Una malandata ma affascinante automobile d’epoca abbandonata ingenerosamente in un vecchio garage a Philadelphia, un potenziale manifestato ma apparentemente assopito; è probabilmente questo lo scenario che si è presentato al brillante duo targato Morey-Rivers quando hanno preso in considerazione l’idea di andare nella “città dell’amore fraterno”. Una sfida tutt’altro che semplice, perché quando hanno deciso di ritornare all’avventura dopo le rispettive deludenti esperienze a Houston e Los Angeles e sono approdati a Philadelphia, in casa dei 76ers, urgeva un complicatissimo e delicato restyling per cercare di rimettere in piedi (peraltro con mezzi limitati) un team che fosse presentabile dopo l’amarissimo flop della scorsa stagione.
Ci hanno lavorato molto a Phila, con trade intelligenti e l’aggiunta di elementi funzionali al progetto e senza ingessare ulteriormente un salary cap già duramente compromesso. E così dopo un inizio di stagione spumeggiante caratterizzato da un record di 7-1 e da tanto entusiasmo, possiamo dire con convinzione che lo han fatto davvero bene, perché i Sixers dopo 26 gare sono in testa alla Eastern Conference con un record che recita 18-8 e alcuni importanti segnali da squadra matura, segnali che a Phila non si vedevano dalla sfortunata quanto emozionante stagione di JJ Redick e il tanto rimpianto Jimmy Butler.
I fattori che in modo più evidente hanno caratterizzato positivamente questo inizio di stagione sono sostanzialmente tre: coincidono con l’ottima gestione del roster da parte del nostro nuovo coach, Doc Rivers, proseguono con l’eclatante crescita della nostra star, Joel Embiid e (al momento) si completano con la piacevole e tanto sperata riscoperta di Tobias Harris, il giocatore che ha maggiormente giovato della “cura Rivers”, argomento del quale avremo modo di approfondire più avanti.
La vittoria al cardiopalma ottenuta contro i Lakers di LeBron e Davis, maturata ad una manciata di secondi dalla sirena proprio grazie allo splendido jump shot di Tobi e quella della super rimonta contro i Pacers, caratterizzata dalla geniale mossa da parte di Doc di passare alla difesa a zona, sono al momento la dimostrazione più genuina e significativa di quel famoso potenziale che questo roster, se utilizzato al completo, può sprigionare, soprattutto sotto la sapiente e ponderata guida di un coach capace di adattarsi alle situazioni e agli sviluppi della gara, cosa che con Brown, con tutto il rispetto possibile, non siamo mai riusciti a vedere in ben 7 stagioni sulla panchina dei Sixers.
Coach Rivers, 21 anni da allenatore in NBA, 2 finali e un titolo vinto, ha subito reso eclatante la differenza con il suo predecessore, portando a Phila non solo qualche nuova idea ma soprattutto quella grinta e quel carattere che ci hanno permesso di vincere e gestire gare (anche punto a punto) che negli scorsi anni sarebbero state sconfitte sicure.
Embiid non si è fatto attendere; i Sixers avevano bisogno di un leader, un potenziale MVP, qualcuno che a suon di prestazioni e giocate sapesse trascinare la squadra anche nei momenti più difficili, che riaccendesse il motore della vecchia automobile e tornasse a farlo rombare e ringhiare; ed eccolo lì il nostro MVP, lo abbiamo già in casa, e non che non lo sapessimo già, serviva solo un roster che avesse una logica e un coach in grado di gestirlo, sperando che il fisico regga e che gli infortuni gli diano tregua.
Che le statistiche non siano di per sé un elemento fondamentale nel determinare l’importanza all’interno delle dinamiche di gioco di un giocatore è risaputo, ma i numeri del camerunense in questa stagione sono assolutamente emblematici e meritano una menzione: 29.4 punti di media a partita (career high), 10.9 rimbalzi, 2.9 assist con 1.3 palle rubate (career high) e 1.3 stoppate, tirando con il 54.5% (career high) dal campo (addirittura un 58% da 2, career high), un sorprendente 38.1% da 3 (career high) e un ottimo 84.9% (career high) ai liberi in 32 minuti circa di media a partita.
