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I centri sono tornati
Embiid e Jokić in lotta per l’MVP

La Redazione by La Redazione
9 Febbraio, 2021
Reading Time: 12 mins read
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il ritorno dei centri in NBA

Copertina a cura di Alessandro Cardona / Getty Images

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La stagione 1999-00 fu memorabile: molte squadre si affacciarono al nuovo millennio entrando in una nuova Arena (prime partite allo Staples Center e alla American Airlines Arena di Miami, per esempio, ma anche i Nuggets, i Pacers, gli Hawks e i Raptors inizieranno a giocare in quelle che sono tutt’ora le loro case). Elton Brand è la prima scelta assoluta di un Draft che porterà talenti come Manu Ginobili, Baron Davis, Ron Artest e Steve Francis a muovere i loro primi passi nella Lega.

A metà stagione Vince Carter realizza una serie di schiacciate che rischiano di rendere ancora più instabile la faglia di Sant’Andrea che passa sotto Oakland, dove si tiene lo Slam Dunk Contest della stagione, lanciando sé stesso, i Raptors e le loro canotte viola nella storia della Pop Culture.

È anche l’ultima stagione in cui nelle votazioni per il premio di MVP della stagione regolare il podio è occupato da due centri, Shaquille O’Neal, che con i Lakers vincerà il premio e procederà a fare doppietta nelle Finals dopo aver maciullato i Pacers, e Alonzo Mourning, che finirà terzo nelle votazioni dietro Kevin Garnett dopo aver portato i suoi Miami Heat ancora una volta ai piani alti della Eastern Conference sotto la guida di Pat Riley.

Questo piccolo viaggio nel tempo ci aiuta a capire la particolarità di ciò che stiamo vedendo in questa stagione dove, LeBron permettendo (come sempre), a contendersi il premio più importante della stagione sono due pesi massimi, Joel Embiid e Nikola Jokić.

 

Il rendimento di Embiid

Chi, tra i due, sembra più legato a quel passato ventennale è certamente la stella dei 76ers, che in questa stagione sta finalmente brillando come ci si aspettava, complici il nuovo clima positivo e la nuova squadra più adatta alle sue caratteristiche che Daryl Morey e Doc Rivers hanno portato in dote a Philadelphia.

La stagione di Joel Embiid è iniziata nel migliore dei modi possibili: lui nella miglior condizione fisica della sua carriera e una squadra cucita a sua misura, che vive e prospera del buco nero che crea sotto canestro. Ad oggi, Embiid è quarto nella lega per punti segnati, 29 a partita, a cui aggiunge 11 rimbalzi, 3 assist e riempie anche di uno le caselle di stoppate e palle rubate per non farsi mancare niente.

La qualità del suo gioco e la sua importanza nelle fortune dei 76ers è confermata da qualunque statistica, dalle più semplici (i Sixers hanno vinto una sola partita su cinque senza di lui) a quelle un po’ più raffinate, come per esempio le percentuali al tiro per zona dell’area: 76% al ferro, 56% dalla media, 64% nei long-two e il 39% da 3 che, uniti ad un 85% dalla lunetta (in cui è decisamente presente, con 11 tiri liberi a partita), producono una True Shooting% del 67.6%.

Un esempio utile per capire la magnitudo di questo dato è il fatto che Kevin Durant, uno dei migliori giocatori offensivi nella storia del gioco, non ha mai registrato un’efficienza così alta, né nella stagione da MVP, né negli anni del superteam a Golden State.

È altamente improbabile che Embiid riesca a mantenere questi dati impressionanti per tutta la stagione, ma non sono certamente frutto del caso (per esempio, durante la stagione scorsa, certamente una delle più negative per Embiid e i 76ers, il centro camerunense ha chiuso la stagione segnando 1.10 punti per possesso in post basso, mentre in questo periodo di forma straordinario è fermo “solo” ad 1.06) né sono destinati a registrare grossi cali e questo è certamente più facile notarlo allontanandosi da numeri e tabelle per vedere l’atto pratico.

Il rendimento di questa stagione non proviene solo dal dominio in post basso.

Doc Rivers non ha solo  allargato lo spazio disponibile, attraverso gli inserimenti di Curry e Green e “aggiornando” Ben Simmons e Tobias Harris, ma sta permettendo ad Embiid una libertà ed una varietà di soluzioni che il centro non aveva mai visto in carriera.

