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Portland riuscirà a liberarsi della sua maledizione?

Portland Trail Blazers Italia by Portland Trail Blazers Italia
9 Febbraio, 2021
Reading Time: 4 mins read
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Copertina a cura di Sebastiano Barban

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In principio erano i big three. I big three, sulle rive del fiume Columbia, non c’entrano nulla con Lebron, né con Curry o Durant; sono per acclamazione di popolo Damedolla Lillard, CJ McCollum e la bosnian beast, Jusuf Nurkic. In Oregon e dintorni vi è l’intima convinzione che tali figuri non valgano meno di altri e che, prima o poi, possano combinarne una grossa. Grossa e bella. 

In principio erano i big three, tra il Columbia e il Willamette, ma se vi capitasse di dare uno sguardo tra le sponde di quest’ultimo e l’Interstate 5, che taglia in senso longitudinale la Città delle Rose, in quel Moda Center che dei Pionieri è la casa, vi accorgereste che da un po’ nessuno dei tre calca il parquet bianco-rosso-nero.

Sì perché in principio, all’ombra dell’innevato mount Hood – eh sì, si chiama come Rodney, la vulcanica vetta che troneggia ad est di Portland – non erano i big three, ma era una serie di brutte storie, che ogni volta imperlano di sudore ghiacciato fronte e schiena di chiunque, a qualsiasi latitudine, faccia parte della #blazersnation. 

Storie di un fenomeno, acchiappato al draft e immediatamente rookie of the year; fenomeno legato alla città e possibile uomo-franchigia per molti molti anni (oggi ne ha solo 36… sigh), e – dai facciamoci del male fino in fondo – possibile veterano di sostanza, di quelli che ti fanno vincere davvero qualcosa di importante, costretto a fermarsi a 26 anni. 

Storie di un altro fenomeno, preferito ai Durant, agli Horford e ai Conley e praticamente quasi mai visto, devastato ancor prima di poter far capire chi fosse, lui che ci si aspettava potesse essere un secondo Shaq. 

Storie ancora recenti, di un’annata dove pareva esserci tutto quanto serviva: Dame, Cj, la bestia, uno sparring cast di giusto complemento, con punte di vero talento (Curry, Kanter) ben combinate con onesti e utili manovali del parquet (Harkless, Aminu), e dove anche un Evan Turner pareva aver trovato spazi di utilità alla sua troppo incostante bellezza. Un’annata trasformatasi in bellissima incompiuta per il drammatico, orribile infortunio di Nurkic, di quelli da fine carriera, che lasciava il team davvero troppo scoperto per poter essere all’altezza di una finale di Conference. 

Fino all’ultima, attuale, vicenda dello stop per sostanzialmente due stagioni – e con un futuro incertissimo – di quel Zach Collins che ha pur rappresentato e rappresenta la unica top ten al draft per i Blazers da e per un po’ di anni. 

Insomma, al principio, al cuore, al nucleo dei Blazers finisce sempre per esservi una sorta di maledizione, ombra davanti a cui anche il fan più ottimista e reattivo diviene fragile e pavido e tremolante ad ogni refolo di vento in ogni singola partita della stagione: l’infortunio come stato d’essere è, per gli amanti di ripcity, una tragica realtà. 

Quasi una sorda rassegnazione ha quindi accompagnato l’ultimo periodo dei Blazers, non certo brillanti fin qui e destinati dunque a un gorgo depressivo nel prosieguo, quando sono venuti a mancare ancora Nurkic per un serissimo infortunio al polso; quando di Zach Collins, già disperso nei meandri dell’infermeria, sono divenuti inconoscibili i tempi di recupero; quando sono caduti, in rapida consecuzione, CJ McCollum, Derrick Jones, Convington a cui poi, ripresosi, ha dato staffetta Nassir Little, coinvolto nella macumba oregoniana non appena realizzato il career high. Sì perché la sfortuna non solo ci vede benissimo ma, quando respira le sponde settentrionali del Pacifico, ti prende anche ferocemente in giro. 

Destinati pertanto a bissare il -30 di Milwaukee, quella sera siamo andati tutti a dormire presto, che perdersi ore di sonno ad ammirare umiliazioni contro i lanciatissimi e primissimi Sixers davvero insomma, ecco, anche no. Quale meraviglia, quale risveglio! Melo leader, Elleby fenomenale, certezza Trent, commovente Enes, Anfernee che quasi quasi convince, RoCo finalmente in grado di spingere la leadership difensiva. Gioco di squadra, difesa, basta con isolamenti e 1vs5. 

E dunque… e dunque la mente è corsa ad un’altra stagione, dove quattro su cinque si infortunarono e un incerto Terry Stotts si decise a lanciare definitivamente quel ragazzino che, entrante dalla panca da quasi due anni, sembrava non convincere mai fino in fondo. Era il 2015, fu CJ McCollum e fu subito most improved player. 

Ora, conclusione semiseria, che giunge dopo il rientro di Damian e il puntuale riprendersi di un gioco spento, noioso, irritante, accompagnato da batosta contro i Knicks: ma Stotts è rimasto quello del 2015? C’è bisogno degli infortuni per trovare uno spirito di squadra, lanciare seriamente ragazzi che, se non valorizzati con piena fiducia, rischiano di perdersi pur avendo numeri? Lo stesso Trent jr., quello di oggi, ci sarebbe stato senza Covid e bolla? 

In principio furono i big three, ma ancora una squadra intorno ad essi non la vediamo. Davamo la colpa a Olshey, al mercato, alle sciagurate operazioni del 2016, ma quest’anno il mercato è stato entusiasmante, il team ben costruito, le opzioni e alternative valide. Manca, ci pare, la gestione; manca il gioco di squadra. E speriamo che non vi sia sempre bisogno della “maledizione dei Blazers” per convincersi a fare la cosa giusta.


Matteo Fortelli – Portland Trail Blazers Italia

Tags: Cj McCollumDamian LillardnbaPortland Trail Blazers
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