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Ingram, Brogdon e Wood
Quando la resilienza diventa arte

Davide Piasentini by Davide Piasentini
13 Gennaio, 2021
Reading Time: 9 mins read
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Gli antidivi in NBA

Copertina a cura di Nicolò Bedaglia

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La NBA è una lega che sa come vendersi ed irradiare il proprio appeal al consumatore, anche se il recente trend degli ascolti tv negli Stati Uniti non sembra confermarlo. A livello puramente estetico ed emozionale, i numeri non sono rilevanti, anzi spesso tendono a portare fuori strada e a svilire anche la più piccola ed impercettibile sensazione.

Il fascino dei giocatori, dentro e fuori dal campo, e il loro modo di esprimersi attraverso la pallacanestro rivestono un ruolo di primaria importanza nel “prodotto NBA”. Inutile negarlo. I punteggi stratosferici, le carrellate di highlights e l’ossessiva ricerca dell’eccesso, dei record e dei career high, hanno inevitabilmente polarizzato l’attenzione degli innamorati del gioco verso una dimensione più commerciale, mettendo nell’ombra una serie di tematiche e filoni narrativi interni alle dinamiche del gioco giudicati meno funzionali o addirittura obsoleti.

Riconoscere questo preciso momento storico dell’Association, averne consapevolezza, però, non significa necessariamente voltarsi dall’altra parte, borbottando che si, “prima era molto meglio”. La NBA è un business, lo è sempre stato, e probabilmente ora lo ancora di più, ma non può tutto essere sintetizzato sbrigativamente in questa maniera. Ci sono sempre due lati della luna e quello lasciato nell’ombra, meno appariscente e meno forzato, è rimasto saldamente al suo posto. Anzi, si è rafforzato.

Gli eccessi stucchevoli del mainstream hanno portato, non solo gli appassionati ma anche le franchigie stesse, a sviluppare una rinnovata sensibilità nei confronti dell’antidivo. Giocatori dal talento insindacabile che progrediscono e appassionano per il loro percorso tortuoso verso la vetta, quasi mai sotto i riflettori, ma sempre carico di profondi significati e chiare analogie con la vita di tutti i giorni.

Contrariamente a quanto si possa pensare, la NBA è pervasa da questa poetica e da caratterizzazioni del tutto avverse a popolarità ed esibizionismo. In questo travagliato inizio di stagione, sono tre gli antidivi che più di tutti hanno lasciato un segno riconoscibile, non solo nelle loro squadre ma anche nell’avvincente sottotesto che contrappone onestà ed empatia a tutto quello che giace nella superficie degli eventi. Il lato oscuro della luna, appunto.

 

L’INCOMPRESO: Brandon Ingram

Il tempo, se sai rispettarne pause, accelerazioni e riavvolgimenti, alla fine ti restituisce quello che si è portato via. Vero, a volte non basta nemmeno una vita vissuta appieno per raccogliere i frutti dei sacrifici fatti ma è giusto crederci, sempre e comunque: prima poi, persistendo a testa bassa nella ricerca della realizzazione personale, si può arrivare alla sublimazione del proprio essere e illuminare il mondo di luce propria e non riflessa da qualcun altro o qualcos’altro.

Il percorso che ha portato Brandon Ingram a diventare un All Star acclamato dalla critica, anche quella che prima non lo riconosceva come tale, e ad essere, esteticamente parlando, uno dei giocatori più affascinanti da ammirare sul palcoscenico della NBA, si avvicina molto ad una poetica esistenzialista dalle tonalità opache e dense in termini materici.

Basta soffermarsi sul suo volto per comprendere la necessità di non voler apparire se non mediante la propria pallacanestro, a lui intimamente connessa, anche, se non soprattutto, nelle fragilità. Uno sguardo impenetrabile, per non dire separato dalla realtà, al quale molti mestieranti che ruotano attorno alla NBA attribuivano significati marcatamente negativi quando giocava per i Los Angeles Lakers.

Un talento puro come la neve, quello di Brandon Ingram, e una struttura fisica perfetta per il basket contemporaneo, l’hanno trasformato istantaneamente ai tempi di Duke in un prospetto con il quale immaginare il futuro ideale della propria franchigia. Braccia lunghe, movenze eleganti e misurate, oltre ad un trattamento della palla pudico e seducente allo stesso tempo.

Uscito dal fango sociale di Kinston, cittadina nel cuore del North Carolina conosciuta anche come “America’s basketball heaven”, romantica sottolineatura del suo legame virtuoso con la pallacanestro (tanti i talenti usciti da questa zona), Brandon si è servito umilmente della pallacanestro per abbattere quelle barriere caratteriali che l’hanno sempre tenuto al riparo dalla parte malata della realtà. Un passo alla volta, senza mai concedersi del tutto, Ingram ha convinto le persone a riconoscergli un’identità cestistica tutta sua.

