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La LA di Kawhi e LeBron
La leadership agli antipodi

Davide Torelli by Davide Torelli
21 Febbraio, 2021
Reading Time: 11 mins read
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LeBron contro Kawhi

Copertina a cura di Matia "Di Ui" Di Vito / Nba.com

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A Los Angeles, dal 1984, sono due le franchigie che ogni stagione concorrono per il Larry O’Brien Trophy. Almeno in teoria, perché da quando il discutibile Donald Sterling decide di spostare i Clippers un po’ più a nord di San Diego, le differenze con i fratelli-figli-unici dei Lakers appaiono da subito evidenti. Basta mettere a confronto i nomi a roster per i gialloviola in quella stagione – gente come Kareem Abdul-Jabbar, James Worthy, Magic Johnson – ed i semi ricordabili Derek Smith, Junior Bridgeman e James Donaldson. Tanto per citarne tre, in un gruppo in cui militava un Bill Walton a fine carriera ed un Michael Cage agli esordi assoluti.

D’accordo, si trattava di una sorta di “anno zero” – anche se la franchigia esisteva da anni, dapprima a Buffalo e poi all’estremo confine tra California e Messico – ma se ci poniamo a paragonare i talenti passati, ovviamente non c’è storia.

Nel 2000 da una parte ci sono Kobe Bryant, Shaquille O’Neal e Glen Rice; dall’altra Derek Anderson, Michael Olowokandi e Mo Taylor. Ed anche se nel post-Mamba la questione sembrava invertita – con Lob City e Doc Rivers in panchina – i risultati non sono minimamente cambiati. Da una parte lo showtime, il glamour ed i riflettori sempre accesi, mentre dall’altra potremmo parlare serenamente di “basso profilo”. Per non mancar troppo di rispetto a nessuno, riassumendone le velleità.

In ogni modo, raramente le due franchigie si son ritrovate appaiate ai vertici della lega, come sta accadendo da due stagioni a questa parte. L’arrivo di LeBron James, Anthony Davis, Kawhi Leonard e Paul George ha sicuramente alzato il livello dello scontro, regalandoci una rivalità che storicamente non esisteva.


La cosiddetta “Battle of L.A.” è una roba che vende, ed allo stesso tempo canalizza attenzioni, anche se il primo episodio della sfida è finito in un modo solito, per quanto meno pronosticabile ad inizio anno: Lakers campioni, Clippers clamorosamente eliminati in semifinali di Conference. Ma ipotizziamo che la pandemia ci abbia messo il suo zampino, e proviamo ad analizzare le apparenze più immediate che emergono pensando alle due squadre.

Abbiamo detto, da una parte l’altissimo profilo, dall’altra il basso. Ad un angolo del ring LeBron e dall’altro Kawhi. Mai due giocatori, per atteggiamento ed influenza, hanno rappresentato i due volti opposti di una città che fa della contraddizione un punto fisso della sua essenza. La stessa in cui convivono le ville di Bel Air e le tende dello Skid Row.

Dalla leadership di questi due giocatori, con esigenze di vittoria diverse, ma in entrambi i casi, per ragioni anagrafiche e contrattuali, rispettivamente, pressanti e immediate, passeranno i destini delle due franchigie losangeline. Perché  se da un lato è necessario riconfermarsi, dall’altro un fallimento potrebbe pericolosamente significare “fine del progetto”. Anche e soprattutto per questo il ruolo dei due giocatori simbolo – James e Leonard – merita ancora di più uno sguardo approfondito.

 

LeBron, il plenipotenziario

LeBron James sta disputando la diciottesima stagione della sua carriera, e non ha mai temuto (neanche per un secondo) le attenzioni alle quali sapeva esser destinato. Fin dal giorno in cui decise di lasciare St. Vincent-St. Mary. Le spalle le ha sempre avute belle larghe (anche se oggi appaiono mastodontiche rispetto ad allora), e portarsi il peso di fardelli immensi, trascinando i suoi e letteralmente “costruendo una cultura”, gli è venuto naturale da subito.

