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NBA e vita notturna
Dagli Strip Club a Tinder

Davide Torelli by Davide Torelli
5 Gennaio, 2021
Reading Time: 11 mins read
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NBA Strip Club

Copertina a cura di Nicolò Bedaglia / Photo Credits: Sam Forencich/NBAE via Getty Images

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Che gli atleti della NBA siano considerati i re della vita notturna – chiaramente in suolo statunitense – è storia ben nota. Riconoscibilità, status raggiunto e popolarità della lega, favoriscono la tendenza a “cadute di stile” in nome della bella vita.

È successo ieri, accade adesso e sicuramente non cesserà in futuro. Anzi, con il passare degli anni il “diritto allo svago” da giovani milionari è stato piuttosto sdoganato, pur sfociando spesso in frequentazioni di Strip Club d’alto bordo. Gli stessi che dovrebbero garantire quella selezione sufficiente a mantenere un livello di privacy elevata.

Tanto che ancora oggi, la notizia della stella “pizzicata” a lasciar banconote nel perizoma di una o più stripper, desterebbe meno scalpore di un tempo, almeno fino a prima dell’emergenza pandemica.

Precedentemente all’emanazione dei protocolli di sicurezza per favorire la ripresa del gioco, sapere che le prestazioni in trasferta di James Harden fossero influenzate – tra l’altro in negativo – dal livello dei Night Club nelle città di approdo, faceva sorridere ma non preoccupava. Se lo svago aiuta, perché limitarlo? A partire dal divieto categorico di assembramenti occasionali fuori dai luoghi controllati dalla lega, la faccenda scandalistica è tornata di stretta attualità, e le sanzioni subite dalla stella dei Rockets sono soltanto la punta dell’iceberg.

Oltretutto, la vicenda che ha coinvolto Lou Williams in tempo di bolla – recatosi al Magic City di Atlanta durante un permesso straordinario, a suo dire solo per consumare le alette di pollo migliori in città – ha decisamente fatto drizzare le antenne a Silver e colleghi, in vista della ripartenza stagionale.

Da una parte, dobbiamo essere onesti: chi di noi, trovandosi al posto dei giocatori, non cederebbe ad occasionali momenti di vizio, dove sperperare una piccola parte dei milioni guadagnati ostentando opulenza e condizione sociale acquisita? Non c’è bisogno di ricordare che molti di loro “vengono dalla strada”, o che “hanno vissuto la povertà”, per ammettere che la cosa può starci.

Di contro però, ciò che spesso accompagna un certo livello di divertimento non si sposa benissimo con le prestazioni di un atleta professionista. Anche perché tentazioni ulteriori sono a volte dietro l’angolo, e non tutti hanno la forza mentale per resistervi.

Tradotto: quando si parla di vita notturna, concetti come “promiscuità” o “abuso” che si trasforma in “dipendenza”, divengono talvolta triste conseguenza. Oppure letteralmente conti da pagare. E di questioni a riguardo, nella storia della NBA, ne troviamo a bizzeffe, addirittura contrastanti.

 

Da Wilt a Sugar Ray

Che la bella vita fosse un qualcosa di immancabile nella carriera di certi giocatori, pur non intaccando le prestazioni in campo, ne è stato dimostrazione Wilt Chamberlain. L’atleta che, a suo dire, avrebbe condiviso il letto con oltre 20.000 donne diverse, in parte conosciute nei locali.

Durante le stagioni passate a Philadelphia – con New York ad un tiro di schioppo – l’uomo che realizzò 100 punti in una sola partita non perdeva occasione per svagarsi nei Night Club della Grande Mela. Tra l’altro, passando la nottata precedente alla storica partita in compagnia di una gentil donzella fino alle 6 del mattino, prima di riprendere il treno per tornare verso casa, raggiungendo i compagni.

Nei primi anni sessanta rilevò addirittura lo Small Paradise, un club di Harlem dove passava la maggior parte della sua giornata (pare anche 18 ore al giorno), sia per apprendere i segreti del business che per del sano divertimento. Da amante della musica, trasformò il locale in un tempio del rhythm and blues, ed uno dei primi artisti scritturati dalla sua gestione fu nient’altro che Ray Charles. Inutile dire che lo Small Paradise divenne immediatamente fulcro della vita sociale per i giocatori afroamericani, presenti o di passaggio in città.

Ma dalla libertà di “sbocciare” al degenero, il passo può diventar breve, e con gli anni settanta la circolazione di droghe complica decisamente le cose. E lo farà per quasi un ventennio, fino alle imposizioni del commissioner David Stern, in cerca di ripulire la situazione con le buone o con le cattive.

La tragedia di Len Bias – deceduto per overdose a 48 ore dalla selezione del Draft 1986 – rappresentò una svolta per limitare un trend pericoloso, costato la reputazione (e le carriere) a numerosi talenti.