Perché B.I. non è mai stato un giocatore come tanti, ma uno davvero speciale. Ai Lakers lo chiamavano “Tiny Dog” perché, pur essendo alto e magrissimo, mordeva i suoi avversari lungo i 28 metri senza farli respirare. Ci hanno creduto davvero in lui quelli di El Segundo ma Brandon è arrivato troppo presto a giocarsi un’opportunità così significativa per la sua carriera.

L’immaturità figlia del “one and done” collegiale, i problemi fisici, una trombosi venosa al braccio destro che poteva mettere la parola fine alla sua carriera, e, infine, la coesistenza tecnica con LeBron James, che gli ha levato giustamente la palla dalle mani e non aveva certo tempo di aspettarlo. Eccolo, di nuovo. Il tempo, se sai rispettarne sbalzi d’umore e asettiche sospensioni, può diventare il miglior compagno di squadra e di vita possibile. A New Orleans, Brandon si è fatto trovare pronto mentalmente e umanamente. Perché senza riempire i propri vuoti interiori, il talento da solo non può bastare.

Nella Big Easy abbiamo osservato l’evoluzione di Ingram, come giocatore e leader offensivo della squadra, e abbiamo compreso più approfonditamente la sua essenza cestistica. Un ragazzo sveglio, Brandon. Piano piano, ha imparato che tipo di persona essere all’interno del caotico mondo NBA e ha smesso di mettersi ossessivamente alla prova per essere all’altezza delle aspettative personali.

Se da una parte è impossibile sottrarsi al fuoco incrociato del giudizio della gente, dall’altra bisogna avere la forza di mantenere l’autocritica entro livelli di sopportazione. È stato dunque psicologico il traguardo più grande conquistato dal ragazzo di Kinston. Ora potrà finalmente lasciarsi andare e permettere al suo estro di guidarlo sulla superficie increspata del destino.

 

IL PRESIDENTE: Malcolm Brogdon

Fare la differenza è una delle aspirazioni più grandi e sincere che un essere umano possa realizzare. Farlo senza imporre la propria immagine esteriore o visione delle cose rappresenta una chimera, soprattutto nella realtà contemporanea. Malcolm Brogdon è uno dei maggiori esponenti, in ambito di cultura sportiva, di questo specifico modo di esercitare leadership e produrre cambiamenti concreti, pur mantenendo rispettosamente gli equilibri preesistenti. Fare la differenza, insomma, senza prevaricare.

Non ha il ball handling di Kyrie Irving o il range di tiro illimitato di Steph Curry. Non ha all’attivo epici game winner alla Damian Lillard o non chiude in tripla doppia di media per tre stagioni consecutive come Russell Westbrook. Niente di tutto questo. Malcolm Brogdon, però, è uno che fa vincere le partite e conferisce alla squadra una naturale predisposizione al miglioramento.

Scelto alla numero 36 nel Draft 2016 ma capace di vincere ugualmente il Rookie of the Year (ora la scelta di premiarlo non pare più blasfema), la point guard degli Indiana Pacers è tra le migliori certezze della NBA nel suo ruolo. Un ragazzo che tende a portare sempre a termine quello che gli viene chiesto con competenza e senso di responsabilità.

A livello tecnico colpisce la sua efficienza sul parquet, nel 2019 è entrato a far parte del ristretto club “50-40-90” (una stagione registrando il 50% dal campo, 40% da tre e 90% ai liberi), e la capacità di “sentire” e leggere la partita dimostrando un Q.I. cestistico non comune. Brogdon è un giocatore che sa scegliere attraverso l’istinto, fondamentale per una point guard moderna, pur filtrando l’emotività mediante la comprensione e l’esperienza.

Su di lui si può sempre fare affidamento, in qualsiasi momento della gara, e questo lo rende un compagno di squadra ideale per ogni tipologia di carattere. Malcolm è uno che sa trovare le parole giuste e attribuire ad esse il valore che meritano. Lo chiamano tutti “The President” per il suo sapiente uso dell’arte oratoria, l’arma migliore, la più educata, per raggiungere traguardi importanti. Sa toccare le corde giuste nei suoi compagni e, solo se serve all’obiettivo comune, portarli anche dalla sua parte.

Impegnato in prima linea nel sociale e negli aiuti umanitari, Brogdon ha scelto di cancellare dalla sua vita fuorvianti personalismi e ogni forma di egocentrismo perché, secondo lui, lo allontanano dalla verità e lui vuole essere uno vero. Nel suo discorso d’accettazione del premio di Rookie of the Year disse: “Questo riconoscimento è un testamento per i ragazzi che sono sottovalutati. Ragazzi che sono scelte al secondo giro. Ragazzi che non vengono chiamati ogni anno, indipendentemente dall’impegno che ci mettono, da quello che fanno. Puoi sempre realizzare i tuoi sogni se hai fede e spirito di sacrificio”.

