Quanti sono gli allenatori NBA che in questo momento possono incidere davvero sull’andamento di una franchigia? Quanti sono quelli che hanno realmente il potere decisionale nelle proprie mani? Pochi? Pochissimi? Sicuramente meno rispetto al passato, ma la Lega è cambiata radicalmente negli ultimi vent’anni, di pari passo con l’evoluzione del gioco.
Nel processo però anche la bilancia del ‘potere’ ha spostato lentamente l’ago dalle mani degli allenatori a quelle dei giocatori, dei general manager e degli agenti. Eppure qualche allenatore che fa la differenza si trova ancora: Thibodeau è riuscito a dare una scossa culturale ai Knicks in meno di 6 mesi, Spoelstra resta uno dei principali punti di forza degli Heat, Snyder sta toccando vette impensabili con i Jazz e Popovich, anche se sul viale del tramonto, resta comunque Pop. Una manciata di nomi a cui sicuramente possiamo aggiungerne ancora un paio, possiamo addirittura provare ad arrivare a 10, ma siamo comunque molto lontani dal 50% della Lega.
Il numero esatto è relativo, la categoria invece è piuttosto oggettiva e sicuramente ne fa parte anche Brad Stevens. Per la maggior parte degli addetti ai lavori il nativo di Zionsville è nel podio degli allenatori migliori della lega. Almeno questa era la percezione generale fino a qualche mese fa, ma l’attuale deludente stagione dei Celtics sta minando non poche certezze. Per provare a comprendere se ci troviamo di fronte ad un prolungato abbaglio collettivo o ad un fisiologico calo legato a un ciclo cominciato nel 2013 dobbiamo sicuramente fare qualche passo indietro.
Da dove arriva Stevens
Brad Stevens nasce a Zionsville, una piccola cittadina appena fuori dall’area metropolitana di Indianapolis, e si avvicina subito al basket come la maggior parte dei bambini nati in Indiana. Gioca playmaker ovviamente (per stazza e QI cestistico) e comincia la sua carriera da giocatore restando dietro casa: 4 anni alla Zionsville Community High School.
Qualche record infranto e tante buone prestazioni gli valgono la borsa di studio a Depauw University, una piccola università con sede Greencastle nota più per aver dato vita alla ‘Society of professional journalists’ che per il programma sportivo. Stevens, infatti, poteva scegliere tra sette atenei interessati, ma l’attuale coach dei Celtics aveva già capito che non avrebbe avuto un futuro come giocatore di pallacanestro per cui scelse l’offerta formativa migliore.
La carriera cestistica si avvia sui binari dell’anonimato mentre decolla quella lavorativa. Stevens si laurea in economia con il massimo dei voti e trova subito lavoro nel dipartimento marketing del colosso farmaceutico Eli Lilly and Company. Non abbandona però la grande passione per il basket e continua a curare in modo particolare i rapporti con Butler University dove aveva dato una mano per diversi anni durante i camp estivi. Nel 2000, ad un solo anno di distanza dalla laurea, sono proprio i Bulldogs ad offrirgli il suo primo incarico di lavoro da allenatore, ovviamente non retribuito.
Per rendere la situazione economicamente sostenibile per sé stesso e per la sua storica fidanzata Tracy Wilhelmy Stevens decide di trasferirsi nello scantinato di un amico a pochi passi dal campus e di lavorare part-time da Applebee’s. La fortuna però è sempre pronta ad aiutare gli audaci: mentre Brad si prepara per una nuova avventura Jamal Meeks, uno degli assistenti di Than Matta (all’epoca HC di Butler), viene arrestato per questioni legate alla droga. Si apre improvvisamente una posizione e Stevens viene ufficialmente assunto da Butler come ‘coordinator of basketball operations’ sotto il capo allenatore Matta.
La stagione successiva Butler cambia condottiero promuovendo il vice Todd Lickliter che a sua volta promuove l’ex collega Stevens affidandogli il ruolo di full-time assistant coach. Cinque stagioni da assistente che forgiano in maniera definitiva l’allenatore classe 1976 prima che Lickliter nel 2007 decida di spostarsi sulla panchina di Iowa spianando la strada proprio a Stevens.