Anzi, più che costruirla secondo i termini canonici, è sempre stato cosciente di essere lui la condizione necessaria e sufficiente, accrescendo la propria consapevolezza – e quindi le proprie pretese – di anno in anno. Soprattutto dopo le sudate vittorie di Miami (ad inframezzare due cocenti sconfitte).

Ora, è vero che nella storia dell’NBA le grandi stelle hanno sempre avuto importanti influenze all’interno delle franchigie, sia a livello decisionale che tecnico. E figuriamoci quanto questa condizione possa essersi espansa nell’era dello star system. Tuttavia, tra i vari primati ottenuti da James c’è anche quello – meno evidente –  di massimo controllo su un sistema squadra, più di chiunque altro.

Un qualcosa che appare impossibile persino se pensiamo a Michael Jordan, al suo modo di imporsi e determinarsi negli anni dei Bulls, lottando contro Jerry Krause per far valere anche le sue “bizze” da superstar.

Sappiamo perfettamente quanto la prima ed ultima parola sulla costruzione del roster, sia sempre dell’attuale numero 23, forte della partecipazione (non ufficiale) all’interno dell’agenzia Klutch Sports, dell’amico ed agente Rich Paul. Un qualcosa sul quale si è parlato tanto – e pure indagato – e che in modo molto pratico emerge osservando i movimenti di mercato circoscritti ai Lakers negli ultimi due anni, da quando è arrivato.

Trattandosi di un sistema momentaneamente lecito, non ha senso puntar troppo il dito su eventuali vantaggi acquisiti, se non rispetto alla potenza assunta dal giocatore in materia di reclutamento per le sue squadre. Nella costruzione, quindi, di gruppi e spogliatoi perfetti per esaltarne capacità sia tecniche che strutturali, all’interno dei quali funzionare da leader assoluto. Nei fatti plenipotenziario senza sé e senza ma. I tempi, il corteggiamento e la finalizzazione della trade che ha portato Anthony Davis alla corte del re, ne sono assoluta dimostrazione.

Detto ciò, dipende tutto dal punto di vista utilizzato. Che a livello di Stato una democrazia funzioni decisamente meglio di una dittatura, è palese, osservato dal punto di vista del cittadino. Non è invece necessariamente detto, in materia di risultati da ottenere, quando il fine giustifica i mezzi.

Nel mondo dello sport professionistico, il punto è questo: una struttura gerarchica a forma piramidale è forse quella preferibile, per puntare al successo in NBA. E perché tutto funzioni serve un leader capace di prendersi le sue responsabilità senza dimenticarsi di coinvolgere i compagni, agendo da capobranco, ma dimostrando di sapersi mettere anche nei panni dell’ultimo panchinaro. A livello empatico, almeno apparente.

Se poi questo –  ed è il caso di LeBron – possiede un carisma talmente perforante da renderlo magnetico anche in strati extra sportivi della società, la questione appare ancora più completa, e in apparenza complessa.

Non è solo il volto dei Lakers, ma quello della lega. Non deve soltanto gestire un eventuale dualismo con Davis, ma (vuole) anche influenzare un voto elettorale, spendersi per cause importanti, (sostiene di) migliorare la vita di milioni di individui non soltanto schiacciando la palla nel canestro. E lui sa riesce a fare tutto questo, e bene. Curando allo stesso tempo i suoi affari economici, che non guasta.

Ciò che abbiamo visto lo scorso anno nella bolla di Orlando – dove ha vinto la squadra più unita e più tale, per definizione – possiamo osservarlo oggi, al medesimo livello. Con un roster migliorato anche in base a quello che riteneva necessario per confermarsi, dando la caccia al back to back.

Il modo in cui gestisce i giovani come Talen Horton-Tucker, chiamandoli in causa di fronte alle telecamere, preparandoli a gestire momenti di protagonismo in partite importanti. Permettendo loro di crescere di occasione in occasione, responsabilizzandoli e scegliendo quando accenderli in campo. Secondo una struttura comportamentale per cui ha eletto, da subito, Anthony Davis giocatore chiave della squadra, dichiarandosi a servizio del suo gioco, non deresponsabilizzandolo ma trattandolo quantomeno da pari.

