Chicago ha fretta. Sarà stata The Last Dance, che ha riproposto i giorni di gloria, sarà che i playoff mancano dal 2017, la vittoria in una Serie dal 2015, le Finals addirittura dal 1998. Sarà che la città del vento ha spazzato via il tandem Garpax e adesso sono finite le e scuse e i capri espiatori. Sarebbe arrivata l’ora di tornare quantomeno competitivi, per i Bulls.
Eppure il presente parla di lampi intermittenti, ma anche, ancora, di troppo buio. Chicago ha tanti giovani promettenti in organico. Una filastrocca che pare una formazione di calcetto da snocciolare: White, LaVine, Williams, Markkanen, Carter. Un quintetto, il quintetto titolare. Zach LaVine con i suoi 25 anni è il matusalemme del gruppo, addirittura. E ci sono pure Gafford e Hutchison, volendo, da poter considerare, per provare a far tornare l’equivalenza meglio gioventù=grandi risultati. Eppure il problema è tutto qui: i conti ancora non tornano. Il record è screenshot impietoso: 7 vinte, 11 perse. Persino nell’Est NBA, una sorta di tana libera tutti per gli impenitenti, da tanto, troppo tempo, non vale un posto playoff. L’11mo posto non vale neppure quello play in, per dirla proprio tutta.
Il problema è ovvio: i Bulls hanno tanti giocatori giovani promettenti, appunto. Ma non hanno in casa il campione. Manca l’uomo della provvidenza, l’uomo franchigia dichiarato. Forse non hanno neppure un All Star a roster, anche se Zach potrebbe aver da ridire, a riguardo. Aspettano e sperano. Che qualcuno dei tanti virgulti faccia il salto di qualità. Il problema, dando a Pat Williams l’assoluto beneficio del dubbio, troppo presto per sbilanciarsi, è che gli altri assomigliano tutti, nella migliore delle ipotesi, a potenziali secondi o terzi (qualcuno pure quarti eh) violini per una squadra ambiziosa. Il grande tenore non pare ancora essere approdato nella Windy City.
La partita contro Portland, l’ultima giocata dai Giovani Tori, è lo specchio della stagione e del loro status. Promesse con picchi persino ammalianti. Eppure poi non mantenute. La tipa che ti chiede di salire a casa sua e poi di accontentarti del bacio della buonanotte. Perché non vuole “correre”. Chicago ha fretta. Vuole “correre”, lo esige persino. Eppure la beffa targata Dame Lillard e le parole del “temporeggiatore” Donovan, con cui ho discusso con accesso media Zoom targato The Shot, ci riportano alla realtà: è ancora presto per sognare. E forse è meglio ricalibrare e moderare le aspettative, se non si vuole essere ferocemente delusi.
Lillard, lo spietato
Partiamo dalla fine. Dai Bulls capaci di rimontare da -19 contro Portland. Avanti di 5 punti con 10″ da giocare. Con la vittoria in tasca. Ma loro hanno “solo” tanti buoni giocatori, i Blazers hanno un fenomeno. Quello con lo 0 come numero, Dame Dolla quando fa rap. Quando impazza sul parquet è noto, anzi celeberrimo, per i tiri impossibili, dalla grande distanza, con la gara in bilico. L’emblema dello star power NBA. Piazza una tripla a bersaglio. Poi LaVine, quello che dovrebbe essere il go to guy dei Bulls, l’uomo degli ultimi possessi, si fa “incastrare” in una palla a due, cadendo come un principiante in una trappola, peraltro neppure chissà cosa della disperata difesa Blazers. LaVine è più alto e (molto) più atleta di Trent, ma perde poi la palla due. Che, naturalmente, come fosse calamitata, finisce tra le mani di Lillard. Che allo scadere, fuori equilibrio, ma non fuori tempo massimo, muove la retina col tiro da 3 della vittoria. Game over.
Coach Donovan, il temporeggiatore
Non ce ne sono molti di Coach NBA che ti rispondono “pane al pane” con frequenza. Coach Malone, spesso, Coach Rivers talvolta, Coach Pop quando ha voglia. Donovan non fa parte di questa pattuglia. Però ci ho provato. Ho le prove, da video postato dai Bulls su Twitter nel prepartita. Gli ho dunque chiesto chi potesse diventare IL giocatore top, tra i tanti giovani dal cui mazzo può pescare quotidianamente. La sua risposta è stata da 0-0.
LIVE: Head Coach Billy Donovan media availability prior to tonight’s game against the Trail Blazers https://t.co/EX5OauVOor
— Chicago Bulls (@chicagobulls) January 30, 2021
“Troppo presto per dirlo, sono così giovani. Patrick (Williams) ha 19 anni, White 20, Lauri (Markkanen) come Carter ha affrontato parecchi infortuni. Stanno tutti cercando di imporsi in NBA. Stanno giocando tanti minuti, hanno avuti alti e bassi, ma fa parte del loro percorso di crescita. É presto per me per dire chi possa diventare uomo franchigia. Dipende da come crescono, come si sviluppano, da quanto migliorano, da quanto lavoro faranno, da quali soluzioni troveremo per tirare fuori il loro potenziale. Ma tutti sinora hanno lavorato duro per migliorare”. Chiaro che sa di non allenare un Derrick Rose, per restare alla storia recente dei Bulls. E chiaro che, sapendolo, preferisce non fare figli e figliastri. Ok Coach. Ricevuto. In fondo una non risposta così è a suo modo una risposta.