L’enfant prodige
Stevens alla veneranda età di 31 anni chiude la sua prima stagione da capo allenatore in NCAA con un record di 27-3 in regular season, 2-0 nel torneo della Horizon League e una vittoria al primo turno del Torneo NCAA, prima di cadere ai supplementari contro Tennessee nella gara successiva. Con le 30 vittorie stagionali conquistate Brad diventa il terzo coach più giovane di tutti i tempi raggiungere questo traguardo in Division I, nonché il quarto più vincente della storia nella prima stagione da head coach. Bisogna scomodare nomi del calibro di Guthridge (UNC), Hodges (Indiana State) e Dixon (Pittsburgh) per trovare qualcuno che abbia fatto meglio e chiaramente se ne accorge anche la dirigenza di Butler che in estate lo mette sotto contratto per altre 7 stagioni.
Nel suo secondo anno da capo allenatore la situazione procede esattamente sugli stessi binari, Butler chiude la stagione con 26 vittorie a fronte di sole 6 sconfitte e Stevens diventa così il secondo allenatore più vincente di sempre nelle prime due stagioni da HC (Guthridge in vetta con 58). Il crescendo del nativo di Zionsville però è rossiniano: terza stagione chiusa da imbattuti nella conference e nel torneo della Horizon League (prima volta nella storia), ma soprattutto record ogni epoca di vittorie nei primi 3 anni da capo allenatore in D1. Come se non bastasse Stevens guida per la prima volta nella storia Butler alle Final Four e poi addirittura a giocarsi il titolo in una gara al cardiopalma contro Duke persa 61-59.
La fama e l’apprezzamento nei confronti dell’allenatore di Butler cresce a dismisura in tutti gli Stati Uniti: invitato per il ‘first pitch’ tra Cubs e Marlins, ospite da David Letterman e addirittura contatto telefonicamente dal Presidente Obama. Nonostante tutta l’attenzione ricevuta e l’interessamento di diverse squadre Stevens sceglie di restare al timone dei Bulldogs assieme ai suoi due pretoriani Gordon Hayward e Shelvin Mack. L’obiettivo è portare a casa il titolo NCAA ed effettivamente Butler ci va molto vicina dopo aver superato Florida nei regionals ai supplementari e VCU in semifinale. Dall’altra parte del tabellone però arriva in finale un’altra squadra in missione: i Connecticut Huskies di Walker, Lamp e Napier.
Vince proprio Uconn e Stevens può consolarsi soltanto con l’ennesimo record per essere il più giovane di sempre a raggiungere due Final Four consecutive, e con un prolungamento contrattuale. Nel frattempo però il coach di Butler è diventato l’oggetto del desiderio dei principali atenei americani e come se non bastasse cominciano a bussare alla porta anche alcune squadre professionistiche. Nonostante la corte di Oregon, Clemson, Wake Forest, Illonis e quella sfrenata di UCLA Stevens resta altre 2 stagioni con i Bulldogs vincendo altre 49 partite, ma soprattutto aprendo a Butler prima le porte della Atlantic 10 e poi quelle della prestigiosa Big East.
Una nuova avventura
Alla fine serve l’intervento di una franchigia NBA e un contratto da 22 milioni in 6 anni per schiodare Brad Stevens, dopo 6 stagioni, dalla panchina di Butler. Sono i Boston Celtics ad assicurarsi i servigi dell’enfant prodige con la chiara intenzione di dare vita ad un nuovo ciclo dopo quello abbastanza soddisfacente di Doc Rivers. Stevens si trova nella situazione perfetta per cominciare la sua carriera tra i pro: franchigia storica in piena ricostruzione e un intero anno di ‘praticantato’ per adattarsi al livello NBA.
I bianco-verdi ovviamente mancano i playoffs per la prima volta dal 2007, ma nel frattempo Brad comincia a modellare il roster mentre getta le basi per la sua motion offense che caratterizza ancora adesso l’attacco dei Celtics. La musica comincia a cambiare già nella seconda stagione con l’aggiunta di Marcus Smart (6° chiamata assoluta al Draft) e Evan Turner (free agent), ma soprattutto con l’arrivo a febbraio di Isaiah Thomas. Il folletto di Tacoma trascina Boston a 22 vittorie nelle ultime 34 gare chiudendo così la stagione al 7° posto ad Est.