David Thompson ad esempio, stella dei Nuggets già nella ABA, la cui carriera deraglia in un vortice di eccessi notturni anche in seguito ad un pesante infortunio. Un talento capace di mettere a segno 73 punti in 43 minuti nell’incontro del 1978 tra Denver e Detroit, che avrebbe potuto esser ricordato come uno dei migliori di sempre, resistendo ai vizi. Di fatto, la sua epopea si conclude proprio al celebre Studio 54 di New York dove, a seguito di una rissa, si distrugge i legamenti dopo essere stato spinto giù da una scalinata.

Michael “Sugar” Ray Richardson, invece, rappresentò il caso esemplare rispetto all’inasprimento di pene a seguito della morte di Bias. Pesantemente dipendente dalla cocaina, ed amante di donne e club privati, venne radiato a vita dopo tre differenti test antidroga falliti, alla faccia di un talento ai limiti del descrivibile (per molti, il giocatore più difficile di sempre da marcare).

E le conseguenze tragiche non sarebbero comunque terminate, con uno dei volti più conosciuti come Magic Johnson a riportar in auge il problema di una vita extracestistica difficile da controllare.

Da assoluto re di Los Angeles in piena era showtime, le sue scappatelle (spesso in compagnia del presidente Jerry Buss) probabilmente gli costarono il contagio da HIV, per il quale dovette interrompere la carriera nel 1991. Troppe notti brave, troppe partner differenti e precauzioni spesso inesistenti: da personaggio pubblico, fu impossibile per lui non portare giustificazioni simili, facilmente immaginabili.

In questo periodo diviene “pericoloso” esporsi in locali pubblici seppur elitari, manifestando leggerezza con possibilità di conseguenze tanto gravi. È per questo che gli Strip Club iniziano ad andare per la maggiore, fino a raggiungere il titolo di approdo principe nelle notti libere dei giocatori odierni.

Del resto, se l’esigenza è quella di circondarsi di ragazze, sperperare denaro ed esagerare con bottiglie dai prezzi esorbitanti, è meglio andare subito al sodo, piuttosto che perder tempo in privé di discoteche dove si è maggiormente “paparazzabili”, seppur con ovvi accessi privati. A maggior ragione nell’era dei social media, dove però diviene essenziale porre freno alle proprie condivisioni, per salvare la faccia. E nei casi recenti di Harden e Sweet Lou, anche il portafoglio.

 

Il maestro Dennis

Contemporaneamente oracolo e maestro del lato oscuro della lega, è ovviamente Dennis Rodman, che già nella sua biografia “Bad as I wanna be” racconta tutto, senza filtri. Averlo visto recentemente in “The Last Dance” mentre fugge in quel di Las Vegas, nel bel mezzo delle Finals del 1998, non stupisce più di tanto chi aveva letto il libro a seguito dell’uscita, precedente di due anni a quei fatti.

Che il 50% della vita nella NBA sia sesso, è una delle sue ammissioni più famose. Tra l’altro da dividersi, fuori dal campo, con l’ostentazione del benessere acquisito che risponde alla semplificazione di “denaro” (da sperperare).

E così gli Strip Club divengono quasi un porto sicuro in materia di “difesa personale”, considerando quanto – già a metà degli anni novanta, come racconta il Verme – i luoghi di frequentazione dei giocatori pullulassero di groupies. Peggio dei backstage dei concerti rock degli anni ottanta, a suo dire. Anche perché se molte di queste sono in sostanziale ricerca di un “trofeo” (o al limite di qualche beneficio), altre puntano decisamente alla leggerezza del partner occasionale, consapevoli che restar incinta di un multimilionario rappresenta una garanzia vita natural durante.

Per questo, letteralmente studiano i salari, le abitudini e le frequentazioni preferite durante le trasferte, per farsi trovare pronte e recettive in una finestra temporale comunque limitata.

Pensiamo a questo proposito a Shawn Kemp, esuberante e spettacolare in campo quanto evidentemente sbadato fuori, notoriamente padre di sette eredi concepiti con sei donne differenti. Difficile immaginarsi il buon Reign Man conoscere e concludere così tanto in poco tempo, escludendo la frequentazione di Club appositi, o presentandosi poco attento con le suddette groupies.

Errori che segnano la fama di un personaggio, ma non per questo difficili da non replicare. Chiedete ad esempio a Paul George, che nel 2014 non solo riuscì a mettere incinta una stripper incontrata durante una notte solitaria (seppur da fidanzato, oltretutto con la figlia di Doc Rivers), ma provò addirittura ad offrirle un milione per non partorire, provando a salvar capra e cavoli ma senza successo.

Insomma, il modello Rodman racconta che non ci sia niente di meno insidioso – sulla carta – di uno Strip Club per un giocatore NBA, e viene preso alla lettera dalle generazioni a seguire, per quanto sia impossibile evitare i problemi circoscritti. Ma è un rischio che si può correre allegramente (vedi, appunto, PG13). Anche perché spesso alleggerisce in sostanza conti in banca ben gonfi di soldoni, salvo risvegliarsi un giorno per rendersi conto di averli sperperati tutti e in velocità.

