Nessun roster NBA può contare su due giocatori con meno di 25 anni già convocati all’All-Star Game. Nessun tranne uno, quello dei New Orleans Pelicans. Questa è la premessa fondamentale per capire quanto sia grande il potenziale a disposizione della squadra per il presente e soprattutto per il futuro.
Zion Williamson ha 20 anni e nel momento in cui sto scrivendo ha appena 55 partite di NBA alle spalle. Dopo essere stato prima scelta assoluta al Draft del 2019 ha avuto qualche problema fisico, ma ora è perfettamente ristabilito e in questa stagione viaggia a 25.6 punti e 6.8 rimbalzi di media, il tutto con una percentuale dal campo superiore al 60%.
La sua fisicità, unita all’esplosività nelle gambe, gli consente di essere una minaccia costante nel pitturato. In situazioni senza palla è molto bravo a giocare con il suo corpo per farsi trovare in vantaggio su uno scarico o pronto per il rimbalzo offensivo. Quest’anno in sei partite ha segnato oltre 30 punti con percentuali dal campo superiori al 70% e tutto questo gli è valsa la chiamata per l’All-Star Game, il quarto più giovane di sempre appena dietro Kobe Bryant, LeBron James e Magic Johnson.
Brandon Ingram, invece, è un giocatore che nonostante i 23 anni ha più esperienza. Seconda scelta assoluta dei Lakers nel 2016, nel 2019 è stato inserito nello scambio che ha portato Anthony Davis a Los Angeles e così è arrivato sulle rive del Mississipi dove è subito diventato uno dei leader e ha chiuso la scorsa stagione con la chiamata all’All-Star Game e il Most Improved Player Award. Quest’anno si sta confermando sugli stessi livelli e nonostante sia uno degli esclusi eccellenti dall’All-Star Game le sue medie sono ottime: 24 punti e 5.3 rimbalzi.
Anche il contorno è di discreta qualità perché Lonzo Ball, altro 23enne, sta disputando la sua migliore stagione e Steven Adams è un centro affidabile attorno al quale far girare la squadra.
Coincidenze pericolose
Quali cose hanno in comune Williamson e Ingram? Entrambi hanno fatto un anno a Duke prima di essere scelti, entrambi non hanno mai disputato i playoff. Sul primo punto niente da dire, visto che è una delle migliori università per la pallacanestro, sul secondo invece si può iniziare a discutere. Non tanto per Zion, che alla fine è alla prima vera stagione da protagonista dopo i travagli a cui è andato incontro l’anno scorso, quanto per Ingram, che a dispetto dei suoi 23 anni e sta giocando il suo quinto anno in NBA.
Quando è arrivato a Los Angeles i Lakers erano da ricostruire, poi è arrivato LeBron che però si è infortunato. Questa quindi per entrambi è la stagione giusta per provare ad agguantare i playoff ed evitare di fare una splendida annata da losing effort. Non riuscirci per loro sarebbe uno spreco e un piccolo fallimento.
La stagione
Con queste premesse ti aspetteresti di vedere i Pelicans saldamente in corsa per i playoff, invece in questo momento sono undicesimi a Ovest, fuori – di poco – dalla corsa per il play-in e con un record di 14 vinte e 18 perse. Record che li terrebbe fuori, nella stessa undicesima posizione, anche a est. Ovviamente la strada è ancora da lunga e la rincorsa è più che alla portata della squadra anche se le dirette concorrenti per il play-in a ovest sono Dallas e Memphis, che hanno esperienza e qualità alle spalle.
Avere uno dei migliori potenziali offensivi della NBA in questo momento quindi non sta bastando, con il rischio che i due stiano sprecando una grande opportunità. Secondo gli analisti in questo momento i Pelicans hanno solo il 31% di possibilità di arrivare nel tabellone principale dei playoff nonostante tutto il materiale a disposizione.
Nella rivincita contro i Pistons dieci giorni dopo la sconfitta di Detroit, i Pelicans hanno vinto tutto sommato in scioltezza. Alla fine 128 i punti segnati dai Pelicans, 59 dei quali provenienti dal duo Williamson – Ingram. “Sono entrambi giocatori che pensano soprattutto al bene della squadra – dice Coach Van Gundy a fine gara -. Si stanno impegnando molto nel creare vantaggi, soluzioni semplici per i compagni e quando riesci a fare una cosa del genere vuol dire che stai dando il tuo meglio. Un conto è stare fermo e giocare sugli scarichi, ma noi vogliamo giocatori disposti ad attaccare il ferro e creare gioco, è quello che fanno i giocatori migliori ed è quello che stanno facendo Williamson e Ingram”.
