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Prima che fossero grandi
Le origini di 5 campioni non predestinati

Davide Torelli by Davide Torelli
28 Dicembre, 2020
Reading Time: 13 mins read
0
giocatori NBA non predestinati

Copertina a cura di Sebastiano Luca Martini

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Che nessuno “nasca imparato” lo avrete sentito dire milioni di volte, magari da qualche professore a scuola, nell’intento di spronare (o spronarvi) verso un’applicazione più appassionata del “duro lavoro” relativo. Ed anche guardando al mondo della NBA – ed ai suoi protagonisti – non tutti possono permettersi un “The Chosen One” tatuato sulla schiena, giustificando la propria superbia con un quasi ventennio di dominio effettivo, nei parquet più importanti del mondo.

Ok, quello di LeBron James è un caso tanto unico quanto raro, ma se osserviamo le stelle più attese della stagione appena avviata, scopriamo che non tutte si sono presentate con quell’aurea di “predestinato” che spesso diamo per scontato.

Ecco le storie di cinque “Signori Nessuno”, che prima di ottenere lo status attualmente occupato nel firmamento della lega hanno dovuto sgomitare, combattendo contro il pregiudizio e le difficoltà. E scusate se è poco.

 

Stephen Curry

Troppo piccolo, troppo gracile, inadatto agli scontri duri nel basket che conta: una nenia che Wardell Stephen Curry si è sentito ripetere a più riprese, nonostante le dimostrazioni effettive delle sue doti cestistiche sul campo, almeno fino alla stagione 2012/13.

Anzi, fino al 27 febbraio di quel campionato, quando i suoi detrattori devono inchinarsi ad una performance storica al Madison Square Garden: 54 punti con 11 canestri da dietro l’arco. Da lì in poi, la storia la conosciamo tutti.


Eppure il primo della nostra lista avrebbe tutte le carte in regola per essere un “predestinato”, o quantomeno un “figlio d’arte”. Perché sia lui che il fratello Seth (due anni più giovane, classe 1990) non sono altro che i figli di Dell Curry, abilissimo mestierante che si è costruito una carriera di tutto rispetto nella lega, percorrendo tutti gli anni 90 (Sixth Man of the Year nel 1994, tra l’altro).

I due fratellini si fanno vedere sul parquet spesso e volentieri, non perdendo occasione per tirare a canestro e dimostrare le proprie velleità, con Dell impegnato dapprima con i Cavaliers (Steph nasce ad Akron, in Ohio) e poi per un decennio a Charlotte.

Peccato però che la struttura fisica di Stephen, non lo renda esattamente prospetto di prima fascia. A livello di High School impressiona alla Christian School di Charlotte (diventando il miglior marcatore di tutti i tempi), e replica a Etobicoke in Ontario, a seguito del trasferimento del padre a Toronto.

Nonostante percentuali di tutto rispetto (per non dire pazzesche) da tre punti, Steph viene ignorato dai principali College della ACC, rispondendo infine alla chiamata di Davidson, che non vinceva una partita al torneo NCAA da quarant’anni. E ne cambia la storia.

Durante la sua seconda stagione cresce anche fisicamente, raggiungendo i 190 centimetri, e migliora la proprie medie stanziandosi sui 28 per gara al termine del terzo anno, quando decide di rendersi eleggibile per il draft e coronare quel sogno inseguito fin dalla più tenera età.

Viene selezionato dai Golden State Warriors con la settima scelta del 2009 – dopo Ricky Rubio e Tyreke Evans se guardiamo ai pari ruolo – rappresentando un’autentica scommessa proprio per quei dubbi fisici che ne rappresentano una vera e propria croce.

Ed infatti nei suoi primi anni da professionista i guai alle caviglie ne minano decisamente la crescita, prima della rivincita nel campionato 2012/13, preludio al periodo d’oro per la squadra di Oakland.

Sul suo talento si fonderà un sistema di gioco tra i più entusiasmanti mai visti su un parquet, quello di Steve Kerr, degli Splash Brothers, che frutterà ai Dubs tre titoli in cinque anni (e a Curry un posto nell’olimpo della lega). In pochi, ricordandone la conformità fisica, avrebbero potuto prevederlo.

 

Russell Westbrook

Quella foga agonistica che caratterizza Russell Westbrook ancora oggi – nonostante le 32 primavere sulle spalle ed una serie di infortuni che avrebbero incrinato anche i fisici più resistenti – non può che avere origine da un passato di frustrazione. O meglio, di sottovalutazione, seppur il giovane Brodie effettivamente brillasse ben poco in un gioco che sembrava essere adatto a corporature ben più strutturate.

