Perché diavolo affittare una stanza vicino all’università invece di affittarla vicino al campetto? Mistero. Mi copro per bene, infilo il berretto, ed esco pallone sotto braccio e zaino in spalla, la mia compagnia abituale nei momenti più difficili. Se volete un consiglio, trovatevi un amico che sia come una palla da basket: ascolta, non giudica, e spesso sa farti tirare fuori le risposte che hai già dentro. Quella sera mi aveva chiesto lui di uscire, proposta accolta di buon grado visto che nessuno dei due riusciva a prendere sonno.
Ad essere onesto, per quanto io nel corso degli anni abbia condiviso il giaciglio con più Spalding, Molten, Wilson e affini che donne e orsacchiotti messi insieme, fatto che ha ripetutamente suscitato inspiegabili quanto veementi proteste da parte delle frange famigliari più igieniste, non posso affermare con certezza che i palloni dormano o chiedano di uscire; quello che so è che a volte – troppe, nel mio caso – ne vedi uno e pensi cose come “studierò domani pomeriggio per la verifica di domattina, adesso esco a giocare”. Ma rientriamo nel seminato: erano le due passate di una notte di gennaio a Trieste, e avevo appena deciso che per un amico si può anche prendere un po’ di freddo. Un bel po’, a dire il vero. Almeno non ha protestato alla mia decisione di fare tappa-kebab per rifocillarmi.
Ci rimettiamo in cammino verso un campetto che fa da confine fra città e bosco senza dirci una parola, come sempre, per non far scappare i pensieri tutti in una volta prima di poterli affrontare con ordine davanti a un canestro. Un’andatura circospetta è un buon pretesto per prendere tempo, perché io a questo cosa gli dico? Non riesco a far uscire dal labirinto delle emozioni la ragione per cui il ricordo di quel bad motherf—er che fra un canestro e l’altro masticava la maglia dei Lakers mi faccia stare così. Senza macchine per strada è il rumore del ruscello ad annunciare che ci siamo quasi, mentre i palazzi si infilano man mano sotto il pendio lasciandomi a constatare che non c’è nemmeno uno spicchio di luna in cielo, e che quindi una volta arrivato farà buio pesto; guardo il compagno di spedizione che stringo fra le mani e mi chiedo come mi sia saltato in mente di dargli retta.
Mentre metto in dubbio la mia sanità mentale sono già di fronte alla scritta ZASEBNA LASTNINA, che segnala il parcheggio privato da cui si accede al campetto. Si sente solo l’acqua scorrere in mezzo a un verde ammantato di nero, perché anche le luci della palestra gestita dalla comunità slovena sono spente a quell’ora.
— Cosimo Sarti (@cosimo_sarti) January 26, 2021
Sono bastati pochi tiri perché quel pallone che mi aveva trascinato fuori casa nel bel mezzo della notte facesse chiarezza nei miei pensieri. Come al solito, lui sapeva già tutto, probabilmente anche che dopo un anno saremmo stati ancora incapaci di riempire il vuoto che la pallacanestro ha dentro da quella notte. Kobe era innamorato di questo gioco e come tutti gli innamorati ha fatto l’impossibile per farsi ricambiare: incrollabilmente ostinato, spesso istrionico e talvolta irrazionale come solo un innamorato può essere.
Ripensando alla sua storia quella è la costante, che si tratti di esasperare Phil Jackson mettendosi in proprio per l’ennesima volta, o di tirare i liberi con un tendine d’Achille evidentemente divelto per non precludersi la possibilità di rientrare in campo. E alla fine Kobe ce l’aveva fatta, vivendo la sua luna di miele fra gli allenamenti di Gigi, l’esperienza da tramandare alle stelle di oggi, le storie di sport per bambini, le analisi approfondite su ESPN e chissà quali altri progetti nascosti dietro al sorriso contagioso che aveva lasciato il posto al ghigno feroce del Black Mamba. Quella sera ho capito che Kobe non è semplicemente un atleta che ha fatto sognare una generazione, ma che con lui se n’è andato anche un patrimonio di pallacanestro, l’enciclopedia completa dei primi 60 anni di NBA, che avrebbe voluto condividere nella fase della sua vita destinata ad essere il “vissero per sempre felici e contenti” della sua storia d’amore con il basket.
