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Magic, Anthony va di fretta
Un po’ più che figlio d’arte

Davide Torelli by Davide Torelli
14 Gennaio, 2021
Reading Time: 10 mins read
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Cole Anthony

Copertina a cura di Marco D'Amato / Photo Credits: Fernando Medina (Getty Images)

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Quello del 2020 non appare un draft indimenticabile per la NBA, lo hanno detto in diversi ed i fatti (tradotti in chiamate da Adam Silver) ne hanno sottolineato la particolarità. Per certi versi in linea con uno degli anni più neri che la storia recente ricordi, per l’umanità tutta.

Ma ciò non significa che nel gruppo dei nuovi arrivi nella lega non siano presenti talenti destinati a stupire, dotati di istinti e abilità naturalmente unici, come quelli di LaMelo Ball o James Wiseman.

In questo caso le responsabilità dell’incertezza con cui i prospetti sono stati scelti, non sono soltanto da imputarsi a quel “one and done” che ha reso il basket universitario un porto di mare per i talenti più fulgidi, dimenticando ogni miraggio di continuità quadriennale.

La pandemia ci ha voluto mettere il suo disastroso zampino, come in ogni restante ambito della vita da noi conosciuta, fermando la stagione prima della March Madness e lasciando sospesi un sacco di interrogativi sugli eleggibili conclamati.

Tra questi, Cole Anthony si presentava a UNC con un hype più che discreto, ma giocando al di sotto delle aspettative più rosee (l’asticella era elevata), si è inevitabilmente trovato più in basso delle chiamate previste. Potrebbe trattarsi dell’esemplificazione di quella teoria che prevede un numero di steal superiore a quello dei bust, presumibilmente sovrastimati in sede di valutazione. Anche questo è stato detto più volte, da numerosi opinionisti.

Oppure, quel talento ereditato in famiglia, potrebbe non esser supportato da un’attitudine funzionale ai pro, lasciando a questo autentico figlio d’arte una carriera da second unit, che poi ne farebbe erede perfetto se guardiamo al suo mentore/papà.

Tuttavia, il destino ha deciso di metterci uno zampino, con gli Orlando Magic partiti fortissimo ma costretti a fare a meno di Markelle Fultz, attesissimo e protagonista di un avvio convincente. Per lui, lesione al legamento crociato del ginocchio sinistro nella sfida contro i Cleveland Cavaliers, e stagione finita.

Per Anthony, invece, il palcoscenico diviene subito impegnativo, con un metaforico occhio di bue ben puntato addosso e poca esperienza da far valere. In buona sostanza, apparentemente lanciato in mare aperto senza saper ben nuotare, ma con la possibilità di crescere velocemente sfruttando occasioni, possessi e minutaggio.

Saprà farsi valere? Proviamo a parlarne insieme, partendo da prima dell’inizio.

 

La carriera di papà Greg

Si, d’accordo, lo status di “figlio d’arte” si acquisisce a prescindere dal successo della carriera del padre, e per quanto quella di Greg Anthony non abbia mantenuto le promesse iniziali, il nativo di Las Vegas in NBA ha resistito la bellezza di undici stagioni. Tra l’altro ricoprendo un ruolo da specialista di second unit che le ha rese più o meno una speculare all’altra, in materia di risultati statistici.

I New York Knicks avevano concluso la stagione 1990/91 con l’ottavo record di Conference – schiantandosi al primo turno contro la furia di un MJ che avrebbe conquistato la vetta della lega di lì a poco – guadagnandosi l’appellativo di squadra più che promettente per gli anni a venire. Non sarebbe potuto essere altrimenti, considerando che Pat Ewing stava per raggiungere il prime di carriera, e che dalle retrovie si iniziavano ad intravedere autentici beniamini del Garden come il ninja John Starks. Per la stagione seguente, in panchina si sarebbe seduto il signor Pat Riley, di ritorno dopo i fasti dello showtime losangelino, e con un’idea piuttosto maschia a livello di struttura di gioco. Alla Bad Boys, per intenderci.

Contemporaneamente, il Draft del 1991 non poteva che risentire del clamoroso successo dei Runnin’ Rebels di UNLV, campioni nazionali per la stagione collegiale 1989/90, e sconfitti una volta soltanto nel campionato a seguire (per l’appunto alla seconda finale consecutiva, sempre contro Duke, sculacciata l’anno precedente).


Larry Johnson è la primissima scelta assoluta per Charlotte. Poco sotto, Plastic Man Stacey Augmon finisce ad Atlanta con la nona, dopo aver visto passare Kenny Anderson, Dikembe Mutombo direttamente dallo Zaire e il presunto “nuovo Magic Johnson” Steve Smith.

I Knickerbockers si prendono Anthony con la dodicesima pick, una appena sotto Terrell Brandon, altra point guard che riuscirà anche a “toccare” la partita delle stelle in futuro.

