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I 5 soprannomi più affascinanti della storia NBA

Davide Torelli by Davide Torelli
5 Febbraio, 2021
Reading Time: 11 mins read
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Soprannomi NBA

Copertina a cura di Marco D'Amato / Getty Images

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Evocativi, simpatici, complessi. I soprannomi dei giocatori NBA hanno spesso determinato stili e narrazioni, contribuendo nella costruzione di quel fortunatissimo connubio tra sport e marketing pubblicitario, tanto funzionante negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘80. Talvolta caratterizzando intere epoche e permettendo un sistema che funziona ancora oggi, laddove spesso ci si dimentica dei nomi anagrafici a favore del nickname dedicato.

Giannis Antetokounmpo – per dirne uno – è molto più difficile da scriversi, ricordarsi e pronunciarsi di quanto non sia “The Greek Freak”, che nell’immediatezza strutturale è anche ottimo a livello promozionale (la Nike ne sa qualcosa).

Ma gli esempi ovviamente si sprecano, partendo da leggende del passato diventati tali anche per un appellativo “di successo”, da accompagnarsi ad un gioco impossibile da dimenticare. Ed in tutto questo, anche il viceversa ha diritto di cittadinanza, laddove un Bryant Reeves qualsiasi – giunonica speranza mai mantenuta dagli allora Vancouver Grizzlies esordienti nella lega – viene oggi rammentato solo ed unicamente in quanto “Big Country”, e non certo per le sue imprese.

Per Julius Erving, “The Doctor” ebbe origine negli anni del liceo, quando un compagno da lui rinominato “Professor” (uno con la pretesa di spiegarla un po’ a tutti) decise amichevolmente di rendergli il favore. Divenne di dominio pubblico, su suo suggerimento, negli anni in cui Erving destava meraviglia in quel del Rucker Park nella Grande Mela.

Oppure che l’atipica point guard dei Lakers si chiamasse Earvin, probabilmente, è nozione di secondo piano per molti che lo hanno scoperto postumo, o negli anni in cui conduceva contropiedi vertiginosi in pieno showtime: per tutti è Magic Johnson, nei secoli dei secoli.

Per quanto riguardava invece Earl Monroe, l’iconico “Jesus” (divenuto poi “Black Jesus” per completezza giornalistica) derivava dalla fama miracolosa costruitasi sugli asfalti newyorkesi, ma “The Pearl” diventa il secondo nome ufficiale a partire dall’ultimo anno di college, accompagnandolo per tutta la carriera professionistica.

Infatti, per molti giocatori di grido nella storia della lega, un nickname spesso non era sufficiente anche perché ereditato dal passato e destinato a modificarsi. Wilt Chamberlain era “The Stilt” – e lo sarebbe rimasto per sempre – ma attorno ad una figura simile appariva naturale “esagerare” in fantasia. Ed allora avanti con “The Big Dipper”, “The Load” o “Goliath”.

Per quello che in molti indicarono come suo erede qualche decennio dopo il suo ritiro, Shaquille O’Neal, medesima sorte: dal diminutivo “Shaq” a “The Big Aristotele” , passando per “Shaq Fu” o “Superman” fino al conosciutissimo “The Diesel”. Una serie di soprannomi spesso proposti da lui stesso, che hanno contribuito a formarne l’epica di stagione in stagione.

Discorso analogo per Kevin Garnett, che in progressione con una carriera quasi inedita (uno dei primi in epoca moderna a passare professionista direttamente dalla high school) è stato “The Kid”, poi “The Revolution” ed infine “The Franchise”. Letterale rappresentazione di una metaforica “stairway to heaven” per citare i Led Zeppelin.

E per riallacciarci ancora a O’Neal, prendendo spunto dal valore commerciale che il suo “Shaq” acquisì con l’uscita delle sue scarpe personalizzate da Reebok, impossibile dimenticare il soprannome più conosciuto ancora oggi, se non altro perché vestito ed acquistato da tutti sia ieri, che oggi, e sicuramente domani: “Air” per Michael Jordan.