Nato a Long Beach nel 1988 (e cresciuto a Hawthorne, nella contea di Los Angeles), consuma l’asfalto dei playground insieme all’amico fraterno Khelcey Barry, accomunati dal sogno di raggiungere il massimo livello per un cestista statunitense, puntando dritti – nel frattempo – a UCLA. Il college più prestigioso nella bassa California.

I due finiscono alla Leuzinger High School, ma attenzione: quello forte che si mette subito in mostra è Khelcey, mentre Westbrook si accontenta delle briciole, sostanzialmente non giocando mai. Non potrebbe essere altrimenti considerando che al tempo misura poco più di 170 centimetri per 64 chilogrammi di peso. Un fuscello, con poca prospettiva a detta di tutti.

Eppure continuano a sfidarsi uno contro uno nei campetti, anche dopo gli allenamenti scolastici, fino a quando Barry non viene colpito da un malore. Si accascia al suolo vittima di un attacco cardiaco, esalando il proverbiale ultimo respiro, e segnando per sempre l’esistenza dell’amico.

Da lì in poi le cose dovrebbero cambiare, secondo quelle regole non scritte delle storie a lieto fine. Ed effettivamente Russell diviene leader dei suoi negli ultimi due anni di High School, conducendo la Leuzinger con record ottimali, elevando le proprie medie realizzative, beneficiando anche di uno sviluppo fisico evidentemente ritardato.

Quando il percorso giunge a conclusione, e l’idea sarebbe quella di guardarsi intorno per decidere quale college frequentare per elevare la propria carriera, il ragazzo desta più di un dubbio per gli addetti ai lavori. Difficile dar fiducia ad un prospetto che ha disputato, di fatto, solo due stagioni delle quattro canoniche.

Eppure la scelta di rendersi eleggibile per il draft da parte di Jordan Farmar, fa scattare una scintilla nella testa di coach Ben Howland di UCLA. Lo spazio che si libera in squadra renderebbe meno insensata una scommessa della portata di Russ, ed il sogno di toccare il parquet del Pauley Pavillion diviene realtà.

Giungiamo quindi al meritato lieto fine? Non esattamente, perché al primo anno Westbrook conferma ogni dubbio pregresso sulla sua persona, finendo in fondo alle rotazioni di squadra, e facendo registrare medie ai limiti dell’invisibile come shooting guard di riserva. Almeno fino all’infortunio di Darren Collison, che costringe Howland a provarlo come point guard, lasciando così campo libero alla competitività di un Russ carico a mille.


Con lui ad affiancare Kevin Love, i Bruins raggiungeranno due Final Four consecutive (in entrambi i casi, concluse senza successo), prima che i due decidano di rendersi eleggibili per il Draft 2008. Rispettivamente diventeranno la quarta e la quinta scelta assoluta.

Il “brutto anatroccolo” da Hawthorne passa da scommessa a certezza, selezionato da quei Seattle Supersonics che da lì a poco si sarebbero trasferiti ad Oklahoma City, crescendo a fianco di Kevin Durant.

 

Damian Lillard

La famossissima tripla in step back – a pochi passi dalla metà campo e con il punteggio sul 115 pari – che manda a casa Paul George ed i Thunder al primo turno dei playoff 2019, non è certo la consacrazione di Damian Lillard, ma poco ci manca.

Si perché al cosiddetto “Lillard Time”, e ad una sua autentica onnipotenza con la maglia dei Portland Trail Blazers, ci eravamo già abituati nelle stagioni precedenti. Sei, per l’esattezza. Parte delle quali il nome di colui che oggi è – per molti – Dame Dolla, figurava in cima alla lista dei sottovalutati, spesso ingiustamente esclusi dall’All Star Game.


Un tempo superato, visto che oggi combatte con i due predecessori in questo elenco per il titolo di miglior point guard della lega, ma perfettamente in linea con il suo passato. In una storia che nasce e si sviluppa ad Oakland (la stessa di Jason Kidd e Gary Payton), nei quartieri poco raccomandabili di una città conosciuta per criminalità e pericolosità, ad un Bay Bridge da San Francisco (si, il fratello meno conosciuto del Golden Gate che la collega con Sausalito).

La distanza tra casa Lillard e la Oracle Arena è una manciata di isolati, ed il ragazzino si mette in luce fin da piccolo per una determinazione invidiabile, iniziando ad appassionarsi al gioco in un centro ricreativo vicino a casa dei nonni. Non è amore il suo, ma profonda ossessione.