Se questi numeri non fossero già abbastanza esplicativi, ecco allora il 124 di Offensive Rating e il 104 di Defensive Rating (entrambi career high), oltre ad essere uno dei primi della lega per punti in transizione: devastante. E così il sorriso è ritornato, The Process è ritornato, in attesa che torni anche il pubblico, il suo pubblico. Come abbiamo precedentemente accennato però, i Sixers di questa prima parte di stagione sono riusciti a guadagnarsi la testa della Estern Conference non soltanto grazie alle prestazioni stellari di Embiid ma anche grazie ad un altro fattore tanto determinante quanto inatteso, e questo fattore prende il nome di Tobias Harris.
La power forward classe 1992, dopo aver firmato un a dir poco discusso quinquennale da 180 milioni di dollari, sembra essere ritornato quello che avevamo ammirato ai Clippers nella stagione 2018-19, quando (nuovamente) sotto la guida di Doc Rivers si era distinto come uno dei migliori realizzatori di inizio stagione con 20.9 punti, 7.9 rimbalzi ed un entusiasmante 43.4% dall’arco in 34.6 minuti di media a partita, convincendo il GM Elton Brand a prelevarlo dalla franchigia californiana (durante la finestra di mercato invernale) per potarlo a Philadelphia dall’allora coach Brett Brown e completare così un roster costruito per potersi distinguere anche in postseason.
Eppure, nonostante gli ottimi presupposti e il confortante inizio della sua esperienza con la casacca dei Sixers, contraddistinto da una serie di ben 8 gare con oltre 20 punti a referto nelle sue prime 10 giocate a Phila, Harris non ha mai realmente convinto i tifosi, evidenziando gravi lacune dal punto di vista dell’incostanza della sua produzione offensiva ma soprattutto della mancanza di personalità, carenze rese ancora più evidenti proprio durante la sua doppia esperienza ai playoff.
La forte etica del lavoro però, unita all’approdo sulla nostra panchina del coach che più di tutti lo aveva saputo valorizzare, hanno fatto sì che quest’anno Tobias abbia ritrovato la sua dimensione, mostrando importanti segnali di crescita non soltanto per ciò che concerne la produzione offensiva, dove sta registrando 20.1 punti di media a partita (27.9pt per 100 possessi con un offensive rating di 116) tirando con il 51% dal campo (55% da 2), un solido 41.6% da 3 (con un sorprendente 52% sulle corner threes) e un ottimo 89% ai liberi in 34.1 minuti di media a partita, ma anche dal punto di vista del decision-making, soprattutto nei finali di partita, dove in passato si era spesso dimostrato confusionario ed evanescente.
Le importanti giocate messe a referto nei quarti finali, la maggiore aggressività nell’attaccare il ferro concludendo talvolta con sorprendenti e spettacolari schiacciate, sono l’emblema della sua sostanziosa maturazione dal punto di vista della sicurezza e dell’intraprendenza, culminata con la super giocata clutch che ci ha regalato la vittoria contro i Lakers di Lebron James e Davis, niente male Tobi. Ora però dovrà dimostrare di essere un altro anche durante i prossimi playoff, e sarà lì la vera sfida.
Doc Rivers, Joel Embiid e Tobias Harris, i tre nomi differenti che più di tutti al momento ci hanno fornito la chiave per rimettere in moto la macchina 76ers, in attesa di vedere se Ben Simmons farà quel famoso salto di qualità che in molti si aspettavano già ad inizio stagione ma che ancora non c’è stato. E chissà che Morey non stia lavorando a qualcosa dietro le quinte, sperando che la fuoriserie non si inceppi sul più bello, perché certe emozioni a Philadelphia mancano dall’ormai lontano 2001, quando un certo Allen Iverson ci portò alle Finals, e 20 anni non sono pochi.
Alessandro Blasi per Sixers Pride Nation Italia