E dire che durante il suo primo anno nella lega, le sfide gravitazionali con cui MJ aveva rapito grandi e piccini avevano portato i cronisti a rinominarlo “Captain Marvel”, in piena ispirazione fumettistica. Decisamente poco vendibile rispetto all’essenzialità evocativa di quello che, con il passare degli anni e acquisizione di regalità, sarebbe divenuto “His Airness”.

Insomma, ad accompagnare l’abitudine narrativa statunitense, a partire dagli anni’90 si aggiunge anche quello che ho definito su queste pagine lo “star branding”, ed il numero di nickname di dominio pubblico aumenta vertiginosamente. All’aumentare, chiaramente, della diffusione dei personaggi, nel tentativo di raccontarli al meglio.

Lasciamo da parte classiconi complessi come “The Human Highlights Film” o “The Round Mound of Rebound”, ed i vari “The Mailman”, “The Admiral”, “The Worm” o “The Answer”, che tanto conosciamo senza bisogno di dover specificare a chi appartengono.

Eccone cinque non necessariamente meno conosciuti, ma sicuramente particolari per storia o per determinazione, sottolineando che riassumere l’immenso parco soprannomi collegato alla pallacanestro sarebbe impresa enciclopedica.

 

Chocolate Thunder – Darryl Dawkins

Giunto in NBA direttamente dalla Maynard Evans High School nel 1975, un giocatore come Darryl Dawkins non poteva che ispirare suggestioni particolari. Anche soltanto per uno stile di gioco fatto di roboanti schiacciate e tabelloni frantumati. Diviene “Chocolate Thunder” grazie ad un tifoso piuttosto particolare, in condizioni decisamente inusuali. Perché il padre del nomignolo fu nient’altro che Stevie Wonder, uno dei più apprezzati artisti pop del XX secolo, non vedente.

Non volendosi privare dello spettacolo del gioco per il quale era appassionato, Stevie sedeva spesso a bordo campo accompagnato da un ragazzo, il quale descriveva per filo e per segno tutto quello che avveniva sul parquet. Una personalissima radiocronaca, impreziosita dal fatto di trovarsi a pochi metri dai giocatori, percependo tutto ciò che concerne l’atmosfera di una partita eccezion fatta per le immagini.

Secondo il compianto Dawkins, davanti ad una sua ennesima affondata il ragazzo avrebbe potuto descriverlo come un giocatore capace di inanellare una “schiacciata tuonante” dietro l’altra, prendendosi qualche licenza poetica per rendere più coinvolgente il racconto. Da lì, il soprannome donato direttamente dall’artista al compianto centro, tra l’altro visto anche a Milano, Torino e Forlì in coda alla sua carriera.

La storia appare decisamente evocativa, ed essendo stata raccontata dal giocatore stesso potrebbe anche peccare di veridicità, considerando quanto Darryl amasse attizzare la sua epica, ed il fatto che Wonder stesso non sarebbe cieco come si dice. Una pseudo teoria della cospirazione addirittura sostenuta da un’improbabile Shaquille O’Neal, tra l’altro.

 

The Microwave – Vinnie Johnson

Originario di Brooklyn e tenutario di appena 188 centimetri, Vinnie Johnson era l’arma non troppo segreta dei Bad Boys dei Pistons per tutti gli anni ‘80, grazie ad un talento offensivo cristallino ed un’attitudine da duro ben rappresentata con espressioni perennemente corrucciate. Verrà chiamato “The Microwave” (il microonde, di fatto) grazie all’intuizione di un avversario, frustrato dopo l’ennesima prestazione da killer subita. Quell’uomo era Danny Ainge (al tempo in forza ai Boston Celtics) e la genesi del nomignolo ha quindi una data precisa. Circostanza rara, in questo contesto.