Allen Iverson, per dire, era uno di quelli che davanti alle strippers non badava a spese. Matt Barnes raccontò a Sports Illustrated di aver passato diverse notti con lui nei locali, ai tempi in cui condividevano lo spogliatoio a Philadelphia. Addirittura restando basito nel vederlo lasciare “mance” pari a 30.000 o 40.000 dollari a sera.
E per scandalizzare uno come lui – che finì sul sito scandalistico TMZ intento ad imbastire una rissa con DeMarcus Cousins qualche anno dopo, ovviamente fuori da uno Strip Club newyorkese – ce ne vuole.

Da TMZ alla “tinderizzazione”

Insomma, come se non bastassero le insidie di profittatrici occasionali (e tutte le connessioni tra divertimento e dipendenza), a minare il diritto allo svago dei giocatori si sono messi pure i siti di gossip scandalistico. Dei quali TMZ rappresenta il principale veicolo.

Che John Wall avesse speso la bellezza di 50.000 dollari in ballerine nel celebre V Live Strip Club di Dallas, a seguito di una gara tra Wizards e Mavericks, è divenuto pubblico grazie al sito web scandalistico con sede a Los Angeles. Ed ha contribuito a costruire un immagine del giocatore che è definitivamente esplosa recentemente, con la ex pornostar Mia Khalifa in lacrime sui social appresa la notizia del suo recente trasferimento a Houston.

Una città, tra l’altro, famosissima proprio per la qualità dei suoi locali, come testimonia ovviamente James Harden, ma anche Dwight Howard. Uno dei principali motivi per cui , si dice, decise di approdare ai Rockets come free agent (riportato dal giornalista di ESPN Bill Simmons).

Sempre in Texas, stessa città della bravata di Wall ma appena un anno dopo (2016): Will Barton e Kenneth Faried lasciano in un locale analogo la stessa cifra con l’intenzione di spassarsela. Diviene una notizia, ovviamente, ancora grazie alla prontezza di TMZ.

E se non bastasse la quantità di materiale raccolto sul campo, la furbizia di chi non riesce a non farsi immortalare in Instagram Stories spesso provenienti dalle stesse ragazze lavoranti nei club, rappresenta un ulteriore pozzo senza fondo a cui attingere.

Sarebbe necessaria una strategia diversa, per tutelare il vizio privato dalla sete di gossip del pubblico, soprattutto se si devono giustificare prestazioni poco edificanti ai propri datori di lavoro. Che sarebbero presidenti e dirigenti di quelle franchigie che pagano contratti che definir talvolta onerosi è eufemistico. Ed è così che i social possono diventare stavolta un alleato, sotto forma di Tinder, la principale applicazione per incontri esistente.

Addirittura si parla di “tinderizzazione” della lega, con vantaggi piuttosto tangibili in materia di dispendio energetico, come spiegato da Tom Haberstroh in un celebre articolo per ESPN.

Sostanzialmente prima della diffusione di Tinder tra i giocatori, i rendimenti in trasferta delle squadre apparivano nettamente inferiori all’odierno, in materia percentuale. A fine anni ‘80 il successo della squadra di casa si aggirava attorno al 68% dei casi, mentre nelle ultime stagioni il range si è nettamente livellato (57,4% riportato nel pezzo, datato marzo 2017).

Ovviamente i principali svantaggi del giocare lontani dalle mura amiche sono imputabili alla presenza del pubblico avverso, ma anche ai viaggi da sostenere, i ritmi serrati tra spostamenti in hotel e orari della partita, i tanto vituperati back to back. Ma da non sottovalutare è anche l’impatto dei festeggiamenti post gara, che spesso finiscono per concludersi con il sole ben alto. E dispendi ben immaginabili – che si tratti di Strip Club o meno – se l’ideale conclusione della notte prevede una condivisione del letto con il sesso opposto (o comunque preferito).

In tutto questo Tinder aiuta a diminuire i tempi di approccio, per i quali è necessario proprio recarsi nei locali, consumare bottiglie di alcolici e spendere i soliti dollaroni sonanti. Non solo si risparmiano forze, ma si guadagna pure una media minima di due ore di sonno in più: un vantaggio prezioso quando devi performare ad alti livelli.

Ciò ovviamente non significa che gli amanti degli Strip Club eviteranno di farsi vedere laddove sono habitué (per citare il solito Harden, probabilmente è l’unico sportivo ad avere una maglia ritirata in uno di questi, come merito sul campo, e scusate se è poco), ma probabilmente allenatori e franchigie potranno dormire sonni un minimo più tranquilli. Almeno loro.

Anche se, con i protocolli in vigore sopracitati, il pericolo di contagio rischia di esser ancor meno limitato. Perché si può vietare agli atleti di frequentare i locali (per quanto possibile), ma proteggerli da incontri occasionali – a domicilio, o nella propria camera di albergo – appare decisamente più complicato.

Tags: James HardenLou WilliamsStrip ClubWilt Chamberlain
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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