Fu vera gloria? Scomodiamo Manzoni e Napoleone per parlare di Anthony Davis, campione dello sport che per diventare generale (di campo) indimenticabile è atteso a un ultimo, ma necessario salto di qualità. La scintilla che origina questo articolo è una statistica su cui mi sono imbattuto, che per dirla tutta mi ha investito come un camion: per il lungo dei Los Angeles Lakers 68 vittorie e 24 sconfitte (73.9%) quando gioca di fianco a LeBron e 225 vittorie e 263 sconfitte senza LeBron vicino (46.1%).
C’è di più: senza il Re come salvagente Davis ha giocato 2 volte i playoff in 7 stagioni, vincendo appena una serie. E dunque, siccome parliamo di uno dei primi tre lunghi della lega, le gerarchie del podio con Nikola Jokic e Joel Embiid sceglietele pure voi, siccome parliamo di chi ha festeggiato un titolo NBA appena due stagioni fa, di un talento che fa la differenza su entrambi i lati del campo, da quasi 24 punti e oltre 10 rimbalzi per partita per la carriera, ma pure di un giocatore di 28 anni, sulla carta al suo meglio, che senza LeBron continua a non incidere sui risultati di squadra, 3-5 in questa stagione con LeBron in infermeria, fu vera gloria? Perché tanti, ingenerosamente forse quasi tutti, tendono dare la colpa a Westbrook, per questo avvio di stagione gialloviola zoppicante, ma la logica dice che sarebbe semmai dovuto essere Davis il principale appiglio, senza James, rispetto all’ultimo arrivato. Quantomeno per continuità di militanza, se non per status. Giusto?
E più ancora, dunque: quanto contano nella valutazione di una stella NBA i risultati di squadra? Perché il talento individuale è una cosa, la capacità di metterlo al servizio di un gruppo di lavoro un’altra. Ci sono poi leader emotivi e leader tecnici. C’è chi ha il pane e non ha i denti e chi ha i denti e non ha il pane, intesi come talento e testa, nell’universo NBA. Insomma la sublimazione di un talento passa sempre dalla vittorie corali, possibilmente da trionfi. Proviamo ad andare più a fondo, che l’argomento è intrigante.
Davis ai Lakers: Lancillotto di Re Artù (ehm, LeBron)
Davis ai Lakers non è arrivato esattamente per un pezzo di pane. Nemmeno quello costoso di Panera, per usare standard americani. Arrivato semmai nella città degli angeli da New Orleans, nel giugno 2019, nello scambio imbastito per Brandon Ingram, poi All Star, Lonzo Ball, una delle facce dei Bulls rivelazione di questo avvio di stagione, Josh Hart e tre scelte di primo giro. Quello che in teoria sarebbe dovuto essere uno spettacolare blocco giovane di supporto ai connotati voluminosi di Zion Williamson, il presunto erede di Davis nella Big Easy. E Davis nel dicembre 2020 ha poi griffato un contrattino da 190 milioni per 5 anni…
Davis in California ha vinto al primo colpo. Da ancora difensiva di una squadra che Coach Vogel e (soprattutto) LeBron avevano costruito con quella identità forte. Davis è costantemente in lizza per il premio di difensore dell’anno, se la gioca da sempre con i soliti noti, Gobert, Green, Leonard e Antetokunmpo. In più ha portato in attacco ai Lakers una dimensione sotto canestro che poche squadre possono permettersi di questi tempi in cui i lunghi NBA fanno spesso il lavoro sporco sotto i tabelloni avversari, da complemento, più che da punto focale. Davis ha tutto: movimenti sotto canestro, tiro dalla media, prepotenza atletica in transizione e a rimbalzo offensivo. Ok, non sarà passatore alla Jokic, Divac o Sabonis, ma la scuola europea per quel fondamentale resta inimitabile.
La stagione accorciata, spezzata dalla pandemia che si è chiusa tra i coriandoli nella bolla di Orlando, a casa Disney, paradossalmente è stata la tempesta perfetta per Davis, fragile come un cristallo. Meno partite, tempo per recuperare e ricaricare le pile, insomma, è riuscito a stare lontano dagli infortuni. Missione invece fallita la scorsa stagione, quando ha giocato appena 36 volte prima dei playoff, dove i Lakers sono durati poco, mandati a casa al primo turno dai Phoenix Suns, con Davis che si è rotto di nuovo, quando contava di più. In ogni caso, che abbia dominato, brillato, sfolgorato solo a intermittenza, deluso rispetto alle enormi aspettative, Davis ha sempre e comunque interpretato il ruolo di Lancillotto per Re Artù, pardon LeBron. Quello del primo dei secondi, rispetto al primattore del film cult di Hollywood chiamato Lakers. Leader tecnico, a volte. Mai emotivo. Parla poco, Davis. Che ha personalità, sia chiaro, ma non è trascinatore di uomini naturale. Fa parlare il campo, ecco. Ma non vi aspettate comizi sportivi che scaldino i cuori alla Any Given Sunday o Jerry Maguire. Quello non è il suo pane.