L’idea è identica a tanti suoi colleghi attuali e passati nella National Basketball Association: uscire dal ghetto, salvarsi la vita, utilizzare la pallacanestro come il trampolino di lancio e primeggiare. Ma non è facile, per una serie di ragioni.

La principale (e prevedibile) è comune ai due che lo hanno preceduto in questo elenco, e cioè un fisico non esattamente statuario. Di contro, grinta e coraggio sono gli ingredienti giusti per superare gli ostacoli naturali, che come per Steph e Russ sono riassumibili con valutazioni insufficienti di partenza, per render lecito il miraggio del professionismo.

Le cose non iniziano benissimo con la Arroyo High School di San Lorenzo, che abbandona dopo una stagione, dopo il licenziamento dell’allenatore. Alla St. Joseph Notre Dame High School di Alameda dura appena un batter di ciglia, rabbioso per lo scarso minutaggio dedicatogli, pronto a riversare la sua frustrazione alla Oakland High, dove riesce a far registrare numeri differenti.

Ma tante turbolenze non possono rappresentar certezze per i reclutatori, e per Damian non resta che rispondere affermativamente alla chiamata di Weber State di Ogden, nello Utah. Non esattamente una meta ambita né per tradizione cestistica, né per locazione geografica, ma Lillard non si arrende e dopo un buon anno da freshman fuga ogni dubbio, crescendo progressivamente nei tre anni successivi.

Dopo una stagione da 24 punti, 5 rimbalzi e 4 assist si rende eleggibile per il Draft del 2012, selezionato dai Blazers con la sesta scelta, dopo il conclamato numero uno Anthony Davis, Bradley Beal e Dion Waiters.

Poco meno di dodici mesi dopo, nonostante tutto e soprattutto tutti, viene eletto Rookie of The Year proseguendo in uno sviluppo cestistico (ed umano) che ancora oggi – con la nona stagione in carriera appena avviata – non ha visto sosta.

 

Kawhi Leonard

Riservato, silenzioso e per certi versi ai limiti dell’autismo, impossibile non inserire Kawhi Leonard tra le stelle non predestinate, in una “lega di giocatori”. Le ragioni di questi comportamenti – per la verità legittimi, seppur in netta controtendenza con la media dei colleghi – sono state più volte analizzate e raccontate.

Figlio della California del Sud e nato a Riverside, titolare di un’infanzia piuttosto serena malgrado la separazione dei genitori, subisce l’assassino brutale del padre per le strade di Compton, e si chiude in se stesso. A diciassette anni gioca (benino) per la Martin Luther King High School, e a differenza di molti per i quali la pallacanestro rappresenta il principale canale di sfogo, non si pone con rabbia famelica, ma si concentra sul duro lavoro.

Ossessivo, routinario, controllato: Leonard lascia parlare il campo, piuttosto che usare le voce, e diviene Mr. Basketball per lo stato della California, garantendosi un ranking altissimo a livello di reclutamento collegiale. Finisce nella prestigiosa San Diego University, facendosi ben notare per due stagioni, prima di rendersi eleggibile al Draft del 2011 dopo due partecipazioni al torneo NCAA.


Anche lì, il crescendo che decide di interrompersi per il grande salto, è figlio di un’etica del lavoro ineccepibile, per la quale ogni mattina si presenta in palestra alle 5, concentrato nel migliorare i propri fondamentali. Con quella apertura alare, quella mentalità e quelle mani infinite che gli valgono il soprannome di The Klaw (precedentemente anche di Julius Erving), le sue capacità difensive spiccano più del potenziale offensivo, ed in una classe di matricole particolarmente densa di nomi, il suo viene chiamato piuttosto in ritardo rispetto alle aspettative.

Viene da sorridere a pensare Kawhi selezionato dopo i fratelli Morris, ma soprattutto Alec Burks, Derrick Williams e Jimmer Fredette: una serie di giocatori rapidamente dimenticabili, a differenza di Kyrie Irving, Kemba Walker e Klay Thompson che effettivamente lo precedono (la trentesima scelta di quella tornata, che anch’essa grida vendetta, è Jimmy Butler da Marquette).

Lui deve accontentarsi della quindicesima chiamata per conto degli Indiana Pacers, che di contro imbastiscono subito una trade con i San Antonio Spurs, che coinvolge George Hill, uno dei pupilli di Gregg Popovich.