Ora, per una tendenza poco orientata alla manovra oculata, Anthony non sarà mai il playmaker ideale per una squadra tosta, che riuscirà ad arrivare ad un passo dalle Finals mettendo in difficoltà Chicago, prima di approdarci definitivamente nel 1994 (non superando però Houston). Eppure il temperamento eufemisticamente “esuberante” con cui Greg si presenta in campo, lo trasforma in un lottatore di contorno importante nel progetto di Riley, prima di esser lasciato andare a Vancouver in occasione dell’Expansion Draft del 1995.

L’ex Runnin’ Rebel non brillerà di intelligenza cestistica, ma è un duro, tanto da concludere sostanzialmente la sua carriera in quel di Portland – ancora a fianco del collega Augmon, guidando la second unit – nei famigerati Jail Blazers.

Nel frattempo si accompagna con tale Crystal McCrary, una splendida laureata in legge che sarà anche acclamata autrice televisiva, ed in Oregon dà alla luce il suo effettivo primogenito Cole. È il 15 maggio del 2000.

I destini dei due si separeranno dopo non molto, ed una questione abbastanza spinosa circoscritta all’universo della prostituzione farà perdere a Greg il ruolo acquisito di analista per la CBS. Ma queste sono altre faccende, che in buona sostanza esulano dal nostro interesse.

 

Predestinato e privilegiato

Avete presente quella storia – tanto ridondante quanto triste, nella sostanza – per cui gran parte delle carriere NBA rappresentano il riscatto per chi, provenendo da famiglie disastrate e sfuggendo da quartieri difficili, raggiunge uno status inimmaginabile alla nascita?
Ecco, come accaduto per altri “figli di padri di successo” tipo Grant Hill, Steph Curry e la Ball connection, Cole Anhtony non avrebbe ragioni per concentrare rabbie ancestrali e vie d’uscita obbligate nella pallacanestro.

Anzi, se hai avuto un genitore che in NBA si è comunque fatto un nome (ed una madre riconosciuta tra le business woman più influenti della Grande Mela), tutto sommato potresti anche godere di corsie preferenziali destinate ad una vita agiata, senza barcamenarti in paragoni scomodi o disperdere troppe energie.

Eppure per lui il gioco diviene ossessione fin dalla più tenera età. Addirittura si racconta che lanciasse il pallone per aria ancor prima di imparare a camminare, pensate un po’.

Malgrado sia anagraficamente nato a Portland, il giovane Anthony cresce da agiato borghese nel Queens newyorkese, e sviluppando una fiducia nei propri mezzi proporzionale al lavoro attuato in palestra, fa parlare di sé ben presto, come futura scelta da lottery. Le porte della University of North Carolina si aprono come ad accogliere una perla rara, presentandosi perfezionista dei dettagli, dotato di un ottimo bagaglio offensivo da unirsi a capacità di gestione della squadra di primo livello (ed aiutato ovviamente dal padre, in materia di reclutamento).

Se volete vederla in modo polemico, questo non ha mai saltato una cena per miseria, non ha mai visto un “collega” a cui hanno sparato a freddo nel quartiere, non si è mai visto un’arma puntata alla tempia di qualcuno: ha avuto tempo e possibilità di concentrarsi il massimo per diventare un giocatore NBA.

È vero che la narrazione ridondante ci racconta che il desiderio di vendetta sta alla base della fame di successo, ma pure la serenità nel perseguire un obiettivo nitido non dovrebbe guastare. Eppure, a prescindere dai meriti sportivi, per capacità intellettive pare al College sarebbe arrivato anche senza la palla a spicchi tra le mani, restando comunque sempre umile negli anni di formazione, legatissimo ai fratelli e all’Upper West Side.

Solo in occasione dell’ultimo anno di High School si trasferisce alla Oak Hill Academy, con l’intento di perfezionare il suo talento in vista dell’approdo a Chapel Hill che – in linea con quella regola “one and done” che oramai va per la maggiore – avrebbe rappresentato il passaggio naturale prima del professionismo predestinato.

E non si può dire che le cose a UNC vadano male, considerando che nella stagione della pandemia chiude con medie pari a 18 punti, 5 rimbalzi e 4 assist in 34 minuti d’impiego. Ma una tendenza alla forzatura personale, con selezioni piuttosto distanti all’efficienza tanto ricercata nella lega, e capacità difensive poco coincidenti con una grinta già proverbiale, lo hanno portato in rapida discesa in sede di chiamata.

Il fatto che il Draft 2020 sia stato segnato dall’incertezza, gli ha garantito appena la quindicesima piazza appannaggio degli Orlando Magic senza le acclamazioni previste (ben quattro point guard sono finite più alte di lui, nella scelta).

