L’uomo giusto al posto giusto. Al momento giusto. Il successo in NBA è un concetto relativo. Dipende soprattutto dal contesto. Lo sa bene Jerami Grant, nuova ala dei Detroit Pistons.
26 anni, dopo 6 stagioni da “corredo”, improvvisamente divenuto nome d’alto profilo, “cool”. Cos’è cambiato? Lui certo, ma soprattutto la sua squadra. E quindi i suoi numeri. A Motown brilla per mancanza d’alternative, nella desolazione generale. E stavolta i palazzi sventrati del centro città, raccapriccianti pro memoria delle sperequazioni economiche statunitensi, non c’entrano nulla. Parliamo di basket. Parliamo della squadra col peggior record NBA, quando scrivo: 3-11.
Grant ha raddoppiato le proprie cifre. É passato dai 12 punti segnati di media a Denver, per i Nuggets, una contender, finalista di Conference 2020, ai quasi 25 realizzati per chi per ora sta facendo felici più che altro gli avversari di serata. Insomma, fu vera gloria? Il Manzoni chiedeva ai posteri l’ardua sentenza. Noi l’aspettiamo dal resto della stagione, soprattutto della sua carriera. Ma intanto proviamo a capirci qualcosa di più. Perché Grant di questi tempi è nome che fa discutere…
Famiglia di campioni
Parliamo di un talento naturale cristallino. Atleta stellare. Il DNA è quello giusto. Il nipote di Horace Grant, ricorderete lui e i suoi occhialoni sgomitare sotto canestro al fianco di Jordan in maglia Bulls, ma anche contro in maglia Magic. Il padre è Harvey Grant, ottima ala protagonista nell’NBA degli Anni ’90, quasi 8.000 punti segnati in carriera.
Anche il fratello maggiore è “materiale” NBA: Jerian è stato stella a Notre Dame, all’università, per poi trovare vetrina da giocatore di ruolo, guardia di riserva, con Knicks, Bulls, Magic e Wizards. Insomma, i geni erano una garanzia. Bastava vederlo saltare a Syracuse, al college, per capire che un atletismo così non ha molte repliche, neppure nella lega dei giganti. Un predestinato. Però era diamante grezzo da levigare. E stagione dopo stagione….
La differenza tra sogno e incubo
Beh, è una differenza spesso più sottile di quanto si pensi d’istinto. Ciò che è un sogno per qualcuno può diventare un incubo per qualcun altro. E viceversa. Questione di personalità. E ambizioni. Di affinità elettive. Il “nostro” Grant, il quarto campione della famiglia, aveva le idee chiare, quando ha lasciato Denver per Detroit, il Colorado per il Michigan, le vittorie per le sconfitte.
“La mia crescita come giocatore è estremamente importante per me“. In una lega in cui o sei stella o sei giocatore di ruolo, lui ha scelto la Busta A. A Denver c’erano Jokić, Murray e Porter come talenti offensivi, tutti migliori di lui nell’infilare la palla dentro un canestro, far muovere una retina. A Detroit non c’è nessuno al top della carriera, con Derrick Rose e Blake Griffin che vivono il crepuscolo in modo (ben) diverso, ma comunque senza concorrenza effettiva come astro nascente.
E no, non pensate sia stata anche e soprattutto una questione di soldi. Di vile, prezioso denaro. Di dollari. 60 milioni in 3 anni sono tanta, tanta roba. MA: glieli avrebbe dati pure Denver. Meno volentieri, forse, rispetto ai Pistons, ma glieli avrebbe dati comunque. No, semplicemente lui ha deciso che perdere ogni sera o quasi, l’incubi di tanti, per lui si sarebbe potuto trasformare in un sogno. Prima opzione offensiva in NBA, pagato da sultano. What else? Come chiosa una nota pubblicità…
Detroit tough
Motown non è per tutti, comunque. Bisogna volerci e saperci stare. Grant ha scelto una città tra le più proletarie d’America. Un Coach afroamericano, Casey. Soprattutto un General Manager afroamericano, Troy Weaver, ex assistente a Syracuse University. Il rapporto tra i due è stato determinante. Grant si è sentito desiderato, corteggiato. “Io credo in lui, lui crede in me. Ha contato parecchio“. In molti tra i tifosi dei Pistons hanno strabuzzato gli occhi, di fronte a quel contratto. Tanti soldi, per un giocatore vicino ai 27 anni, che in carriera non era mai andato oltre i 13.6 punti a partita.