Con il bosco alle spalle, il pallone di nuovo sottobraccio e le risposte di cui avevo bisogno che mi aprivano un altro ventaglio di pensieri, mi sono incamminato di nuovo verso la stanza che avevo affittato vicino all’università e lontano dal campetto senza un motivo apparente. Mentre i miei passi seguivano la luce dei lampioni lungo il viale che mi avrebbe portato sotto casa, nel mio animo si è acceso un lume di conforto: la morte di Kobe è l’equivalente cestistico dell’incendio della Biblioteca d’Alessandria, ma quell’amore incondizionato per il gioco sono sicuro che lo rivedrò, se non tutto nella stessa persona, un frammento in ognuno di noi.
Oggi, un anno dopo quella tanto discutibile quanto rivelatrice sortita notturna, e nello spirito di celebrazione della vita auspicato dalla vedova Bryant, vi voglio raccontare in modo leggero le volte in cui mi sono imbattuto in una scaglia del Mamba.
Ambidestrismo e igiene orale: un’accoppiata vincente
La soddisfazione personale più grande in ambito cestistico di questi cupi mesi pandemici l’ho avuta qualche tempo fa nel luogo più impensabile: in bagno. No, non ho disegnato una linea da tre punti intorno al gabinetto in preda all’astinenza da campetto; sì, ammetto che l’idea ha fatto capolino nella mia testa; sì, avrei ovviamente urlato “Kobe!” ogni volta. Prima che vi facciate venire in mente altre domande sconvenienti: ero al lavandino, e mi stavo lavando i denti con la mano sinistra senza sforzo alcuno e senza essere mancino. Dopo settimane di allenamento – per così dire – avevo finalmente brandito lo spazzolino con la mano debole in modo del tutto automatico. Cosa c’entra con il Black Mamba? Chiedete a Quincy Pondexter!
Come segnare con la mano debole:
— Cosimo Sarti (@cosimo_sarti) January 26, 2021
Stringi i denti come Kobe, ma soprattutto lavali come Kobe. pic.twitter.com/lVHqIiX4q7
Quel giorno Kobe si era appena procurato il terzo infortunio da stagione finita consecutivo, la rottura della cuffia del rotatore nella spalla destra. Il braccio “forte” gli penzolava di fianco completamente fuori uso, ma né i coach né lo storico fisioterapista Gary Vitti erano riusciti a convincerlo ad abbandonare il campo, nonostante fosse una partita da buttare in una stagione da buttare, la numero diciannove nella sua carriera. Giusto il tempo di decifrare l’infortunio e adattarsi alle limitazioni fisiche, e il Mamba torna nel suo ufficio in post medio, facendo quello che avete visto sopra. La completezza tecnica è sempre stata la caratteristica di Kobe che più mi ha colpito, perché non esiste un fondamentale della pallacanestro che non abbia fatto suo al livello più alto possibile. E adesso starete pensando: sì, ma questo cosa c’entra con i denti?
Kobe si era reso conto in tenera età che non essere ambidestro lo penalizzava in campo e, guardando il mondo attraverso gli amati spicchi arancioni, pensò che lavarsi i denti con la mano sinistra fosse un buon modo per avviarsi all’ambidestrismo. Quanto a me, ho notato che il dentista che ha lo studio due numeri civici dopo casa mia continua a fregarsi le mani quando mi incrocia mentre va a lavorare. Chi avrà la meglio, il suo trapano o la mia Mamba Mentality?
“Disperdi nell’ambiente tutto quello che non provi a tirare nel cestino”
Pull it back, Kobe!
Pull it back, Kobe!I don’t even gotta look, I take the shot and hear it swish
Kobe – Dame D.O.L.L.A. feat. Snoop Dogg, Derrick Milano
I don’t even touch the rim, when I pull up it’s just swish
Backboard, what? Only thing I know is swish
Pull it back, Kobe!
“Perché questa canzone dice ‘Kobe’?”, dal silenzio di un tragitto in macchina dopo una cena a base di hamburger, patatine e una quantità di salse tale da far pensare che fossero i tuberi appena riemersi dall’olio bollente il condimento della maionese e non viceversa, emerge la voce del mio nipotino, novello cestista di anni sette e – sigh! – tifoso Lakers. Alla domanda segue una breve spiegazione su Damian Lillard e il suo alter ego musicale Dame D.O.L.L.A., sul legame stretto fra il Mamba e questa generazione di giocatori e su cosa dica il testo della canzone.
