Pippen attacca Jordan. Le anticipazioni del libro in uscito dell’ex ala dei Bulls, che assieme a “Sua Altezza” Michael Jordan ha vinto 6 titoli per Chicago, da suo compagno di squadra dal 1987 al 1993 e poi dal 1995 al 1998 fanno discutere. “Mai stati amici. Ha trasformato The Last Dance in una promozione personale, rivedere come trattava i suoi colleghi mi ha messo i brividi oggi come allora. Egoista e insensibile”. Le accuse equivalgono ad un attacco frontale, che non lascia dubbi sue due cose: anzitutto Pippen ha bisogno di pubblicità e verosimilmente di soldi e per lanciare Unguarded, in uscita dal 16 novembre, aveva bisogno di frasi forti che incuriosissero i potenziali lettori. Poi è palese che non abbia rapporto con Jordan: non metti nero su bianco virgolettati di questo tipo se ti aspetti di mantenere anche solo una parvenza di rapporto di facciata con lui.
L’argomento è interessante: è necessario essere amici, o quantomeno andare d’accordo, per vincere nello sport di squadra, in particolare nella pallacanestro, nel dettaglio nel basket NBA? La risposta è no. Aiuta, di sicuro. Ma se c’è professionalità, e soprattutto fame di successi, si può vincere anche, in modo episodico ma non solo, quando si è separati in casa. E se pensate che Pippen e Jordan rappresentino il passato remoto, una dinamica che non sarebbe ripetibile al giorno d’oggi, beh, vi dico di ripensarci e vi invito a leggere il prosieguo del pezzo.
Kobe Bryant e Shaq O’Neal erano tutto tranne che amiconi, eppure hanno vinto tre anelli ai Los Angeles Lakers a inizio anni ‘2000. Troppo lontano, dite? Ok, allora che ne pensate dei Golden State Warriors capaci di vincere due anelli con Kevin Durant e Draymond Green che avevano dovuto essere separati in spogliatoio dai compagni, per evitare il peggio? Parliamo di ieri…Proviamo ad approfondire le tre dinamiche, per capire, fermo restando che è pacifico che se hai una superstar con pochi spigoli come Tim Duncan (agli Spurs) o Dirk Nowitzki (ai Mavericks) vincere diventa più facile, o comunque meno difficile. Però, appunto, non vanno vendute nemmeno le storie da zucchero filato. Si vince anche con tempeste in spogliatoio da far impallidire porti oceanici…
Jordan e Pippen, un Batman e un Robin
I Bulls di Coach Jackson partivano già avvantaggiati: le gerarchie di quei Bulls da dinastia di successi erano chiare: Jordan era la stella, forse il campione NBA migliore di sempre, comunque il migliore della sua generazione, Pippen era il perfetto secondo violino. La spalla ideale per caratteristiche tecniche e indole personale. Pippen senza Jordan poi non ha mai vinto, altrove. Difficilmente senza di lui avrebbe vinto dovendo recitare il ruolo da primattore. Parliamoci chiaro: Jordan era (ed è rimasto, sino a prova contraria) insopportabile all’epoca. Quell’agonismo famelico e feroce che ne faceva uno spauracchio sul parquet per gli avversari aveva come effetto collaterale quello di ostentare un atteggiamento tirannico e borioso verso i compagni.
Però faceva comodo a tutti. Se i Bulls vincevano, soprattutto grazie al numero 23, anche i vari Pippen, Rodman, Kerr, Grant, Kukoc, per citare i nomi più noti del doppio ciclo di successo di quella Chicago, potevano vivere di luce riflessa. In vetrina, con gli occhi stropicciati e increduli per tanta grandezza di tutta l’America puntati addosso. Per cui Coach Jackson, non a caso Maestro Zen, doveva soprattutto, più ancora che far eseguire il triangolo f’attacco offensivo come schema, preoccuparsi delle personalità combustibili del suo spogliatoio e lavorare da leader di uomini, da pompiere, spegnendo gli incendi che periodicamente erano destinati a scoppiare. Quando assommi quel talento, più che gli avversari, che pure erano di livello, devi temere l’implosione. Col senno di poi la sua figura diventa persino più centrale, per tenere a bada quello spogliatoio e quelle teste, per dire Rodman era un pazzo furioso, c’è voluto un temerario domatore di leoni.
Shaq e Kobe, anzi Kobe e Shaq
Se dalla città del vento ci spostiamo sulla Costa Pacifica e con la macchina del tempo facciamo un salto in avanti, a Los Angeles sponda Lakers, troviamo ancora Coach Jackson. Più zoppicante, che quelle anche lo hanno poi fatto tribolare, negli anni. Ma i campioni, le colonne portanti di un nuova dinastia di successi, sono differenti. Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, gemelli diversi, appunto.
In questo caso il gap era anagrafico, di status e formazione sociale e culturale. Shaq era il “mostro”, lo scherzo della natura, “Freak of Nature, dicono in America, che spazzava via gli avversari col fisico, da supereroe di film fantasy. Un gigante per forma e di sostanza. Predestinato sin dai tempi in cui era magro (!) a Baton Rouge, a Louisiana State, al college. Già consacratosi campione ad Orlando con i Magic prima di decidere di spostarsi da Disneyworld a Hollywood. Kobe era una promessa, ma è emblematico che al debutto da Laker, 25 anni fa, abbia giocato appena 6′, allora. Non era atteso come l’uomo franchigia. E invece sarebbe diventato l’erede di Jerry West…Shaq non aveva fatto la fame da ragazzino, sia chiaro. Ma Kobe veniva da una buona famiglia, intesa come redditi, col padre cestista che gli aveva aperto scenari impensabili per un ragazzino statunitense, facendogli vedere anche il mondo oltre oceano. Kobe aveva studiato (allora in Italia la scuola era di qualità…) nel Belpaese. Teenager sveglio, persino brillante, aveva sviluppato un’apertura mentale inusitata per gli standard americani.