Se prima il gioco di Embiid si poteva dividere tra isolamenti in post basso e triple quando smarcato, adesso c’è il pacchetto completo. Quest’anno, l’area avversaria è la stanza dei giochi di Embiid, completamente libero di sfoderare il suo repertorio: riceve spesso in punta e può palleggiare, decidendo la soluzione che percepisce migliore, sia essa un hand-off ad un tiratore, un tiro dalla media o una penetrazione, ha il talento per segnare tutto.

C’è stata una partita in cui questo è stato particolarmente evidente, complici dei Miami Heat ridotti all’osso come avversari. In quell’occasione, Embiid ha segnato 45 punti guidando la squadra alla vittoria nel supplementare, battendo chiunque avesse davanti in ogni modo immaginabile su un campo da basket.

L’ultimo elemento da aggiungere per avere un buon assaggio della stagione di Joel Embiid è capire come questa sua straordinaria capacità di segnare punti si traduca per i suoi compagni di squadra.

Recentemente si parla sempre più spesso dei mega creator, giocatori che, col pallone in mano, sono capaci di generare gran parte della produzione offensiva della squadra, in maniera non solo diretta, segnando loro i canestri, ma anche indiretta, attraverso passaggi o semplicemente grazie all’attenzione che generano nella difesa avversaria, costretta a lasciare occasioni “minori” per contenerli.

Gli appartenenti alla categoria sono, comprensibilmente, esterni o giocatori molto capaci dal palleggio e che dunque hanno la palla fin dall’inizio della stagione (pensiamo a LeBron James, James Harden, Luka Dončić ma anche Nicola Jokić, di cui parleremo a breve).

Embiid ne fa “quasi” parte, nel senso che lo stesso fenomeno avviene nel momento in cui conquista posizione e riceve palla in post basso.

Quando ciò avviene, l’intera difesa ha occhi solo su di lui e lavora per evitare il suo canestro, liberando spazio per i compagni che, se sono ottimi tiratori da 3 e capaci di prendere buone decisioni immediate (che siano un extra pass, una finta o un movimento in area), creano un attacco che tiene in uno scacco costante i difensori, sempre un passo in ritardo ed Embiid ne è sempre più consapevole, diventando sempre più rapido nel capire quando conviene passare la palla al compagno smarcato e nel trovarlo con un buon passaggio.

La gravity di Joel Embiid in post è impressionante. Mi aspetto che le percentuali di Seth Curry calino nel corso della stagione ma non così tanto, con degli spazi così i tiri che si prende sono di qualità altissima pic.twitter.com/J1EGiX56kQ

— Francesco Semprucci (@fra_sempru) January 7, 2021

 

Il rendimento di Jokić

All’altro angolo del ring in questo match tra pesi massimi per la cintura di MVP c’è Nikola Jokić, un giocatore unico e difficilmente categorizzabile.

Pur condividendo con Embiid e con i grandi centri del passato il post basso come scelta offensiva preferita, usato ovviamente in maniera diversa, Jokić aggiunge una dimensione da passatore straordinaria per visione e capacità tecnica. Se si vogliono cercare dei termini di paragone, è bene uscire dal ruolo di centro e andare a cercarli tra le point guard più raffinate della Lega.

Jason Kidd ha messo su qualche chilo dall’ultima volta che l’abbiamo visto:

Ma esattamente quando lo ha visto? Ok il set prevederà sicuramente un tiratore in angolo opposto ma dargliela così precisa senza guardare nemmeno per un istante l’angoloè follia pic.twitter.com/UhW1lQ2WXr

— Francesco Semprucci (@fra_sempru) January 4, 2021

Combinando la sua abilità in post e la sua abilità da passante succede questo: la difesa è talmente spaventata dalla sua capacità di trovare il tagliante che un semplice taglio dal lato debole fa dimenticare alla difesa della presenza di un tiratore in angolo.

Questa situazione manda in crisi molte difese.
Decoy action sul lato debole con un taglio, la difesa è spaventata dalla capacità di Nikola di trovare il tagliante e il tiratore rimane libero, poi ci pensa Jokic con una capacità clamorosa di trovare ovunque il compagno libero. pic.twitter.com/jll8s8MjZi

— Francesco Semprucci (@fra_sempru) December 29, 2020

In attacco, Jokić è un giocatore totale e non esiste una tattica difensiva che possa toglierlo dalla partita. Gli scorsi playoff rappresentano certamente il miglior esempio di questa sua onnipresenza cestistica.