Però il matrimonio (soprattutto per lui) sta funzionando. Segna da fuori, sta tirando col 39% da 3 punti, segna al ferro, e campeggia in lunetta (5.6 liberi per partita, con l’86% abbondante). Segna in isolamento, e segna in maniera discretamente efficiente, tirando quasi col 47% dal campo, con usage da stella. Da prima opzione offensiva, quella che comanda i raddoppi o gli adeguamenti degli avversari. Poi la difesa resta il marchio di fabbrica, con quell’atletismo è stata nel tempo soprattutto questione di atteggiamento. Di aver voglia di sbattersi. E capire come utilizzare quel corpo benedetto dagli dei della pallacanestro, per farlo.
I Pistons in lui e Hayes, la point guard francese scelta col numero 7 al Draft 2020, hanno individuato le fondamenta di un futuro migliore. Il ragazzino europeo è partito titolare, ma ha faticato un po’ (troppo) prima d’infortunarsi, finire fuori gioco. Ma aspettate a bocciarlo: è talento vero. Grant ha invece preso l’occasione al volo. I Pistons pensano al domani, e Grant è già più che una speranza. É una consolazione. L’idea da sabato del villaggio che domani sarà un giorno migliore. Mica poco, se vivi a Detroit…
I rimpianti di Denver
I Nuggets hanno perso lui e Torrey Craig, la prima linea difensiva. Il record lo testimonia dispettoso, nonostante le triple doppie di un Jokić versione Jolly capace di uscire ormai quasi ad ogni “mano”, per la fortuna di Coach Malone. Ma la crescita come intensità di Grant, e quei salti che i comuni mortali neanche possono immaginare, a Denver mancano.
Ma in Colorado 60 milioni per 3 anni per coprire le spalle a Porter sarebbero stati considerati troppi dalle malelingue. I giocatori di ruolo anche di lusso, diventano un lusso troppo caro se non ti chiami Dray Green. E persino se rispondi a quel nome e cognome, quando gli Splash Brothers si prendono un turno, o un anno, di stop.
Insomma, se non sei un fenomeno in NBA è sempre questione di trovarsi al posto giusto al momento giusto, di rispondere alle aspettative che domanda anzitutto il tuo contratto, in un regime di tetto salariale, e alle ambizioni di squadra e franchigia. A Detroit a Grant nessuno chiede la luna. Non avrebbe senso. E lui la tocca con un dito, stella splendente e inattesa, per certi versi, per la prima volta in carriera.
Giocatore più migliorato?
Se la gioca. Non ha il talento puro di Brandon Ingram, specie in attacco, specie da passatore. Ma punta ad esserne il successore come Most Improved Player, il giocatore più migliorato dell’anno.
La sorte è capricciosa. E per aggiudicarsi il riconoscimento Grant rischia di dover battere la concorrenza di un ex Pistons, di una stella (forse) nascente come Christian Wood, lungo nel quale Detroit non ha creduto. Ce l’aveva in casa, l’ha visto sbocciare. Ma non s’è fidata. L’ha lasciato andare. Lui sta sfolgorando a Houston per un’altra squadra deludente e in ricostruzione. Per lui come per Grant c’è quindi da andarci piano con i superlativi. É un gioco di squadra. La pressione di giocare per grandi obiettivi non è replicabile in un contesto perdente. Ed è quella capacità di rispondere alle aspettative che separa i talenti dai super eroi.
Ma intanto le porte girevoli NBA hanno fatto felici Grant e Wood. Perché, appunto, si tratta per molti, quasi per tutti, di trovarsi al posto giusto e al momento giusto. One shot, one opportunity, canta Eminem, che di Detroit se ne intende. Grant è in consolle, alla Little Caesars Arena…