 

L’approdo a Orlando

Insomma, un conto è entrare con le pressioni di una top 5 al draft come previsto ai tempi di Oak Hill, un altro è arrivare nel tardo primo giro, oltretutto in una squadra dall’ossatura giovane, in cerca di identità. Una situazione, quest’ultima, che fa tornare in mente il naufragio di RJ Barrett della scorsa stagione, finito nel disfunzionale sistema Knickerbockers e perso nonostante l’hype con cui si presentava ai nastri di partenza.

Malgrado tutto, sull’onda dell’entusiasmo ha permesso ad Anthony di presentarsi brillante in pre-season, inevitabilmente rallentando a livello statistico con l’inizio della stagione vera. Pur in modo più che dignitoso considerando minutaggio e possessi a disposizione partendo alla panchina.

Detto questo, l’aumento repentino di responsabilità che deve gestire oggi può rappresentare un crocevia già importante, partendo dai difetti che il giocatore ha evidenziato in questo avvio, piuttosto che dai pregi naturali.

Anzitutto, a prescindere dalla presenza o meno di Fultz, le percentuali di tiro sono decisamente rivedibili, e principalmente le causa sono sia da ricercarsi nell’impatto con la nuova realtà, che da una selezione di scelte offensive troppo “entusiasta”. Per intenderci, un quantitativo di forzature eccessive, e tiri fuori equilibrio.

Chiaramente uno dei muri contro i quali si scontrano esordienti con le peculiarità di Cole (anche strutturali), sono le differenti spaziature a disposizione nella lega e l’impatto con la fisicità della NBA. Oltretutto – e questo avviene anche a giocatori più esperti – la perdita di fiducia dovuta ad un inizio poco ispirato dietro l’arco, può necessitare di tempo per risolversi. E quello che un po’ tutti dicono (e che quindi prendiamo per buono) è che il tiratore deve continuare a farlo, per recuperare. Ammesso che Anthony sia tale, ma può sicuramente aumentare di efficacia.

Altra problematicità da non sottovalutare, riguarda la gestione a livello di impostazione offensiva. Da una parte, infatti, non sarebbe stata una bestemmia pensarlo in campo accanto a Fultz, piuttosto che in alternanza, muovendosi senza palla e senza pressioni da inizio azione.

Ovviamente un eventuale quintetto che presentasse un backcourt simile avrebbe dovuto fare i conti con la leggerezza e la mancanza di centimetri, ma guadagnando in rapidità e imprevedibilità, pur non apparendo entrami ottimi creatori di vantaggio per i compagni. Di fatto, con la situazione attuale ed Anthony provato da Clifford come point guard titolare (anche perché privo di alternative sostanziali), eventuali miglioramenti in materia di gestione del gioco sono da attendersi con l’acquisizione dell’esperienza necessaria. Passando per qualche disastro inevitabile, tanto che nelle prime uscite si sono visti altri compagni ad impostare spesso e volentieri, con Aaron Gordon tra questi.

Contemporaneamente però, doti atletiche e consequenziali capacità di attacco al ferro, lo rendono comunque un’arma imprevedibile, soprattutto nella creazione personale.

Oltretutto quell’eccesso di voglia che porta a strafare, risulta più che positivo in materia di extra possessi, con una presenza a rimbalzo in attacco (ed in generale) talvolta impressionante. Allo stesso modo, più positivo del previsto l’impatto difensivo: una cosa non scontata, ma che va di pari passo con un’attitudine al lavoro che si verifica anche con l’entusiasmo e la grinta messa sul terreno di gioco.

Molto bene in pressione sulla palla, tendente a passare sopra i blocchi e soprattutto molto concentrato in generale. Meno sbadato del previsto lontano dalla palla e nelle rotazioni.

Insomma, che non si tratti di un candidato conclamato al premio di Rookie dell’anno è palese, tanto quanto lo sono i difetti sui quali dovrà lavorare nei prossimi mesi se vorrà restare alla guida dei Magic. Ma quando un esordiente di 190 centimetri dimostra voglia di applicarsi, di sporcarsi le mani e prestare quindi attenzione anche a lati del gioco meno appariscenti, non si può che ben sperare.

Il peggior scenario possibile, considerando annessi e connessi, è replicare il primo anno che fu di Coby White in quel di Chicago la scorsa stagione. Un giocatore capace di fiammate impressionati, ma ancora troppo selvaggio per inserirsi in una squadra dalla struttura comunque poco chiara.

Altro giocatore, tra l’altro, attorno al quale resisteva un certo interesse rispetto al suo secondo anno, e che sembra essersi inserito al meglio nella struttura tattica del neo coach Billy Donovan, approdato in Illinois dopo una stagione eroica a OKC.

Tags: Cole AnthonyMarkelle FultzOrlando Magic
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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