I Nuggets hanno giocato due Gare 7, contro i Jazz al primo turno e contro i Clippers al secondo. Ebbene, nelle ultime gare delle rispettive serie, le squadre avversarie hanno scelto due strade opposte come tattiche difensive per arginarlo, ma il bivio si è poi riunito in una strada ad una sola corsia: vittoria dei Nuggets.

I Jazz, puntando su un campione difensivo del ruolo come Gobert, hanno cercato di gestirlo con una marcatura fissa, ma Jokić è un realizzatore troppo abile e i 30 punti sugli 80 complessivi segnati in quell’occasione lo dimostrano. I Clippers, invece, hanno imboccato la strada opposta, forti di una squadra più mobile di Utah e con un genio delle letture difensive come Leonard, mettendo in atto un piano di raddoppi sistematici per rendere difficile la vita al centro serbo con la palla in mano. Come abbiamo detto, però, Jokić è un passatore visionario e raffinato, capace di realizzare 13 assist in una gara 7, distribuendo il suo peso specifico sulla partita ai compagni, che ovviamente ne beneficiano oltremodo.

Come se ciò non bastasse, Jokić ha pensato bene di togliere uno dei suoi principali punti deboli, presentandosi nella bolla di Orlando asciutto come non mai, pronto a correre molto di più e fornendo così a coach Malone tutta una nuova serie di opportunità con le quali torturare gli avversari.

Nessuna analisi tecnica/tattica.
Solo Jokic che corre come non ha mai fatto in carriera. pic.twitter.com/EwwKQJhS1M

— Francesco Semprucci (@fra_sempru) February 2, 2021

Guardate questa SLOB action, Denver la utilizza tantissimo sfruttando il fatto che ora moltissimi centri non abbiano il passo per stargli dietro.

 

La stessa cosa succede in questa azione: uscita dai blocchi di Jokic degna di una guardia, legge benissimo il suo accoppiamento difensivo e sfrutta perfettamente il vantaggio acquisito sui blocchi. Una volta è Cauley-Stein, quindi palleggio di forza, sposta il prodotto di Kentucky e ne appoggia due al tabellone, l’altra è Marjanovic, quindi virata sfruttando la differenza di rapidità e appoggio.

 

La miglior condizione fisica rispetto agli anni passati consente a Nikola di stare in campo anche più tempo, quattro minuti netti in più, ma ha accentuato anche la dipendenza della squadra dalle sue prestazioni.

Denver ha tanto talento diffuso, ma non ha ancora trovato il modo di amalgamarlo: Murray sembra aver lasciato la borraccia della “Michael’s Secret Stuff” nell’hotel di Disneyworld, Michael Porter Jr. continua a mostrare lampi clamorosi su entrambe le metà campo ma manca ancora di concentrazione, specie in difesa, imperdonabile in una squadra già incerta nella propria metà campo, e di costanza, anche in attacco, dove ha alternato partite da 30 punti a partite sotto i 10 a causa di percentuali pessime.

Ciò che sembra mancare a questi Nuggets è un elemento di equilibrio come Gary Harris, ancora alle prese con problemi fisici dopo dei playoff di alto livello.

Nel tentativo di costruire una difesa senza il suo miglior elemento, Malone si è affidato molto a Barton (35 minuti a partita), dopo che nelle partite precedenti il suo minutaggio era crollato (in corrispondenza della striscia di vittorie di Denver) trovando finalmente una quadra offensiva.

Se a questo problema strutturale aggiungiamo le momentanee assenze di Porter Jr. e Green a causa del coronavirus, capiamo meglio perché alle prestazioni incredibili di Jokić non seguono spunte nella casella delle vittorie.

Il centro serbo è un giocatore disposto ad adattare il suo gioco per vincere, che sia cedendo parte dei suoi tiri o, al contrario, prendendosi sulle spalle un carico di responsabilità ancora superiore, ma occorre che i Nuggets trovino un equilibrio tra le due metà campo e nelle responsabilità dei compagni di squadra perché la loro superstar possa condurli ai livelli più alti della lega.

 

L’evoluzione del ruolo del centro

Questo duello al massimo livello tra due centri presenta anche l’occasione per una riflessione su come sia cambiato il ruolo del centro in questi anni, e forse anche sul perché sia avvenuta questa rivoluzione copernicana.