Insomma Shaq era il numero 1, e Kobe il numero 2 (staccato) inizialmente. Poi con gli anni i ruoli sarebbero cambiati. Sarebbero diventati il numero 1 e il numero 1 bis. Appaiati o quasi. E nei piani di franchigia Kobe aveva già operato il sorpasso, più futuribile e più facile (anzi, meno difficile, considerato che pure Bryant era un discreto peperino) da gestire. Quando era diventato chiaro che lo spogliatoio dei Lakers non era più abbastanza grande per contenere entrambi, i Lakers avevano augurato buona fortuna a Shaq e puntato sulla Mamba Mentality. I rimpianti sono ovvi: quanto avrebbero potuto ancora vincere assieme? Però hanno conquistato 3 titoli, dal 2000 al 2002. Tanto. Ed era impossibile farli coesistere a medio termine: quando Shaq all’alba accendeva la luce di casa, di ritorno dai locali della città degli angeli, Kobe premeva l’interruttore della sua mansione per cominciare ad allenarsi, con le prime ore di luce…
Durant, Green e la pazienza di Giobbe Curry
L’epopea dei Warriors l’ho vissuta di persona. Da cronista dalla California, da beatwriter dei Warriors, con posto in tribuna riservato all’Oracle Arena di Oakland. Ero presente alla conferenza di presentazione da Warrior di Durant. E avevo seguito live la precedente stagione dei record, quella da 73 vittorie in regular season, per battere proprio i Bulls di Jordan e Pippen che si erano fermati a 72. Per capirci, la versione Dubs degli Splash Brothers, quella dell’incompiuta alle Finals, tra uno sgambetto di troppo di Green, la stoppata indimenticabile di LeBron e il tiro capace di rendere suggestivo persino il (suo) terrapiattismo di Irving…
L’arrivo di Durant era immaginato da tanti, troppi, come l’anticipazione di trionfi scontati. Insomma, un top player si aggiungeva a un super team, cosa sarebbe potuto andare male? Beh, parecchie cose. Durant è stato salvato dal basket, parliamoci chiaro. I limiti sono molteplici: non solo “non ci arriva”, parecchie volte, ma è pure corrosivo, spesso, in uno spogliatoio. E quello spogliatoio aveva già un Grillo Parlante, Green. Uno che dice le cose in faccia in modo brutale, non sempre sacrosanto, spesso fastidioso. Le due personalità, flamboyant quella di Dray, con attitudine passiva-aggressiva quella di Durant, erano destinate a scontrarsi. Si trattava solo di comprare i popcorn e piazzarsi in un punto d’osservazione privilegiato. Poi c’era Curry. L’uomo franchigia, il numero 1 dichiarato. Come si sarebbe comportato con l’arrivo di un altro numero 1 che certo un passo indietro non avrebbe neanche immaginato di doverlo fare?
La risposta nella Baia californiana, dove mi portava il Maggiolone sosso, da Sacramento, come racconto in 30su30, libro/diario di viaggio/di sport, affrontando un traffico che equivaleva a una stoppata di Mutombo, l’avrei ricevuta in pochissimo tempo. Chiara. Curry fece da subito un passo indietro. Tecnico, non di ruolo nella franchigia. Rimase l’uomo immagine dei Dubs, quello con l’ultima parola in spogliatoio, ma sul parquet permise a Coach Kerr di modellare i Dubs secondo le esigenze di Durant. Qualche isolamento in più, un filo di ritmo e movimento di palla in meno. Ultimi palloni recapitati all’anima lunga, che altrimenti avrebbe mandato in corto circuito il sistema Dubs. Così sono arrivati due titoli. I Dubs hanno vinto tanto. Hanno anche perso, complici gli infortuni. E Durant, sempre in guerra col mondo, accerchiato dagli spettri che si crea da solo, che quel background sociale infame in cui è cresciuto non lo auguri a nessuno e lascia per forza cicatrici eterne sulla pelle e nell’anima, se n’è andato. Sbattendo pure la porta. Suo classico, già sperimentato a Oklahoma City.
Ma non pensiate che quei due trionfi siano arrivati con una “passeggiata nel parco”. Il talento di quei Dubs era indescrivibile, vero. Ma ricordo quando alle Finals a Cleveland del 2018, ancora coi vestiti zuppi di champagne per i festeggiamenti, David West e Shaun Livingston ammisero candidamente ai cronisti, e c’ero anch’io, che i Dubs avevano rischiato più volte che saltasse il banco per combustione interna. Dettero grandi meriti a Coach Kerr, come Jackson, ex suo giocatore, uomo di mondo che aveva capito che ai suoi fenomeni serviva più un confidente diplomatico che un allenatore talebano da lavagnetta tattica. Ma mentre Durant alzava il trofeo di MVP delle Finals e Green urlava sguaiato la sua gioia, c’era quello piccino che tira da lontano a cui brillavano gli occhi chiari. Di gioia e furbizia: si compiaceva di aver ultimato un capolavoro. Aveva battuto il suo orgoglio ed era passato all’incasso. Da gemelli diversi. E lui, “figlio di papà” privilegiato, con Durant aveva pochissime affinità elettive, ma erano comunque riusciti a vincere e poi rivincere. Per poi dirsi addio, perché la convivenza da separati in casa non può mica essere eterna…