La rabbia di Zach
“Questa è l’NBA. Ci sono giocatori incredibili. A volte succede a te: ti battono con le prodezze, ci sono cose che non puoi controllare. Fa schifo, ma succede”.
Zach LaVine
LaVine sta segnando quasi 27 punti per partita. Tira con oltre il 51% dal campo. Di contorno tira giù oltre 5 rimbalzi e smazza oltre 5 assist per partita. Però in difesa è una mezza tragedia. A Minneapolis ho sentito definirlo da un giornalista che ha seguito i Wolves dalla stagione dell’esordio in NBA “Il peggior difensore che abbia vestito questa maglia“. E ne hanno avuti parecchi eh… Soprattutto Zach non ha mai giocato una partita di playoff, e questa è la sua settima stagione nella lega. Sposta zero, storicamente, in chiave obiettivi di squadra. Lo sa e vuole cambiare la storia.
Però mica è facile. Dice: “Abbiamo giocato bene. Penso di aver fatto un buon lavoro per contribuire a ritrovarci nella posizione di vincere questa partita, in rimonta. Poi queste cose succedono. Questa è la NBA. Ci sono cose che non possiamo controllare. Ci sono giocatori incredibili. A volte queste cose succedono a te. Fa schifo, ma si tratta di guardare avanti. Siamo sempre li, come record (in prospettiva play in). Nonostante gli errori“.
Tra gli errori ci sono le interpretazioni delle volate. Contro Oklahoma City e Golden State la beffa era stata simile. Manca l’alpha dog. E se l’alpha dog diventa LaVine, oltre le sue cifre, non sempre, ed è un suo storico difetto di carriera, fa le scelte giuste. Eccellente realizzatore, ma non sempre lucido, neppure quando si mette in proprio, figurarsi da facilitatore. Durante la gara coi Blazers è riuscito a farsi fischiare contro un’invasione di campo su rimessa laterale chiamando palla, dando l’impressione di non conoscere proprio le regole…
Coach Donovan vota per lui, e non potrebbe essere altrimenti. In assoluto, e in chiave All Star Game. “Quanto sarebbe importante per LaVine e per i Bulls che Zach venisse chiamato all’All Star Game? É rimasto fuori (Bradley) Beal la scorsa stagione nonostante il rendimento straordinario. Non dipende solo dai numeri individuali. Vengono chiamati giocatori con numeri inferiori se le loro squadre vincono. Zach è intelligente abbastanza per capirlo. Per lui e per noi conta vincere, se lo faremo arriveranno anche le gratificazioni personali. Da quando lo alleno non ha mai giocato per ammassare numeri, ma appunto per vincere. Comunque ha giocato così bene sinora che non ho visto nessuno nel suo ruolo, contro di noi, giocare al suo livello. Poi però mi è difficile compararlo con gli altri perché non vedo ogni partita delle squadre avversarie”.
I numeri di Lauri
Il finlandese contro Portland ha segnato 31 punti. Tirando 12/18. Segnando 6 triple. Ha soli 23 anni. Però i paragoni con Nowitzki che venivano fatti al suo ingresso nella lega mi parevano insensati allora e mi paiono insensati adesso. Fatica a costruirsi il tiro da solo, la verità è che faticava a farlo persino ad Arizona University, ricordo di averlo seguito da cronista al Torneo NCAA, sconfitto da West Virginia a San Jose. E dunque se da un lato ridurlo al ruolo di tiratore sarebbe forse uno spreco, è limitativo, dall’altro bisogna ingegnarsi per immaginarlo qualcosa di più di un secondo/terzo violino. A oggi, sia chiaro.
Coach Donovan sembra avere le idee chiare in proposito. E la voglia di provarlo da 5, come ha fatto contro i Blazers, in contumacia Carter, al solito fermo ai box. “Lauri sta facendo bene da centro. É un modo di giocare diverso rispetto a quello cui è abituato, da 4. Sa giocare fisico e mettere la palla per terra. Può agire da facilitatore. Cerchiamo di farlo diventare più aggressivo in assoluto, deve finire al ferro. Al college faceva la differenza col fisico, in NBA deve farla in altri modi, con di fronte giocatori persino più atletici di lui. Può avere impatto sulla partita in altri modi, oltre che segnando. E’ un processo, vale anche per Carter. Devono imparare cosa aspettarsi da loro stessi, anzitutto“.
L’impressione è che che siano più, per qualità e testa, preziosi complementi piuttosto che primi attori naturali. E non c’è niente di male. Basta non equivocare. Lo stop per Covid non ha aiutato Markkanen, ma appunto, coi Blazers è parso al 100%. Recuperato, quantomeno.
Lauri chiosa: “Sconfitta dura, pensi alle piccole cose che potevamo fare meglio per non trovarci a dipendere da un tiro di Lillard. Ci sapremo ricompattare. Mai visto un tiro così…I pasticci di LaVine sotto pressione, con la gara in bilico? Resta un leader per questa squadra”. E il problema, alla fine, potrebbe essere proprio quello. Un realizzatore di livello? Sì. Un capobranco? Mah. E ai giovani Bulls ne avrebbero dannatamente bisogno.