Sul come poco da spiegare, essendo forse il cambiamento più evidente nel passaggio al basket attuale, fondato su elementi più tipici dei giocatori perimetrali che dei ruoli interni, di cui il tiro da 3 è solo il prodotto finale di un lavoro fatto di passaggi, letture e movimenti a cui il centro tradizionale non è certamente abituato, se non addirittura impossibilitato da limiti atletici.

Il perché invece è forse più interessante ed incerto, per cui permetteteci di presentarvi un’ipotesi.

Il fondamento di quest’idea è che l’attuale pallacanestro non sia il frutto di un puro calcolo matematico nei termini dell’efficienza e del calcolo probabilistico, ma piuttosto che questo ragionamento matematico sia il frutto di un adattamento ad una situazione pre-esistente e che questa sia, molto semplicemente, l’assenza di interpreti di altissimo livello nel ruolo di centro.

Riprendiamo la macchina del tempo. Ci eravamo lasciati nel 2000, Shaq si prepara a dominare la lega per i prossimi 4 anni, il suo rivale per l’MVP di quell’anno, Mourning, è invece all’ultimo assolo di una carriera straordinaria, prima della tremenda malattia ai reni che caratterizzerà ovviamente gli anni successivi.

A questi due, segue l’epoca d’oro delle ali grandi, capitanate dal cerbero Duncan-Garnett-Nowitzki e il centro comincia già a diventare un ruolo più di sistema, fondato maggiormente sui compiti difensivi, il cui lavoro in attacco è sempre stato più funzionale, con un ruolo marginale in quanto a realizzazione (pensiamo ai centri titolari delle squadre titolate in quegli anni: Ben Wallace, Nazr Mohammed, Fabricio Oberto, Kendrick Perkins…)

I talenti che in quest’epoca cestistica avrebbero dovuto mantenere al massimo livello il ruolo del centro superstar sono tutti un po’ maledetti. I due con la miglior carriera sono certamente stati Yao Ming e Dwight Howard, il primo con un corpo di cristallo e il secondo incapace di tornare al meglio da un infortunio gestito male.

Seguono dietro altri due grandi talenti, ancora più sfortunati: Andrew Bynum e Greg Oden. Il primo fece in tempo a disputare una grande stagione, nel 2012, in cui i 20 punti e 12 rimbalzi di media sembrarono il preludio ad un nuovo centro dominante nella lega, stonato dai problemi cronici al ginocchio che ne condannarono la carriera. E se si parla di problemi alle ginocchia, il gancio per parlare di Greg Oden, che di operazioni chirurgiche là ne ha patite 7, è automatico.

Fanalino di coda, se volete, è DeMarcus Cousins il quale, se non avesse avuto gli infortuni e fosse limitato dai problemi caratteriali che ben conosciamo, avrebbe anticipato di qualche anno quanto stiamo vedendo adesso con Jokić ed Embiid. Insomma, parliamo di un Hall of Famer (Yao), di un futuro tale (Howard), di uno dei più grandi talenti inespressi nella storia della lega (Oden) e di un potenziale all star perenne (Bynum) che la sorte, i limiti fisici e, in alcuni casi, una scarsa etica lavorativa, hanno limitato nella loro carriera.

Non sono certo sufficienti per fermare la spinta inarrestabile del progresso, ma l’assenza di squadre con talenti di questo livello ha certamente facilitato e accelerato il processo che ha portato ad una maggiore concentrazione sul gioco perimetrale e i suoi interpreti, per mancanze di alternative e di “ostacoli” (mancavano cioè i giocatori più difficili da difendere per i quintetti più piccoli e leggeri).

Che sia questa la causa del basket che stiamo vivendo o meno, l’attuale lotta al premio di MVP è la dimostrazione che la pallacanestro è un costante studio di se stessa, un lavoro certosino sempre consapevole di ciò che possiede e con l’obiettivo di migliorarlo e senza mai dimenticarsene ma al più conservandolo aspettando le situazioni ideali, come possono essere i talenti straordinari di un ragazzo camerunense e di uno serbo per rispolverare un’arte persa solo in apparenza come il post basso.


Articolo a cura di Cesare Russo e Francesco Semprucci

Tags: MVPNikola Jokic
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