È una stagione anomala quella che stiamo vivendo noi tifosi dei Dallas Mavericks, tra assenza di fattore campo e partite rinviate o giocate in condizioni precarie. La nostra squadra è stata una tra quelle che più ha pagato questa situazione, vedendoci costretti a rinunciare ad alcuni titolari e ad importanti alternative dalla panchina per ben 9 partite, a cui bisogna aggiungere anche le gare giocate con una forma fisica da ritrovare.
Sommiamo a questo l’assenza nel primo mese di Porziņģis e relativo recupero delle sensazioni, più la lenta ripresa di Dwight Powell dopo il grave infortunio e il quadro non è dei più semplici da gestire.
Tuttavia, al netto di tutti questi problemi che non potevano essere risolti se non con il tempo, superato il primo terzo di stagione la domanda che tutti noi tifosi ci facciamo è: quale potrebbe essere la vera faccia di questa squadra? Abbiamo visto tutto e il contrario di tutto ed è difficile dare una risposta. Un’altalena di momenti durante le partite (o partite intere) in cui si difende bene e altri dove ti chiedi perché si siano presentati in campo; quarti con percentuali fantastiche e poi blackout totali, o blackout e basta per 48 minuti.
L’unico comune denominatore positivo nelle vittorie e nelle sconfitte si chiama ovviamente Luka Dončić, la sola fonte di gioco e punti costante della squadra. Lo sloveno, dopo un avvio di stagione timido dal punto di vista offensivo soprattutto dall’arco, ha inanellato prestazioni incredibili collezionando record di franchigia e che gli sono valse anche la conferma come titolare per la Western Conference all’All Star Game di quest’anno. Vista la sua popolarità ormai anche tra gli addetti ai lavori e non più solo tra i fan, avrebbe presenziato in ogni caso, ma forse con un ruolo più marginale.
Ed è proprio questa “siccità” della manovra una delle cause del cattivo inizio: più volte l’abbiamo visto predicare nel deserto e costretto a mettersi in proprio per muovere lo score e finendo la partita con ben oltre la metà degli assist di squadra. Infatti quest’ultimo dato è quasi sempre coinciso con le peggiori prestazioni della stagione, a dimostrazione che, per quanto uno sia un fenomeno, da soli non si vince. Mai.
La “soluzione” sembra sia arrivata quando abbiamo coinvolto di più il nostro più importante playmaker secondario, Josh Richardson, nel giro palla “attivo”, volto alla conclusione dell’azione e non solo nella fase interlocutoria. Oltre ovviamente ai grossi miglioramenti fatti da Jalen Brunson, sempre più a suo agio nel ruolo di play di riserva andando a coprire quello che lo scorso anno divideva con Delon Wright, il cui lavoro di playmaking è stato forse un po’ sottovalutato.
L’obiettivo deve essere riuscire ad eseguire questo gioco corale per lunghi tratti, perché non appena torniamo Luka-dipendenti la luce si spegne. In questa moderna pallacanestro positionless servono quanti più registi possibili: esempio lampante è la Golden State schiacciasassi versione small ball con Klay Thompson che era probabilmente il peggior (!) giocatore in tal senso, il che fa capire il livello degli altri quattro (Curry, Iguodala, KD, Draymond). Migliorare questo aspetto sarà la principale priorità del GM Donnie Nelson quando si aprirà il mercato estivo.
E quando il gioco non è statico, torna anche il tiro dalla distanza: era abbastanza incredibile come il miglior attacco della storia NBA dopo pochi mesi si fosse totalmente dimenticato come fare canestro dall’arco tanto da diventare la peggior squadra per percentuali da 3. Non a caso, una volta fatta muovere meglio la palla, con i giocatori più in ritmo e non sagome pronte a ricevere, le nostre cifre tornano vicine parenti dell’anno scorso.
Parlando di singoli, anche se le percentuali di Porziņģis al tiro nel complesso stanno migliorando, ma la sensazione è che manchi qualcosa forse a livello mentale: impegno difensivo che va e viene, falli spesso inutili oltre che molli specie nei close out sul perimetro o la totale assenza di essi, ma soprattutto un’allergia offensiva al post (o mancanza di ok dal coach? Sarebbe folle solo pensarlo) anche quando trova avversari che dovrebbe battere senza problemi. Finché il tiro dalla distanza entra si può chiudere un occhio, ma se non funziona? Come può stare in campo un lungo che si fa stoppare due volte consecutive da Derrick Jones Jr.?
Se il problema fosse la paura del contatto, sarebbe preoccupante; se invece, come lo scorso anno, deve solo entrare in pieno ritmo, possiamo rimanere positivi. KP è un elemento forse troppo importante, la differenza di rendimento complessiva della squadra quando lui è in fiducia rispetto alle serate no è abissale.
Un plauso nonostante tutti i suoi difetti lo merita invece Tim Hardaway Jr., perché quello che esce dalla panca è forse la sua miglior versione vista a Dallas. Specie nei minuti in cui non condivide i minuti con Luka, probabilmente perché più libero di avere la palla in mano, quando si accende diventa a tutti gli effetti quel terzo violino di cui questa squadra ha bisogno. E soprattutto una grande difesa, mai vista finora.
Intervistato in merito al nuovo ruolo, THJ si è mostrato totalmente dedito alla causa e leader insospettabile, nonostante giochi “per il contratto”, essendo in scadenza. Se si accontentasse di un ruolo, leggasi stipendio, da panchinaro, ci penserei due volte prima di lasciarlo andare. Non resta che vedere se questa sia davvero la svolta della stagione per capire finalmente chi siamo.
Edoardo Segato per Dallas Mavericks Italia