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La NBA ha vissuto un anno (in)dimenticabile

Cesare Russo by Cesare Russo
31 Dicembre, 2020
Reading Time: 5 mins read
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Il 2020 NBA, Inside Out

Copertina a cura di Sebastiano Luca Martini

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Scrivere del 2020 è una missione un po’ complicata. Un po’ perché lo hanno fatto tutti, un po’ perché è stato effettivamente un anno complicato, drammatico per molti aspetti. Pur restringendo il campo alla sola NBA, l’annata 2020 rimane ostica, c’è stata una continua serie di situazioni, quasi tutte difficili e raramente positive.

È stato un anno che ci ha fatto capire quanto la NBA sia legata a ciò che la circonda, quanto sia influenzata dai fatti del mondo che nulla hanno a che vedere con una palla che entra in un canestro, ma anche come possa condizionarli, quei fatti. Non credo ci siano state né ci saranno molti altri anni infatti, in cui il riassunto dell’anno NBA sia così simile ad un riassunto dell’anno in sé.

 

Il caso Morey

La Lega ha iniziato il 2020, come il resto del mondo, portandosi dietro gli strascichi della questione Hong Kong. Era l’ottobre del 2019 quando, tramite il suo profilo Twitter, Daryl Morey appoggiava le proteste che si svolgevano in quei giorni ad Hong Kong contro un nuovo disegno di legge riguardante il sistema giuridico, visto come un’ingerenza della Cina.

Il tweet ha avuto pesanti conseguenze, con l’oscuramento delle partite dalla Televisione di stato cinese, che ha causato un impatto fortemente negativo sulle casse della Lega. Conseguenze ancora più dirette le hanno sperimentate i giocatori Lakers e Rockets, in Cina proprio al momento del fattaccio, passati dal giocare una partita di preseason al rimanere bloccati nell’hotel in una situazione di incertezza, in una strana anticipazione di a ciò che sarebbe successo qualche mese dopo a Orlando.

La gestione pubblica della situazione è un argomento complesso. Prima di dare qualunque giudizio, è bene ricordarsi una delle lezioni base di qualunque corso di economia: la teoria dei giochi. Resa famosa da John Nash (il Russell Crowe di A Beautiful Mind), questa teoria propone il modello più semplice per valutare le scelte degli individui.

Per farla breve, chiunque prenda una decisione (in questo caso lo schierarsi o meno politicamente riguardo la questione), lo fa dopo aver effettuato un calcolo tra perdite e ricavi, certi e potenziali. Lo fa Daryl Morey prima di quel tweet, consapevole di star rischiando il posto (la Cina chiederà effettivamente il suo licenziamento, rifiutato da Silver) e bilanciando quel rischio con il coinvolgimento personale di un amico ad Hong Kong che percepiva in situazione di pericolo. Lo fanno Adam Silver e il mondo NBA, cercando di mediare la libertà d’espressione, valore importante nella Lega, e le ovvie implicazioni economiche in una relazione commerciale ormai ultra-quarantennale, partita casualmente proprio da Hong Kong, dove David Stern fondò il primo ufficio asiatico della NBA. Lo fa anche chi si oppone a questa gestione ritenendola “troppo di comodo”.

Questo per dire che nessuna posizione è presa esclusivamente in nome di valori assoluti e che proprio per questo tutte le posizioni vanno ascoltate e considerate, per poi essere appoggiate o combattute secondo le proprie inclinazioni.

 

L’addio di Kobe Bryant

Il 26 gennaio. Se c’è qualcosa di più difficile del raccontare il 2020, quel qualcosa è la morte di Kobe Bryant. Considerato il fatto che siete qui, su questo sito, non credo ci sia bisogno di ricostruire la vicenda né di rivivere i momenti, le esperienze e i racconti che l’hanno seguita: è molto probabile abbiate ancora ben in mente tutto ciò, aggravato dal peso emotivo personale col quale avete vissuto la tragedia.

È tragicamente successo e ora non potremo più vedere quelle giocate che ormai sappiamo a memoria (non devo neanche linkarvela la partita sull’isola, il palleggio dietro la schiena e la schiacciata in rotazione contro i Nuggets o qualunque altro sia il vostro Kobe Moment) con la stessa leggerezza. Kobe Bryant è morto, tutto qui. E quel tutto è tantissimo.

 

L’impegno sociale della Lega

Con un piccolo salto temporale, andiamo al 25 maggio. George Floyd muore nelle mani, e sotto il ginocchio, delle forze dell’ordine statunitensi e il mondo intero lo vede, in un video che prova definitivamente la relatività del concetto di tempo, perché è impossibile che gli 8 minuti e 46 secondi della sua durata siano la stessa lunghezza percepita guardandolo. Ancora una volta, l’NBA è influenzata e influenza a sua volta. Scende in piazza e fa scendere in piazza. Fa discutere e discute.

Anche qua, è sempre bene tenere in conto la teoria dei giochi. Non può essere una coincidenza che la prima squadra a boicottare la partita in programma dopo i fatti di Keynosha, in Wisconsin, siano i Bucks di Milwaukee nei quali a roster figura un giocatore Sterling Brown, che dalle forze dell’ordine dello Stato ha ricevuto la proposta di 400mila dollari per tacere il trattamento ricevuto nel 2018, per un parcheggio sbagliato.

Per quanto sia facile e, per molti punti di vista, giusto considerare come politiche le scelte e le azioni realizzate dai giocatori NBA alla luce di questi eventi, questo non deve farci ignorare la componente personale che certamente ha innescato le iniziative lo stop epocale, da qualunque angolo lo si giudichi, imposto dai Bucks nella bolla di Orlando non è stato pianificato, ma piuttosto “di pancia”.

 

Il virus e la bolla di Orlando

Torniamo indietro. È l’11 marzo e la stagione viene sospesa a tempo indeterminato per un minimo di 30 giorni, dopo che il tampone effettuato da Rudy Gobert risulta positivo al coronavirus. Dopo qualche giorno, l’NBA chiude effettivamente i battenti per progettare un ritorno in sicurezza non prima di giugno.

Il pronostico è sbagliato di un mese, perché il 9 luglio le squadre iniziano il training camp nella bolla di Orlando. La straordinarietà della NBA sta nell’aver trasformato l’evento più spaventoso dell’anno in un’opportunità per testare qualcosa di inedito e unico. Il “minimondo” di Disneyworld si rivela il minor male. Riuscendo a garantirci un finale di stagione degno di questo nome, anche se tanti gli mettono, e non è facile dar loro torto, accanto un asterisco. Per i giocatori dei Lakers quell’anello conquistato è il coronamento di una vita arrivato nell’anno più difficile, e sarà impossibile non ricordarlo felicemente.

Parlando di felicità, permettetemi una piccola divagazione. Non è certamente un evento che ha toccato l’NBA (per adesso), ma il nuovo lancio di The Shot è senz’altro uno dei momenti migliori dell’anno per chi scrive e ho fiducia che lo sarà anche per il giornalismo sportivo italiano nel futuro prossimo

Tags: Daryl MoreyDisneyWorldGeorge Floydkobe bryantNBA 2020
Cesare Russo

Cesare Russo

Tifa 76ers perché a 14 anni ha visto Tony Wroten segnare una tripla doppia nella notte. Orfano di Sam Hinkie, nei suoi sogni più belli è sempre apparso almeno uno tra TJ McConnell e Covington

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