L’annata successiva Boston al draft aggiunge Terry Rozier e la squadra continua a crescere sotto la guida viscerale di Stevens, a fine stagione le vittorie diventano 48 e la posizione finale diventa la 5°assoluta ad Est. L’accoppiamento con Atlanta al primo turno è una ghiotta occasione per cominciare a misurare il progetto anche ai playoffs, ma l’infortunio di Bradley in gara 1 ne compromette l’andamento.
Nell’estate del 2016 il front office fa il passo decisivo per supportare il processo di Stevens selezionando Jaylen Brown al draft (3°assoluta) e firmando Al Horford in free agency. Il lungo di Santo Domingo è il giocatore perfetto per fare il decisivo salto di qualità; Horford infatti porta in Massachusetts un’importante presenza nel pitturato, un QI cestistico ben al di sopra della media su entrambi i lati del campo e una propensione difensiva perfetta per il sistema di Stevens. I risultati infatti non tardano ad arrivare: stagione da 53 vittorie, 1° testa di serie della Eastern e prima vera cavalcata ai playoff.
I Celtics arrivano fino alla finale di conference dove hanno fattore campo e momentum, ma l’infortunio all’anca di Thomas pregiudica totalmente l’esito delle serie vinta poi dai Cavs in 5 partite. Si chiude così il primo ciclo di Stevens alla guida dei Celtics e il bilancio, nonostante l’assenza di un anello o di riconoscimenti individuali, è decisamente positivo. Il front office di Boston è convinto di aver trovato il suo nuovo condottiero per cui si prepara senza il minimo dubbio ad alzare l’asticella. Effettivamente considerando la costante crescita di risultati, lo sviluppo dei giocatori a roster e il gioco mostrato anche in post-season le indicazioni sembrano piuttosto chiare: Stevens è l’uomo giusto per riportare il titolo a Boston.
A caccia del Titolo
I presupposti migliorano ulteriormente quando i Celtics, ringraziando ancora una volta la trade con i Nets, vincono la lottery e si ritrovano tra le mani la 1° chiamata assoluta del draft 2017. Ainge e Stevens hanno le idee chiarissime su chi selezionare, gli occhi di Boston sono tutti puntati su un giovane talento uscito da Duke, per cui si concedono il lusso di una trade-down con i Sixers portando a casa comunque Tatum alla 3°. Una mossa geniale del GM bianco-verde che riesce così ad evitare i rischi fisici di Fultz e quelli di hype di Lonzo Ball, il tutto guadagnando anche 2 prime scelte aggiuntive.
La situazione in Massachusetts decolla definitivamente in off season dove arrivano due mosse dal peso specifico non indifferente. Boston prima si aggiudica in free agency Gordon Hayward, diventato un all-star con la maglia dei Jazz, e poi effettua una trade con Cleveland per accappiarsi i servigi di Irving. L’euforia a Beantown è talmente incontrollabile che in pochi si rendono conto di aver perso per strada quasi tutti i giocatori della stagione precedente, compresi Thomas e Crowder, restano infatti solo 4 componenti del roster 16-17.
L’inizio è scioccante: dopo una manciata di minuti nella gara di apertura della stagione Hayward soffre un gravissimo infortunio alla gamba sinistra e la sua stagione finisce ancora prima di cominciare. Stevens, privato del suo uomo di fiducia e con un Irving che salta oltre 20 gare, riesce comunque a guidare i Celtics ad una stagione da 55 vittorie che vale il secondo posto ad est. Il cammino in post-season però si fa ancora più impervio perché i Celtics sono costretti a rinunciare definitivamente anche a Kyrie.
La squadra però non sembra accusare le assenze, anzi l’impressione è che il gioco di Stevens riesca ad emergere ancora di più senza le sue due stelle. Boston gioca dei playoff entusiasmanti, arriva fino alla decisiva gara 7 delle finali di Conference prima di arrendersi a un debordante LeBron James. Un’altra delusione dal punto di vista del risultato, ma un’altra conferma della qualità di Stevens che è riuscito a trarre il meglio da una situazione quasi disperata.