Tra i due poi c’è un’ottima intesa e al di là delle parole di circostanza – complimenti di uno per la convocazione all’All Star Game e il rammarico dell’altro perché Ingram non è stato chiamato – Williamson spiega che c’è sempre stato un ottimo rapporto: “Non ci sono mai stati problemi e quando ci sono state discussioni in campo era solo perché volevamo imparare l’uno dall’altro a leggere alcune situazioni di gioco. Ora sappiamo farlo e ci sono dei momenti in cui lui viene da me e mi dice che è il mio momento di prendere iniziativa, altri in cui io vado da lui e gli dico di prendersi i tiri perché nessuno può marcarlo. Ci rispettiamo molto e a fine giornata non ci interessa chi segna di più o ha statistiche migliori. Vogliamo solo vincere”.
I dubbi
Alla guida della squadra c’è Stan Van Gundy, quasi vent’anni da capoallenatore in NBA più altre otto stagioni da vice a Miami. Dopo un buon inizio (4-2 nelle prime due settimane) il mese di gennaio è stato drammatico con un record di 1-8 in due settimane e mezzo e l’inevitabile tonfo in classifica. Da lì qualcosa è cambiato perché quando si è trovato a corto di risultati Van Gundy ha accorciato le rotazioni affidandosi ai giocatori di sua fiducia che hanno visto salire il loro minutaggio. Contemporaneamente in conferenza stampa si spertica in complimenti per Williamson, Ingram e Ball, mostrando di avere un buon feeling con tutti loro.
A farne le spese tra gli altri è stato anche Nicolò Melli, ma soprattutto questa mossa alla lunga rischia di essere controproducente perché se è vero che da quel momento il record è diventato positivo (9-8), si è stoppato anche il processo di crescita dell’intero roster e questo rischia di essere controproducente se l’obiettivo è arrivare almeno al play-in.
L’altro fattore preoccupante è l’aspetto difensivo. Se infatti la squadra può vantare su un arsenale offensivo a disposizione, nell’altra metà campo la situazione è lacunosa. I numeri dicono che i Pelicans hanno il quarto attacco della lega e la venticinquesima difesa. Una volta visti giocare, in difesa forse valgono anche qualcosa meno.
É un problema che può essere figlio della giovane età media del roster, ma anche di un minutaggio poco distribuito e di un chiaro atteggiamento di squadra focalizzato essenzialmente sulla fase offensiva. Un altro campanello di allarme per il futuro di questo gruppo.
Se poi non si riuscisse ad agguantare una qualche forma di post season, c’è il rischio che Williamson e Ingram decidano di cambiare aria per tentare di riuscirci in un’altra piazza. Lo ha fatto con successo Anthony Davis e lo potrebbero fare tranquillamente anche loro, costringendo nuovamente la franchigia a ripartire con un processo di ricostruzione che potrebbe non essere così veloce.
Nicolò Melli
É uno di quei giocatori che sta subendo le conseguenze di questo preciso tipo di scelte. Con Alvin Gentry aveva giocato 60 partite con un 17.4 minuti per gara e 6.6 punti di media. Quest’anno i suoi numeri sono precipitati entrando in campo solamente in 15 delle 32 partite dei Pelicans con una media di 10.5 minuti e appena 1.9 punti segnati.
Oltre al cambio del capoallenatore, passando da uno che lo aveva voluto ai Pelicans a uno che se lo è trovato in squadra e lo vede poco, il fatto che Williamson quest’anno stia bene e riesca a giocare con continuità gli sta portando via minuti. É chiaro che sono due giocatori con caratteristiche differenti, ma le scelte di Van Gundy in questo momento sembrano essere chiare, nonostante Melli abbia fatto bene quando è stato messo in campo. L’esempio è la vittoria contro i Celtics, dove il suo ingresso ha permesso di rimontare e vincere al supplementare, con Nicolò che ha chiuso con 3 punti e un ottimo +18 di plus/minus.
In quel dopo partita Williamson lo ha definito “A pro’s pro“, un professionista fra i professionisti, per il suo atteggiamento in ogni allenamento e in ogni partita, rivelando che in ogni time-out e momento morto delle partite Melli gli dà tante indicazioni per leggere situazioni che lui in campo non riesce a vedere.
Un bel riconoscimento, anche se non basta per un giocatore nel pieno della maturità che si sta trovando chiuso nelle rotazioni della squadra.