, a contagiarlo con la sua ferocia agonistica. Scommettendo con lui di partita in partita sul contorno alla dose quotidiana di punti. Rimbalzi, assist, palle rubate, giocate decisive con la gara in bilico. Ma Wiggins ne ha perse parecchie di quelle scommesse. Chiamato ad un compito più grande di lui. Bravo ragazzo, non un fesso, ma molle come un budino.

Come andrà stasera la partita Wigs?
“Andrà come Dio vorrà”

Wiggins il fatalista. Chissà come avrebbe commentato Kobe

I Wolves con lui in squadra hanno giocato solo una serie di playoff, proprio in quella stagione. Perché Jimmy Buckets ha fatto pentole e coperchi. Nel mese in cui è mancato per infortunio i Lupi sono diventati di peluche: Wiggins e Towns erano incapaci di trascinare il branco. Butler è dovuto rientrare di corsa, su una gamba sola, come racconto in 30su30 per preservare la qualificazione alla post season. Wigs a Minny era il giocatore sbagliato per quella squadra. Fatalista, troppo mite per recitare un ruolo da alpha dog. Specie da spalla di Towns, che ha paura della propria ombra, viziato e capriccioso. Specie in un ambiente permeato da una mentalità perdente. Da una filosofia di franchigia più interessata alla filantropia di superficie che alle vittorie sul parquet. La cultura dell’apparire rispetto a quella dell’essere, appunto. Molto americana. Poco funzionale in quel contesto al talento canadese.

Che però da Warrior si è rivelato incastro perfetto. Perché Golden State è la squadra di Steph Curry. Tutt’al più di Thompson, o di Dray Green, il leader vocale. Lui non deve guidare gli altri, deve limitarsi a giocare bene. E quello lo può fare. Anzi lo sa fare. Non gli chiedete di andare oltre il compitino, quello no. Era contro il vaccino anti Covid, lo ha detto e ribadito. Sincero. Poi ha puntualmente fatto il vaccino, perché gli hanno imposto di farlo. Non vi aspettate battaglie di principio, o in assoluto proprio battaglie, da lui. Animo troppo pusillanime, ognuno è fatto a modo suo. Lo ha proprio detto: “Spero ci sia qualcuno più forte di me, capace di far valere quello che pensa”. Ed è passato oltre.

Sul parquet è lo stesso. Perfetto per un ruolo secondario, specifico, specie se le cose vanno bene. E’ diventato persino un buon difensore, nella Baia californiana, rispetto ai precedenti al freddo del Minnesota. Ma non c’è da stupirsi. Prima che facesse i bagagli ricordo di aver più volte detto e scritto ai ragazzi di Italian Bay che sarebbe stato perfetto ingranaggio per i Dubs, nel caso avessero deciso di puntare su di lui. Perché in NBA i campioni sono pochissimi. Quelli capaci di brillare di luce propria, sempre e comunque. Tanti altri talenti, anche clamorosi, come Wiggins e Simmons, dipendono dal contesto. Ci vuole sempre prudenza nel giudicare. Perché mai come in questa lega, se non sei un fenomeno generazionale, vale il detto “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

Simmons può rilanciarsi? E dove?

E dunque anche per Simmons è solo una questione di tempo? Saprà rilanciarsi – parliamo comunque di un All Star, grazie al suo rendimento difensivo -, in un ambiente in cui sia chiamato a fare il suo, senza dover “strafare”? Beh, non andate così di fretta…Simmons ha un ego spropositato, a differenza di Wiggins. Da un lato non è per forza un male: in NBA la personalità serve. Dall’altro se il tuo ego è inversamente proporzionale all’etica del lavoro, beh, abbiamo un problema. Per capirci: Simmons se giocasse da lungo, con quelle doti difensive, quelle qualità fisiche e da passatore, potrebbe strabiliare, in un ruolo dalla Draymond Green.

MA: accetterà un simile declassamento, forte di un contratto che urla a squarciagola fenomeno, numero 1? Improbabile. E allora, paradossalmente, la docilità a volte frustrante di Wiggins è però più funzionale rispetto a un cambio di scenario se paragonata all’alterigia che Ben dimostra col mondo, a partire dai compagni di squadra, fin dai tempi di Baton Rouge, quando i suoi compagni lo avrebbero figurativamente dato volentieri in pasto alla tigre che rappresenta Louisiana State University…Chi lo vuole, Mr Simmons, deve leggere attentamente le avvertenze prima dell’uso. Come fosse un medicinale.

SE, e non è un se da poco, Simmons accettasse un ruolo meno centrale come fulcro dell’attacco o quantomeno come finalizzazione, a discapito per una volta dei suoi numeri e del suo scintillante brand, se accettasse di tirare da 3 punti come fanno tutti gli altri, nonostante il sangue blu da predestinato, se si mettesse a disposizione di una franchigia e non pretendesse che la franchigia si mettesse a sua disposizione, sarebbe un rischio da prendere. Ma i SE sono tanti. Forse troppi, per adesso nessuno si è fidato. Che vitaccia per questi poveri milionari…

Tags: Golden StatePhiladelphia 76ersSimmonsWiggins
Riccardo Pratesi

Riccardo Pratesi

Direttore http://the-shot.it. 20 anni da scriba per Gazzetta dello Sport: Juventus&Nazionale poi NBA&NFL 4 anni dagli USA, ora dall'Italia. 228 gare NBA da cronista live, 33 di NFL. Dal 2014 al 2018 corrispondente dal'America per Sky Sport 24. Podcast: NBA Milkshake. Autore: 30su30 versione cartacea e ebook aggiornata

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