La stagione successiva però le cose non migliorano anzi i rapporti tra Irving e i Celtics cominciano ad incrinarsi mentre il processo per reintegrare Hayward in squadra risulta più lento del previsto. Boston in qualche modo riesce a chiudere la stagione con 49 vittorie e il 4° posto, ma ai playoff dopo aver superato agilmente Indiana arriva l’eliminazione per mano dei Bucks con un secco 4-1. In estate Irving e Horford abbandonano la nave, ma i Celtics trovano subito il modo di consolarsi firmando Walker e raccogliendo in free agency Kanter. Il playmaker uscito da Uconn nel 2011 sembra un giocatore molto più adatto alle esigenze di Stevens, ma nel processo Boston perde Rozier, uno degli eroi della cavalcata 2019. Complesso valutare realmente la scorsa stagione chiusa comunque con un 3° posto e un’altra eliminazione in finale di conference, stavolta per mano degli Heat.
Abbaglio, sfortuna o questione di tempo
Escludendo la prima stagione di totale ricostruzione, Stevens ha una striscia aperta di 6 partecipazioni consecutive ai playoff, ha raggiunto per 3 volte le finali di conference e non è mai sceso sotto quota 40 vittorie in regular season. Un cammino sensazionale per un allenatore alla sua prima esperienza NBA, ma da un enfant prodige del suo calibro forse ci si aspettava addirittura qualcosa in più.
Boston probabilmente avrebbe potuto raggiungere le Finals almeno in un’occasione, ma gli infortuni non hanno aiutato particolarmente come non lo ha fatto la scelta di rinunciare ad alcuni giocatori chiave per aggiungere ‘le stelle’. L’ex Butler ha reso i Celtics una perenne contender ad est, ma non è mai riuscito ad andare oltre. Anzi l’impressione, corroborata anche dai risultati, è quella di un coach perfetto per gestire un gruppo giovane, in via di sviluppo o composto da giocatori di medio/alto livello, ma meno adatto ad un roster infarcito di stelle.
Addirittura una delle chiavi di lettura dei primi 7 anni di Stevens sulla panchina di Boston potrebbe essere proprio la grandissima peculiarità di mantenere la squadra ad un livello elevato di competitività indipendente da roster e infortuni, una chiara certificazione della sua qualità tecnica e tattica.
Sull’altro piatto della bilancia però non possiamo escludere la gestione fallimentare dei rapporti con le star arrivate in free agency o via trade, compresa quella del suo pupillo Hayward. La stagione attuale per il momento sta andando proprio in questa direzione con qualche difficoltà di troppo nel gestire Walker oltre ai due all-star cresciuti in casa Brown e Tatum. Boston in questo momento si trova al 9° posto con 21 vittorie a fronte di 22 sconfitte, senza dimenticare che la prima parte di stagione è stata piuttosto deludente anche dal punto di vista del gioco espresso dai bianco-verdi.
La partecipazione ai playoffs o almeno al play-in non dovrebbe essere in discussione, soprattutto considerando la situazione attuale della Eastern, ma le aspettative dei tifosi di Boston erano ben altre. Indubbio che la scarsa profondità della panchina e il grande vuoto vicino a canestro stiano creando non pochi problemi ai Celtics, ma Ainge potrebbe risolvere questi difetti prima della trade deadline.
Ciò però non toglie la necessità di una valutazione sul futuro di Stevens alla guida di Boston perché resta indiscutibile la sua qualità tecnica e tattica, ma anche la sua incapacità fin qui di fare l’ultimo e decisivo passo. Il front office dei Celtics in questi 7 anni ha fatto di tutto per mettere a disposizione di Stevens una squadra da titolo, ma gli infortuni ed alcune situazioni singolari hanno reso complesso valutare a fondo la situazione. Sicuramente Ainge continuerà a fare del suo meglio per allestire un roster competitivo e solo il tempo sarà in grado di dirci se Stevens riuscirà a riportare i Celtics sul tetto della Lega.
Non dimentichiamo che nella NBA di oggi sono davvero limitate le situazioni in cui viene permesso all’allenatore di avere un pieno controllo sul gioco e sulla composizione del roster, ma in una Lega comandata oramai quasi totalmente dai giocatori è necessario scendere in qualche modo a patti con le proprie stelle. Le ultime 20 stagioni hanno dimostrato abbastanza chiaramente che è diventato quasi impossibile vincere un titolo solo giocando bene, è necessario avere anche degli interpreti di alto livello perfettamente inseriti nel contesto squadra.