E di esempi simili, guardando alla sua influenza sui compagni, ne potremmo fare molti altri soltanto basandoci su questa stagione. In cui, oltretutto, ancora una volta dimostra una capacità di lettura delle partite ai limiti dell’impossibile, perfettamente cosciente su quando risparmiare energia, quando prendere la gara in mano e quando inserire i compagni per infonder loro fiducia.

Difficile, davvero difficile, trovare un leader più capace di lui: democratico nell’apparenza, pragmatico nella gestione delle scelte, volenteroso nell’assumersi ogni responsabilità del caso e spietatamente plenipotenziario dietro le quinte. Non è solo il fulcro attorno al quale ruota la franchigia gialloviola, ma la lega intera. Sembra inutile ripeterlo, ma è così. Poi quando lascia le franchigie, dietro si vedono macerie, ma quella è un’altra storia…

 

Kawhi, leader suo malgrado

Dall’alto della sua esperienza, Serge Ibaka lo aveva detto subito dopo la pesante sconfitta patita dai Clippers contro Dallas, a inizio stagione: abbiamo bisogno della leadership di Kawhi Leonard. I 51 punti di scarto tra le due squadre, a vantaggio del non irresistibile gruppo a supporto di Dončić, aveva acceso più di un campanello d’allarme. Soprattutto memori della disgregazione, nella bolla di Orlando, di un roster costruito per essere efficace e profondo.

Che i Clips si siano disuniti, che per tutta la scorsa stagione le due stelle avessero privilegi eccessivi rispetto al resto del gruppo, era più che deducibile. Difficile, altrimenti, uscire sconfitti in una serie condotta per 3 a 1 contro i Nuggets, facendosi sempre rimontare vantaggi sostanziali durante la gara, in blackout.
La lunga pausa causata dalla pandemia nascente, e l’isolamento forzato in Florida, non hanno certo aiutato Doc Rivers ad amalgamare sufficientemente i suoi, ma quando è il tuo uomo più importante a non dar segni di vita a riguardo, allora il problema più grosso è a monte.

Era stato Leonard a scegliere i Clippers trascinando con sé l’amico Paul George, e da lui potevamo aspettarci quella leadership silenziosa che aveva portato Toronto ad un upset incredibile, conquistando il loro primo ed unico titolo NBA.

Apparentemente però, Kawhi si è chiuso nella sua bolla personale ancor prima che fosse necessario, offrendo prestazioni solide senza troppo disponibilità verso gli altri, se non attraverso le azioni di gioco. Frequentandosi poco con i compagni (sintomatico il fatto che i soli George e Beverley siano stati invitati da lui, nella sua casa, ad allenarsi privatamente durante la pausa), e generalmente dedicando poche parole al resto del gruppo. Non solo in un’area circoscritta al gioco, ma proprio in generale.

Durante la sua prima stagione – si narra –  decide lui quando allenarsi e come, quando restare a riposo e quando giocare, passando il tempo solo ed unicamente con l’amico Jeremy Castleberry, un ex compagno di college ad Arizona che impone nel coaching staff di squadra. Cosa già avvenuta a San Antonio e Toronto.

Trascinare la squadra sul parquet, con prestazioni statisticamente eccellenti ed una presenza impeccabile in entrambi i lati del campo, non è sufficiente. Serve anche qualcosa di più, quello che per James appare innato, ma che per lui rappresenta una difficoltà insormontabile. Leonard, da sempre, rifugge i riflettori e se potesse non rilascerebbe alcuna intervista.

Non ama apparire, neanche quando segna 40 punti o realizza le giocate decisive, raramente dedica più di mezzo sguardo ai compagni, dosa le proprie emozioni come se gli comportassero un pesante dispendio energetico. La sua guida deriva dall’esempio effettivo, non da qualsiasi altro metodo comunicativo che potrebbe rendere le cose più semplici, aiutando i compagni a comprendere la sua visione delle cose.

Insomma, tutto bene in un sistema oliato e protetto da un santone come Popovich, quando emergeva nei San Antonio Spurs. Nessun problema nella stagione vissuta a Toronto, dove la struttura tattica esisteva a prescindere da lui ed il ruolo di leader era ricoperto da Kyle Lowry. Decisamente problematico, invece, inserirsi in un contesto già formato come quello dei Clippers, ancora peggio se affiancato da Paul George. Un altro non certo ricordato per loquacità e scelte ponderate da condividere con i colleghi a suo fianco, anche fuori dal campo talvolta.

