Un nome e un cognome: Nikola Jokić. Questo basta a sintetizzare la stagione dei Nuggets fino a questo momento. E il fatto è tutt’altro che positivo.
Oltre 27 punti, 11 rimbalzi e 8 assist di media: la stagione del serbo è da MVP vero, e gli appassionati se ne sono accorti, votandolo in massa per permettergli di comparire per la prima volta in quintetto all’All-Star Game, kermesse che ormai ha poco da raccontare a livello di gioco, ma che rimane un buon indicatore per valutare chi sono i migliori giocatori stagione per stagione, più o meno.
Jokić ha bisogno di una mano
Nonostante le performance mostruose del numero 15, compresi i nuovi career-high quasi in back-to-back (47 contro i Jazz, 50 nella sconfitta con i Kings), i Nuggets faticano a ingranare. Murray è troppo incostante, MPJ ancora di più, la panchina non dà sicurezze come lo scorso anno; in sintesi, coach Malone deve ancora trovare un equilibrio a questa squadra, che di potenziale ne ha da vendere, ma che quando si presenta in campo è bravissima a perdersi in un bicchiere d’acqua.
Non serve essere insider o seguire i Nuggets assiduamente per capire un semplicissimo trend, evidente anche solo guardando i boxscore delle partite: quando Jokić segna tanto (35+) è molto probabile che Denver perda. Intuitivamente si potrebbe pensare che quando il serbo tira tanto mandi la squadra in confusione: in realtà è l’esatto contrario. Jokić non vuole segnare; o meglio, non vuole essere costretto a segnare. Il problema è che quando la squadra è in difficoltà (situazione in cui si è ritrovata spesso in questa prima parte di stagione) le soluzioni offensive sono spesso “a gioco rotto”, e Jokić si ritrova a doversi inventare una soluzione dal post basso o addirittura fronte a canestro.
Essendo uno dei giocatori più strabilianti della Lega, facendo così riesce ad andare con facilità sopra i 40, ma in realtà questo dà un vantaggio agli avversari: lui è immarcabile, ma se gli altri non fanno nulla il gioco vale la candela. Le migliori partite di Denver di solito finiscono con Jokić tra i 20 e i 30 punti e in doppia cifra di assist, Murray attorno a quota 30 e MPJ sopra i 20: ne è una prova tangibile l’ultima partita giocata, la vittoria contro Cleveland, forse una delle migliori partite dei Nuggets 2021. Murray 50 (con un irreale 84% dal campo che ha fatto scendere una lacrimuccia ai tifosi nel ricordo di “Bubble Jamal”), Porter Jr 22 punti tutti creati muovendosi benissimo negli spazi, Jokić? 16 punti, 12 assist, 10 rimbalzi, una giornata in ufficio.
I possibili candidati
Jokić, Murray, MPJ: i “big three”, l’asse sul quale i Nuggets puntano tutto, non solo per il futuro, ma già da subito. Ad oggi però soltanto il primo sta rispondendo presente partita dopo partita, mentre gli altri due vanno a fiammate, una partita male, una bene, una ottima, una pessima. Da Porter Jr. potremmo anche aspettarcelo, visto il carattere e il fatto che sia in ogni caso nel suo anno da sophomore nella Lega, ma da Murray la franchigia si aspetta molto di più.
Attorno ai tre sopracitati c’è una squadra che sta cercando di trovare la sua identità. C’è il “gruppo rookies”, formato da Facundo Campazzo, RJ Hampton e Zeke Nnaji che, viste anche le difficoltà in termini di rotazioni avute nelle ultime partite, sta iniziando a saggiare il campo con più continuità, con risultati alterni ma che tutto sommato lasciano ben sperare.
Facu, ovviamente già idolo della fanbase, sta trovando sempre più feeling con il gioco NBA, al quale l’adattamento è stato difficile, come dichiarato dall’argentino, che nelle ultime uscite sta dimostrando di essere molto più a suo agio; chissà che a lungo andare non possa diventare un fattore per dare una scossa dalla panchina. E una scossa, a questi Nuggets, servirebbe eccome.
Andrea Radi per Nuggets Europe Italia