Fare la differenza, non solamente nello spazio di un istante, è possibile. Per farlo, però, è necessario affrontare la propria vita come se all’orizzonte di ogni giornata ci fosse qualcosa da raggiungere o da migliorare. Non per ottenere facile approvazione, like e follower, o scalare graduatorie di cui crediamo di aver bisogno per sentirci realizzati, ma per noi stessi. Per crescere come esseri umani e dare un senso permanente ad ogni attimo.

 

IL SOPRAVVISSUTO: Christian Wood

Sgraziato, demotivato e concettualmente disposto a giocare solo nella metà campo offensiva. Per anni Christian Wood è stato un reietto della NBA, giudicato inadatto al professionismo, almeno a certi livelli, e calpestato senza ritegno da un mondo che non sembrava aver bisogno di lui. I ricordi della sera del Draft 2015 lo hanno tormentato incessantemente e in maniera brutale, tanto da impedirgli di guardarsi allo specchio senza provare nulla di spiacevole.

Le immagini di quel giorno non gli danno mai tregua. La festa organizzata assieme a tutta la famiglia al Fizz Lounge, locale all’interno del Caesars Palace di Las Vegas, i vuoti d’aria dell’attesa e, infine, la delusione più grande che potesse immaginare. Finire undrafted ha cambiato per sempre la vita di Christian Wood. In meglio, verrebbe da dire, considerando il presente luminoso con gli Houston Rockets.

Fissando unicamente il passato, invece, la storia assume dei contorni differenti. Dopo quella disillusione, Wood è sprofondato in una voragine di autodistruzione. Si è torturato per quel rifiuto, riversando su sé stesso tutte le colpe. Abbandonato dalla ragazza che amava la sera stessa del Draft e rifiutato dalla NBA, Christian si è presentato davanti alla madre dicendo: “Mamma, mi dispiace. Sono un fallimento”.

La risalita dagli abissi è stata l’esperienza più importante e formativa della sua esistenza. Si è consumato le unghie cercando una via per sopravvivere. Ci è riuscito,  malgrado la NBA non sia stata accomodante con lui, strattonato per quasi 5 cinque anni da una squadra all’altra, oltre a innumerevoli viaggi in lega di sviluppo. Sarebbe sbagliato, però, dipingere il lungo dei Rockets come vittima.

Se in qualche anno è passato dall’anonimato più assoluto a firmare un contratto triennale da 41 milioni di dollari, il motivo non è certamente da attribuire unicamente alla eccessiva cecità e insensibilità del professionismo. Christian ci ha messo del suo per complicarsi la vita. Inizialmente cercando di scavare ancora più in profondità nel buco nero dei sogni infranti e poi, una volta accettata la sua condizione, continuando a colpevolizzare il sistema per aver favorito i suoi fallimenti.

“All I need is a chance, and when I get it it’s over”, twittava Wood nel marzo 2019, dopo l’ennesimo tira e molla NBA/G-League tra i Milwaukee Bucks e i Wisconsin Herd.

È stata la consapevolezza, come spesso accade, a marcare la differenza a livello personale, oltre al fatto di trovare un allenatore, nel caso specifico Dwane Casey, in grado di vedere in lui qualcosa di più di un semplice giocatore di complemento. I Detroit Pistons hanno avuto il merito di dare rilevanza a Christian Wood, permettendogli di sfruttare l’occasione della vita.

Un 2.08 m dotato di mani educate e sensibili, una notevole verticalità, controllata e coordinata, e braccia lunghissime, non è facile da trovare nella NBA di oggi. Un Chris Gardner contemporaneo, che ha conosciuto le sabbie mobili del fallimento molto prima che la sua carriera vivesse dei piccoli momenti di felicità. Wood è l’antidivo per definizione.

Un personaggio lontano dalle caratterizzazioni più ammalianti, grezzo e redivivo, solcato da un percorso che l’ha prima annullato e, poi, ricostituito. Un autentico sopravvissuto, che non potrà mai essere considerato “la faccia della NBA”, vero, ma che attraverso la sua storia ne testimonia le meravigliose contraddizioni. Una tessitura sottile, specchio della realtà odierna. Il dramma che si trasforma in opportunità. Una tipica storia americana.

Tags: Brandon IngramChristian WoodMalcolm Brogdon
Davide Piasentini

Davide Piasentini

Nato a Padova nel 1986, è scrittore e analista sportivo per passione. Autore di diversi libri sul basket tra cui "Ten. Storie di Grunge Basketball" (2017), "From Chicago. La storia di Derrick Rose" (2019) e "Flash. La storia di Wade" (2020). Scrive di NBA per La Gazzetta dello Sport e Overtime.

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