In questa seconda stagione in squadra, comunque, Leonard sta forzando la propria indole per apparire differente, ed offrire un sostegno ai colleghi che non gli verrebbe naturale, cercando di cambiare approccio. È lo stesso Ibaka a testimoniarlo nelle dichiarazioni, vedendolo più vocale di quanto non fosse ai Raptors, sempre in anticipo agli allenamenti, mostrandosi esempio da seguire per tutti non solo con le proprie gesta.

Un cambio di atteggiamento testimoniato anche da coach Tyronn Lue, che proprio a seguito della debacle con i Mavs riportava quanto Leonard avesse comunque incitato i compagni più giovani. Probabilmente per incoraggiare il mantenimento di un atteggiamento simile, rendendolo pubblico durante le interviste. Segno che dalle analisi figlie dell’insuccesso del campionato passato Leonard abbia riconosciuto le proprie colpe, provando a cambiare inclinazione andando oltre la sua innata ombrosità.

Un uomo dall’attitudine invisibile, nella franchigia del basso profilo per eccellenza. Cosciente che se vuol completare l’impresa di portare quella considerata da tutti “la seconda squadra di Los Angeles” (se non terza, provocatoriamente, a vantaggio dei Bruins), serve una leadership più marcata. Più canonica nell’approccio. Ma certo più a suo agio ai Clippers di quanto potrebbe verosimilmente essere ai Lakers. A ognuno il suo.

 

Le chiavi per raggiungere le Finals

In una stagione che vive di incertezze continue, dovute a contagi e protocolli di prevenzione anti COVID, lo sforzo circoscritto al lavoro di leadership per una squadra che punta al titolo è superiore alla media.

Serve gestire le proprie forze in relazione a quelle dei compagni, con la variante delle disponibilità e calcolando imprevisti canonici, come le assenze per infortunio.
Ulteriormente, provenendo da una pausa breve tra una stagione e l’altra – che per entrambi, comunque è terminata tardi – è necessario dosare le forze, lavorando in contemporanea per arrivare al top della forma in postseason. Senza perdere posizioni preziose per il vantaggio campo, strutturando una strategia calcolata ma dagli equilibri sottilissimi.

Insomma, se a Los Angeles una delle due squadre vuol vincere la battaglia, serve un eroe alla guida capace di dare il 110%, a suo modo. Rispetto a Leonard, James avrebbe lo svantaggio circoscritto a carta d’identità e chilometraggio, anche se il suo impeccabile stato di forma non lo lascia intendere ad oggi. Di contro, quelle capacità innate di assorbire le pressioni e funzionare da padre buono in roster costruiti a suo servizio, rappresentano un plus rispetto ai limiti caratteriali di Kawhi.

Due opposti a livello umano, identici per impatto ed efficacia sul parquet, supportati da talento e duro lavoro. Personalità ad immagine e somiglianza delle attitudini storiche delle due franchigie di appartenenza: una in cerca di conferma, per poter finalmente festeggiare un titolo come la parte glamour della città vorrebbe dopo il recente trionfo in sordina forzato dalle circostanze. L’altra decisa ad uscire da quel dannato basso profilo in cui appare relegata, quasi per maledizione. Superando quel giustificativo, ed antipatico, “eh, ma sono i Clippers” che risuona ad ogni speranza disattesa, beffardo anche quando la struttura a monte sembra impeccabile.

A meno che non si creino situazioni per cui giustificare l’inserimento di un terzo incomodo, e Utah è partita forte, difficilmente il nome della finalista ad Ovest non sarà quello di una delle due losangeline. E l’influenza sul sistema dei due leader sarà fondamentale per decretare la vincente, anche a prescindere da prestazioni indiscutibili per quantità e qualità. Non resta che sedersi comodi, osservare il paesaggio con attenzione e quindi, godersi il viaggio. Perché potrebbe essere davvero unico, indimenticabile.

Tags: Kawhi LeonardLeBron JamesLos Angeles ClippersLos Angeles Lakers
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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