[Disclaimer: se siete i suoi genitori ci tengo a precisare che la descrizione della quantità di salse ingerita dal pargolo è romanzata, così come lo sarà quella del numero di palline di gelato che gli hanno permesso di mangiare gli zii. Non esitate ad affidarci di nuovo la vostra creatura.]
“E perché quando tira dice ‘Kobe’?”
“Perché è una tradizione, quando provi un tiro difficile, anche nel cestino dei rifiuti o nel cesto dei vestiti sporchi, devi dire ‘Kobe’”
“E perché è una tradizione?”
“Perché tutti fin da piccoli sognano di fare canestro come Kobe e quindi quando giocano fanno finta di essere Kobe”
“E perché tutti fin da piccoli sognano di fare canestro come Kobe?”
“Perché lui faceva canestri difficilissimi e spettacolari, e provava sempre a segnare il tiro della vittoria senza paura”
“E perché…” – ci siamo capiti.
“Perché gli piaceva tantissimo il basket e si allenava più degli altri a fare canestro, così quando c’era una partita lui ne faceva più degli altri e vinceva”, provo a spiegarmi ancora una volta. Non so se sia per la risposta esauriente o per la gelateria in avvicinamento, ma la conversazione finisce così.
Finita di mangiare una porzione di gelato evidentemente superiore alla quantità che il piccolo cestista è in grado di gestire, nonostante le ripetute rassicurazioni sul fatto che “anche la mamma e il papà mi prendono sempre la coppetta con tre gusti”, viene il momento di buttare nel cestino il considerevole numero di fazzoletti caduti in battaglia. Si alza, si incammina verso il cestino, si ferma poco prima e “Kobe!”, “Kobe!”, “Kobe!”… anche se per ora evito di dire dove siano atterrati i fazzoletti. Dopotutto, anche il Black Mamba ha inaugurato la sua carriera ai playoffs con qualche airball, no?
Eroe Nazionale in tutti i modi possibili
Torniamo ai giorni immediatamente successivi alla tragedia, in cui appassionati di ogni età e livello si sono riuniti nei campetti di tutta Italia per fare due tiri in memoria di Kobe. Come potete vedere dalla foto, il meteo non è che fosse particolarmente indicato per andare al campetto, e per di più quel giorno giocava l’Alma Trieste in casa, appuntamento imperdibile per i tifosi giuliani. Non sapendo bene cosa aspettarmi, decido comunque di andare fino allo storico campo nel piccolo parco di Piazza Carlo Alberto, forte delle rassicurazioni di qualche ragazzo che ho conosciuto giocando in giro per la città.
Kobe Day, Trieste, 2020.
— Cosimo Sarti (@cosimo_sarti) January 25, 2021
Hint: sono in buona compagnia pic.twitter.com/kAkhR4bwaM
Sbucando dalla scalinata che porta alla piazza, constato subito che l’affluenza è buona, variegata, e agghindata in memoria del Mamba, ma il campo è in condizioni pessime per via di pioggia e vento che lo avevano ricoperto di acqua mista a fango. Si sta un po’ insieme, si chiacchiera, qualcuno tira qualche libero, ma di giocare non se ne parla. A un certo punto, nella perenne foschia delle mie diottrie mancanti vedo che un ragazzo stava tornando con aria trionfale e, soprattutto, con uno spazzolone per pulire il campo.
Fra l’acclamazione generale, il nostro eroe si mette ad asciugare l’area. “Bene” penso, “è ora di iniziare a prepararmi per giocare che altrimenti iniziano senza di me”. Poi, tendo l’orecchio verso l’acclamazione generale con più attenzione: “Grande Pec!”, “Bravo Pec!”, “Grazie Pec!”. Sì, Andrea Pecile, triestino ex Nazionale Italiana che al momento allena le giovanili dell’Alma, è andato a prendere lo spazzolone e si è messo a spazzare per farci giocare. Non sarà una classica manifestazione di Mamba Mentality, ma è da questi gesti che trapela l’amore per il basket e il piacere di condividerlo con gli altri.
In memoria del Mamba e della sua Mambacita. Mancate al basket e mancate a tutti noi.