Insomma, a prescindere dal lavoro e dalle aspettative personali, il poco loquace Leonard avrebbe più di una ragione per sentirsi sacrificabile, sottovalutato e scaricato. Ed invece quello che il buon Pop vede in lui consacrerà la sua prima parte di carriera, quella di specialista in un sistema oliato, nel quale si inserisce pur partendo dalla panchina ma beneficiario, nel primo anno, dell’infortunio di Manu Ginobili.

La ricetta per lui sarà sempre lo stesso: duro lavoro, perfezionamento, poche parole. In questo modo non solo si vincono i titoli, ma si diventa grandi, trasformandosi da buoni giocatori ad eccellenze della lega. La sua storia lo dimostra.

 

Giannis Antetokounmpo

La storia del due volte MVP che ha appena firmato un contratto storico, legandosi ai Milwaukee Bucks, è tanto rappresentativa dell’attuale quanto declinabile in “novella strappalacrime”. Ciò non ne mina la bellezza intrinseca, rendendola comunque un “must” conosciuto a memoria e probabilmente destinata a venir impressa su pellicola un giorno.

Charles e Veronica Adetokunbo sbarcano nelle coste elleniche – da clandestini – nel lontano 1992, sfuggendo dalla Nigeria in cerca di un futuro diverso. Pur vivendo di espedienti e difficoltà, i due riescono a dare alla luce i piccoli Francis, Alexis, Thanasis, Kostas e Giannis, stabilendosi a Sepolia (un quartiere periferico di Atene), e “grecizzando” il loro cognome in Antetokounmpo.

Il problema per una famiglia tanto numerosa è prettamente economico, in una terra uscita da un baratro di arretratezza nel quale stava per ripiombare di lì a poco, con il rischio “default” e tutto quello che attorno vi concerne. Oltretutto c’è il rischio di venir rispediti nel paese d’origine in modo repentino, mentre Alba Dorata prolifera e controlla i quartieri cittadini con ronde decisamente poco simpatiche.

I fratelli Antetokounmpo si trovano costretti a racimolar denaro in ogni modo più o meno lecito, non ultimo vendendo riproduzioni di marchi “falsi”, anche sportivi, come se ne vedono di ogni lungo i nostri litorali o nelle principali città d’Europa. Mentre il padre si barcamena lavorando da manovale come capita, Giannis vende le cosiddette “Nike tarocche”, non potendo neanche immaginare che un giorno sarebbe stato incensato testimonial di quelle “vere”.

Eppure, con il fratello Thanasis, il futuro MVP inizia a giocare a pallacanestro nei campetti cittadini, attirando attenzioni anche grazie ad un fisico ancora gracile ma resistente, e venendo entrambi accettati in una squadra di quartiere.

Per loro c’è solo un paio di scarpe a disposizione, da condividere: impossibile vederli in campo insieme. O almeno, così narra la leggenda. Una storia che vede un barlume di speranza quando i fratelli vengono scritturati dal Filathlitikos, una squadra che milita nella A2 nazionale grazie alla quale riescono ad ottenere l’agognata cittadinanza Greca.


Giannis è ancora un talento grezzo, che in un sistema simile riesce ad esordire nella nazionale under 20 attirando gli scout del Zaragoza, con il quale firma un contratto quadriennale. In quel momento ha appena 18 anni, e considerando che il trasferimento in Spagna sarebbe dovuto esser effettivo a partire dalla stagione 2013/14, conclude la sua stagione in Grecia, attirando interessi anche oltre Oceano.

Il Zaragoza diviene così uno splendido piano B in caso di non scelta al Draft NBA del 2013, che si concretizza con il suo nome chiamato dai Milwaukee Bucks con la quindicesima scelta assoluta.

Da quel momento in poi, il sogno si concretizza, e la determinazione di Giannis nel lavorare incessantemente sul suo gioco ed il suo corpo, ci porta rapidamente al giocatore che oggi possiamo apprezzare.


Guardandosi indietro, e ripensandolo nella sua stagione d’esordio (da poco meno di 7 punti e 5 rimbalzi per gara), ancora oggi sembra impossibile pensare che il Greek Freak di oggi sia lo stesso che timidamente si approcciava alla NBA ieri.

Ancor di più se lo immaginiamo vendere falsi di contrabbando lungo le strade di Sepolia, lo stesso luogo in cui oggi inaugura campetti sponsorizzati dalla Nike, idolatrato dai moltissimi che vedono in lui un modello di speranza, decisamente unico nel suo genere.

Tags: Damian Lillardgiannis antetokounmpoKawhi LeonardnbaRussell WestbrookStephen Curry
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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