È il 5 maggio del 1985, ed i Pistons affrontano i Celtics per gara 4 delle semifinali di Conference al Palace. Dopo essere andati sotto per due a zero nella serie, i Bad Boys hanno l’occasione per riporla in parità e Vinnie gioca una partita epica, partendo al solito dalla panchina. Per lui ci sono 34 punti con un incredibile 16 su 22 dal campo e soprattutto 22 punti nel quarto periodo.

Ai microfoni del dopo gara, Ainge lo definirà “Microwave” per la sua capacità di scaldarsi rapidamente, realizzando tanto provenendo dalle retrovie della squadra.
Oltretutto in alternanza con un altro nickname famosissimo nel mondo dello sport statunitense: William “The Refrigerator”Perry , defensive lineman dei Chicago Bears della NFL.

 

Plastic Man – Stacey Augmon

A prescindere dal ruolo giocato all’interno dei Runnin’ Rebels che fecero l’impresa, Stacey Augmon ha vissuto una carriera da buon specialista, non certo degna di grandi memorie. Ma quel soprannome iconico in accompagnamento alla sua figura, lo ha in un certo modo consegnato alla storia.

Impossibile dimenticarsi di “Plastic Man”, che al semplice risuonare rimanda a qualcuno degli spettacolari highlights che ne contraddistinguono i tempi passati a servizio degli Atlanta Hawks. Non a caso a fianco di Dominique Wilkins, un altro che sapeva attirar attenzioni per spettacolarità e conseguente nomignolo iconico (ma meno immediato).

Augmon era soprattutto un superbo difensore, capace di determinar parziali importanti annullando gli avversari ed avvalendosi di agilità ed apertura alare di prim’ordine. Una caratteristica già visibile negli anni di UNLV, emersa prepotentemente con l’approdo a Portland, diventando uomo chiave della second unit spesso destinato anche a chiudere le partite. Poteva difendere con efficacia su quattro posizioni, non una cosa da poco.

Tuttavia, in un’epoca in cui schiacciate e acrobazie la facevano da padrone su NBA Action o Sportcenter, il suo atletismo divenne tratto di distinzione da subito, rendendolo più che riconoscibile. In aria sapeva galleggiare, cambiare di direzione, evitare le lunghe braccia degli avversari fino a schiacciargli in testa. Collezionava giochi da tre punti in condizioni ai limiti dell’immaginabile. Da vero e proprio “Plastic Man”, destinato a rimaner tale per sempre.

 

The Glove & The Reign Man – Gary Payton e Shawn Kemp

Coppia spettacolare se ce n’è stata una all’interno del decennio dei nineties, Payton e Kemp rappresentano ancora oggi i Seattle Supersonics nell’immaginario collettivo di ogni tifoso. Anche e soprattutto in quelli che si definiscono ancora orfani della franchigia della Città di Smeraldo.

Impossibile non ammirare le loro evoluzioni in entrambi i lati del campo, tanto quanto necessario racchiudere la loro essenza in due soprannomi riconoscibili, da unire in automatico. Magari dopo l’ennesimo furto difensivo tramutato in contropiede, finalizzato dalla più classica degli alley-oop. I due si sono recentemente ritrovati di fronte a una telecamera, in occasione della serie di documentari “Basketball Stories” prodotta da NBA Tv. Un’occasione per ripercorrere gli anni insieme, raccontando dettagli inediti, anche rispetto ai loro nickname.

Shawn Kemp & Gary Payton were a special duo ?

Catch the premiere of Basketball Stories: Reign Man & The Glove – Wednesday at 8pm ET on NBA TV! pic.twitter.com/id8l2LvIVG

— NBA TV (@NBATV) December 15, 2020

Per Gary, “The Glove” calzava proprio come un guanto: preciso ed incollato alla sua personalità esuberante e fastidiosa. Allo stesso modo in cui usava incollarsi agli avversari, distruggendoli psicologicamente con pesantissimo trash talking, prima di rubargli la palla da sotto il naso.