Davis ai Pelicans: la solitudine dei numeri primi
A New Orleans ha assaggiato i playoff alla terza stagione, a 21 anni. Toccata a fuga, nel 2015: 4 partite contro i marziani Warriors, la versione Splash Brothers di inizio dinastia Dubs. Primo (e ultimo) turno. Poi ci è tornato due stagioni dopo. I Pels erano da corsa, allora. Rondo e Holiday come esterni, l’estro di Mirotic, il talento bizzoso di Cousins (poi infortunatosi) a dargli una mano sotto canestro per una versione moderna (e molto minore) delle Twin Towers di San Antonio Robinson/Duncan. Portland “cappottata” 4-0 al primo turno, modello Turning Tables di Adele, la fidanzata cantante del suo agente, l’inquietante Rich Paul, rispetto alla (sua) storia classica. Ma i glory days erano durati poco. Con i soliti dispettosi Warriors di mezzo: stavolta sconfitta in 5 partite, serie mai in discussione. Tanto a poco.
Anche allora, al culmine come risultati della sua era da uomo franchigia in Louisiana, Davis non era comunque il leader vocale della squadra. Rondo sdottorava da allenatore in campo, colmando i silenzio di Holiday e Davis, appunto.
Davis e l’arte di vincere. Stockton e Paul non sono Cousins e Towns
“You play to win the game”. In America ogni tanto sono costretti a ricordarlo in questa sciagurato momento storico in cui passa il concetto che lo scopo del gioco sia rendere ricco come uno sceicco questo o quel giocatore. Si dovrebbe ancora scendere sul parquet per vincere le partite, non pensando a massimizzare il proprio brand finanziario. Quella dovrebbe essere una conseguenza, semmai. Chiaro che la pallacanestro non è il tennis, sport individuale. Si gioca in 5 per cominciare le partite, con organici di 15 giocatori e rotazioni di 9/10 elementi, ai playoff un po’ più ristrette, come dopo una lavatrice “sbagliata”. Ci sono fenomeni come John Stockton e Steve Nash, oppure Karl Malone e Charles Barkley, giusto citare loro visto che parliamo di un lungo, che si sono guadagnati l’immortalità sportiva pur senza riuscire ad alzare un Larry O’Brien Trophy. Chris Paul sta ancora inseguendo il primo trionfo, dopo aver raggiunto le Finals per la prima volta a 35 anni. E in fondo davvero un Kevin Durant che si “compra” un paio di titoli ai Warriors vale di più di quanto valeva prima di trasferirsi nella Baia per andare a incassare trofei in una squadra da record che aveva già dimostrato di saper vincere senza di lui? Forse no.E poi nel caso di Davis non parliamo di un lungo alla Cousins o Towns, che sono costati una fortuna alle loro franchigie che hanno reso presto ostaggi dei rispettivi limiti caratteriali, da bandito nel caso di Boogie, da Peter Pan viziato e capriccioso in quello di KAT. E comunque Davis, appunto, un anello NBA lo può già sfoggiare.
Ma da secondo violino. Da primo sinora, sempre e dovunque, da professionista, ha dimostrato di incidere pochissimo rispetto ai campioni elencati. Gli stessi Embiid e Jokic con cui è giusto raffrontarlo ad oggi, hanno inciso sui record di franchigia di Philadelphia e Denver in modo clamoroso, certo più di lui. Senza di loro, 76ers e Nuggets sono persi. Con loro in salute Philly e Denver hanno dimostrato di poter essere quantomeno contender, di giocarsela, ai playoff. Davis no, tra Pelicans e Lakers. Bravo, bravissimo, in campo, pochissimi effetti collaterali fuori, ma a livello di record di squadra “sposta” solo se “ben accompagnato”. A lui la palla per cambiare la storia e diventare davvero il successore al trono del Re. E non più soltanto il suo primo Cavaliere.