Dal 1986, primo anno in cui si è celebrata la ricorrenza in onore di Dr. Martin Luther King, la NBA si è impegnata per rendere questa festività una vetrina per il proprio show e per dare voce ai propri giocatori, in maggioranza afroamericani. Così, come la NFL storicamente ha nel giorno del Ringraziamento la giornata da 8-ore di divano, per gli appassionati di basket la data da cerchiare in rosso sul calendario è il terzo lunedì di gennaio. Ovviamente, con una grande quantità di partite in programma aumenta anche la probabilità di assistere ad eventi memorabili o quantomeno insoliti. Così, fra tutto questo bendidio, ho scelto di tracciare una linea che attraversa passato e presente, il serio e il faceto, tenendo come punti fermi Martin Luther King e i sacri spogliatoi NBA.
La votazione segreta
Martin Luther King, pastore protestante in prima linea nella battaglia per i diritti degli afroamericani e carismatico predicatore che ha pronunciato il celebre discorso “I have a dream”, fu assassinato nel lontano 1968, un giorno prima dell’inizio delle Conference Finals fra i San Francisco Warriors campioni in carica e i Boston Celtics che campioni lo erano stati per i precedenti quattordici secoli o giù di lì (otto anni, ndr). Fu un colpo durissimo per tutta la comunità dei Neri d’America, che in quegli anni era in particolare fermento e stava iniziando a scardinare il sistema che li teneva subordinati in tanti aspetti.
King morì il 4 aprile, ed il 5 aprile molte città erano in rivolta. Bill Russell, all’epoca allenatore-giocatore di Boston, decise di prendere in mano il telefono per contattare il suo eterno rivale, l’erculeo Wilt Chamberlain. Wilt, pacifico gigante di indole conservatrice, era solito interessarsi più alle donne che alla politica, ma quel giorno si allineò con Russell sull’idea di non giocare. La lega non poteva permettersi di rimandare la partita, così i giocatori delle due squadre arrivarono negli spogliatoi senza un’idea precisa sul da farsi. I giganti Russell e Chamberlain, con ogni probabilità i due atleti più dominanti nella storia del basket, misero ai voti la questione insieme ai compagni; fuori dal tunnel il pubblico li attendeva in un’atmosfera in cui anche la rabbia del mondo esterno arrivava ovattata, lasciando l’aria completamente svuotata dalle emozioni che di norma abitano un ambiente in cui si sta per giocare a basket.
Russell e Chamberlain – sembra proprio impossibile menzionarli separatamente- votarono per non scendere in campo, così come molti dei loro compagni afroamericani; due furono i giocatori con opinioni diverse che contribuirono a impedire l’unanimità: Bailey Howell, ala bianca dei Celtics, e Chet Walker, ala di colore degli Warriors. In un’epoca in cui gli atleti non avevano il potere che hanno oggi, Howell si chiese che senso avesse discutere internamente la cosa, visto che Martin Luther King non ricopriva nessuna carica ufficiale. Alcuni compagni non presero bene la sua linea di pensiero, ma non essendo giunti a una decisione univoca, alla fine i Celtics uscirono dal tunnel. Chet Walker, da un punto di vista diametralmente opposto, giunse alla stessa conclusione: si rifiutò di votare perché gli pareva un inutile esercizio di facciata, dato che la lega non si era schierata e aveva quindi mancato di rispetto ai propri giocatori. Così, anche nel giorno della morte di King, si finì con il giocare a basket.
Il passaggio segreto
Quasi quarant’anni dopo una delle giornate più sofferte nella storia della NBA, la lega ha metaforicamente sparato i fuochi d’artificio di tutt’altro genere nel giorno dedicato alla memoria di Martin Luther King. Il botto più fragoroso è la sfida fra i Los Angeles Clippers e gli Houston Rockets, a poco tempo dallo scambio che ha portato Chris Paul in Texas e Lou Williams, Pat Beverley e Montrezl Harrell in California, che si tiene in uno Staples Center caldissimo e ostile nei confronti di un ex che, dal canto suo, non è uno che ci mette troppo impegno per non rendersi antipatico. Nonostante un abbozzo di applauso dopo il classico tributo video al primo timeout, un avvelenatissimo Blake Griffin in versione capopopolo ritorna presto ad aizzare la folla contro il playmaker dei Rockets, facendo di tutto per rendere evidente al pubblico che in campo si sta risolvendo una questione personale. I Rockets fanno quadrato intorno al loro mefistofelico compagno, dando vita a un finale incandescente nonostante la partita sia già decisa a favore dei Clippers. Blake Griffin, la calzamaglia fatta a brandelli da una trattenuta di Ariza, fa di tutto per farsi cacciare e rientra negli spogliatoi lanciando la maglia come un trofeo ai tifosi in delirio, mentre Jerry West scende a bordocampo e insieme agli infortunati Rivers e Beverley si aggiunge al tripudio di trash talking. Ma è quando, finalmente, la sirena suona e i giocatori vengono indirizzati a fatica negli spogliatoi che inizia lo spettacolo.
Su Twitter cominciano a circolare le prime voci: Chris Paul, alla guida di un manipolo di Rockets composto da James Harden, Trevor Ariza e Gerald Green, si sarebbe intrufolato in un passaggio di servizio nascosto per andare a cercare Blake Griffin, mentre Clint Capela distraeva la sorveglianza bussando alla porta principale. Un piano perfetto. Capela, però, non riesce a occupare le guardie abbastanza a lungo, facendosi sbattere la porta in faccia immediatamente ed esponendo così l’indomita truppa di Rockets ad una brutta sorpresa all’uscita del passaggio segreto. Chris Paul e compagni, appena affacciatisi in territorio nemico vengono intercettati, e così la grande imboscata si riduce al doppio “se non mi tieni lo meno, ma tu tienimi eh”, un classico senza tempo. Per evitare ulteriori spedizioni del Generale Paul, viene addirittura chiamata la polizia di Los Angeles, che scorterà le squadre ai rispettivi pullman, innescando le irrefrenabili risate di O’Neal e Barkley nello studio di TNT. Un pomeriggio memorabile, distillato di tutto quello che rende la NBA una macchina da intrattenimento perfetta: spettacolo in campo e propensione al “drama” fuori.
Purtroppo, per dovere di cronaca, devo confessare che il giorno dopo è venuta a galla una verità molto più banale. Il passaggio segreto non era segreto, ma una porta di servizio che collega i due spogliatoi e viene spesso usata dai giornalisti. Chris Paul non era un generale in terra nemica, ma era andato a ripescare insieme a Harden i nervosi Ariza e Green, in veste di paciere. Il diversivo Clint Capela non era un diversivo e non era nemmeno Clint Capela, ma semmai Tarik Black, identificato grazie alle telecamere di sorveglianza a vagare nei pressi dello spogliatoio Clippers. Ci avranno anche rovinato una bella storia con i fatti, ma difficilmente ci dimenticheremo di quel Martin Luther King Day.
Come in questo articolo, il MLK Day racchiude in sé il divertimento che ci porta l’NBA, ma anche l’opportunità di ricordare Martin Luther King e dare ascolto alla voce dei giocatori. Buon MLK Day di basket a tutti!
Bell’articolo, ci tengo solo a precisare che Philadelphia aveva già i 76ers quell’anno e l’anno prima furono proprio i Sixers i campioni, i Philadelphia Warriors si trasferirono a San Francisco nel 1962.