Un soprannome che risale alle Conference Finals del 1993, con Seattle che impegna i Suns di Barkley per 7 partite prima di lasciarli volare all’ultimo atto. In quella serie Payton si incolla letteralmente a Kevin Johnson, una delle point guard più efficaci della lega soprattutto in materia di penetrazioni. Dopo una prestazione particolarmente convincente, suo cugino lo chiama telefonicamente, entusiasta del fatto che avesse “contenuto KJ come una palla da baseball in un guantone”.
Da lì il nomignolo, che diviene anche visivo nel modo in cui Gary batte il cinque con i compagni di squadra, tenendosi il polso con l’altra mano, simulando così un guanto e creando di riflesso una tendenza.

Rispetto a Shawn, l’assonanza tra “Reign Man” (più o meno “il regnante”) e “Rain Man” ha creato più di un fraintendimento, per un soprannome che tutto sommato potremmo definire “double face”.

In realtà, per quanto Seattle fosse città di piogge frequenti, Kemp non appariva proprio entusiasta dell’associazione. Il suo modo di imporsi in contropiede, concludendo con schiacciate fragorose, ne rendeva lo stile molto simile ad un uragano crescente, ma accetta il soprannome principalmente dopo che Kevin Calabro – speaker e commentatore dei Sonics in quegli anni – gli spiega l’esatta enunciazione lettera per lettera.

Meglio essere dominatore dei malcapitati avversari, che uomo della pioggia e quindi di sventura, e la particolare complessità del tutto risulta più che funzionante a livello di marketing (per la gioia della Reebok alla quale si collega) che di memoria.

 

Grandmama – Larry Johnson

Il soprannome di Larry Johnson, infine, rappresenta la perfetta risultante tra NBA, pubblicità e universo POP.

Ala simbolo degli Charlotte Hornets prima e dei Knicks poi – compagno di squadra di Augmon a UNLV e prima scelta assoluta nel Draft 1991 – deve il suo soprannome ad un’apparizione in una sitcom dove impersonava “Clarabella”. Una simpatica nonna particolarmente abile con la palla a spicchi tra le mani.
La serie era Family Matters (conosciuta in Italia come “Otto sotto un tetto”) e la puntata, datata 1993, si chiamava appunto “Grandmama”.

Capace di attirare numerosi appassionati per uno stile di gioco spettacolare – almeno nella prima parte di carriera, prima che la schiena inizi a fare i capricci – Johnson in verità aveva già personificato il personaggio in una fortunatissima serie di spot targati Converse, per il quale era atleta in vetrina. Nel primo di questi, introducendo la sua versione da nonna travestita, descriveva le scarpe a sua firma come “talmente leggere e veloci che perfino sua nonna avrebbe potuto giocarvi”, o qualcosa di simile.

Concludendo – principalmente per questioni di spazio – l’elenco dei soprannomi potrebbe essere infinito, e volutamente ho scelto di tralasciarne alcuni entrati nell’immaginario collettivo moderno, ma a mio parere di valore differente perché suggeriti direttamente dai protagonisti.

Come LeBron James, che si tatua direttamente sulla schiena “The Chosen One” e diviene “The King” giocando sul proprio cognome. O il “Black Mamba” con cui Kobe risolve una delle poche mancanze all’interno di una carriera incredibile, cioè quella di un nickname spendibile anche a livello di marketing. Anche “Jesus Shuttlesworth” per Ray Allen è figlio della partecipazione – da protagonista – alla conosciutissima pellicola diretta da Spike Lee “He Got Game”, ed è indirettamente ispirato nel film a Earl Monroe, tra l’altro.

Ce ne sarebbero tantissimi altri, per particolarità e rappresentazione di personaggi meno resistenti al passaggio del tempo, ma ugualmente fondamentali in NBA per la propria epoca di appartenenza. Magari potremmo recuperarli, in una sorta di seconda puntata, qui su The Shot.

Tags: Darryl DawkinsGary PaytonLarry JohnsonShawn KempSoprannomi NBAStacey AugmonVinnie Johnson
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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