Il giocatore perfetto, fortunatamente, non esiste. Lo dice la storia, lo dicono i numeri. Il basket americano, soprattutto nell’ultimo decennio, si è arricchito di statistiche avanzate, spesso utilizzate impropriamente per valutare l’essenza e le potenzialità di un giocatore, e si è progressivamente allontanato dalla dimensione romantica ed emotiva, quella che ha caratterizzato orgogliosamente la narrativa cestisca del ricchissimo ventennio ’80/’90.
Perdiamo troppo tempo a trattare la soggettività come un virus da estirpare, tanto per restare attuali, ma non ci rendiamo conto di quanto essa condiziona perennemente la nostra sensibilità nei confronti del gioco. Pensiamo di essere fin troppo oggettivi nelle valutazioni, fissandoci su numeri e terminologie americane delle quali ci siamo appropriati volontariamente, ma non lo siamo affatto. Come se il fatto di amare o meno un giocatore dovesse necessariamente passare attraverso il filtro dei “numeri”.
Se questi ne confermano la contestualizzazione all’interno di un sistema o garantiscono il rispetto dei canoni di credibilità del basket contemporaneo, allora via libera ai sentimenti. Altrimenti, la tendenza a non lasciarsi andare prende il sopravvento. Non è questo il basket che mi entusiasma. Non lo è mai stato. Considero ogni tipologia di approccio ma non vado oltre se non la ritengo funzionale al mio amore per il gioco. La poetica della pallacanestro è meravigliosa perché cerca di dare armonia e organizzazione all’imperfezione, rispettandone l’essenza come parte integrante della propria autenticità.
Creare il giocatore perfetto, dunque, è un gioco spensierato e leggero, totalmente incentrato sulla soggettività, la mia. Nessun numero o statistica tra le righe. Nessuna valutazione anteposta con presunzione alla sua antitesi. Vale tutto e niente, proprio come nella vita. Almeno per una volta abbandoniamoci ai sentimenti e lasciamo da parte la finta ossessione per l’oggettività, o perlomeno la sua flebile apparenza. Il giocatore perfetto non esiste. L’immaginazione, invece, si. Quindici categorie e quindici giocatori, attualmente attivi nella NBA, soffocando sul nascere ogni forma di utopia e negandosi totalmente al basket metafisico. Leggeri e incontaminati come la neve.
Cuore caldo e mente libera.
TIRO: Kevin Durant
Esistono dei piccoli momenti nella vita in cui ogni cosa sembra idealmente trovarsi nel posto giusto. Paure e negatività svaniscono, lasciandoti sul volto i segni inequivocabili della felicità. Un po’ come assistere ad un gesto tecnico sul parquet perfettamente concepito ed eseguito, di quelli che ti fanno istantaneamente desiderare di essere un poeta, così da permetterti il lusso di trovare le parole giuste per descrivere quello che provi in quel momento. Perché a volte non basta “sentirle” le cose. Devi dar loro corpo e sostanza.
Kevin Durant è purezza, armonia e incanto disarmante. Il suo tiro tocca sempre le corde giuste, accompagnato da esitazioni, palleggi inverosimili per un ragazzo con quella struttura fisica e un rilascio meravigliosamente uguale a sé stesso. Come può una cosa così automatica e seriale suscitare sensazioni così significative? È la perfezione di un attimo, l’estetica in tutta la sua consistenza. Se la palla finisce o meno sul fondo della retina, spetta solo a KD determinarlo. Il suo basket vive e muore conservando la sua indipendenza. Contro di lui non si può difendere, solo fare del proprio meglio.
ATLETISMO: Giannis Antetokounmpo
Quando Giannis accelera e punta il suo difensore, diventa quasi impossibile impedirgli di arrivare al ferro. Basta uno spin move e poi, al termine della virata, il canestro è così vicino da poterlo sfasciare. Velocissimo, tanto da far sembrare scarsi quei 28 metri da solcare, e con una ineguagliabile predisposizione a dominare fisicamente le partite.
La natura semidivina di Antetokounmpo ha cambiato la narrativa cestistica della città di Milwaukee, trovando costante giovamento da un’etica del lavoro spaventosa e da un candore caratteriale difficile da trovare in un MVP contemporaneo. La sintesi del suo strapotere fisico non deve, però, allontanarci dalla complessità della sua pallacanestro. Giannis non è solamente un atleta fuori dall’ordinario. Sarebbe colpevolmente riduttivo ed inappropriato limitarsi a questo. Quello che è riuscito a fare col suo corpo e il giocatore che lui stesso ci ha costruito attorno, però, rappresentano qualcosa di mai visto prima.
INTENSITÀ: Chris Paul
La platealità e l’eccessiva spettacolarizzazione non fanno parte del suo personaggio. Non un Patrick Beverley o un Draymond Green, dunque. L’intensità di Chris Paul trascende un’interpretazione caricaturale e marcatamente espressiva, privilegiando una diffusione duratura e radicata, meno estemporanea, dalla quale anche i compagni di squadra possono attingere in ogni fase della partita. Una fonte pressoché inesauribile di agonismo, pregna di contenuti sin dalla palla a due.
Questo è CP3. Non solo il Point God ma un giocatore che migliora mentalmente i compagni, soprattutto nell’approccio alla pallacanestro e nella mentalità con cui affronta ogni sfida personale e avversario sul parquet. Uno sguardo duro, stemperato da qualche finto sorriso, che lascia intravedere sentimenti veri solamente per chi ha imparato a coglierli. Quella serie contro i San Antonio Spurs nei Playoffs del 2015 è tuttora il manifesto imprescindibile del suo basket. Vivere intensamente dolori, fallimenti e battute d’arresto, al pari degli aspetti positivi, e trasformare tutto in opportunità.
BALL HANDLING: Kyrie Irving
Il palleggio di Kyrie è un dono del cielo. Incredibile come riesca a far sembrare facile ogni cosa che immagina durante una partita. Virtuosismo appagante. Un soffio di freschezza che ristora l’anima. La fiducia incrollabile con cui Irving traduce i suo istinti sul parquet è una delle cose che lo rendono unico all’interno della storia recente del basket. La bellezza delle sue giocate risiede nella loro efficienza, seducente ancor più dell’estetica.
Irving dipinge a mano libera, apparentemente senza seguire un ordine o una finalità, e slalomeggia seguendo traiettorie spesso contrarie alla logica. I capolavori si nascondono ad ogni crossover o palleggio dall’andamento frammentato. Forzature nobilitate dal talento, alle quali Kyrie dedica tutto il suo amore. In ogni movimento, che sia inserito nello spartito o sviluppato in discontinuità, la tecnica individuale cerca di spingersi oltre. Il più delle volte, riuscendoci.
VISIONE DI GIOCO: Luka Dončić
Luka Dončić serve sempre il compagno nel futuro e gli fa trovare la palla esattamente dove dovrebbe essere per poter segnare un canestro. L’immaginazione è una delle poche autentiche libertà che ci possiamo concedere nella vita. Fare del proprio gioco l’espressione di questa libertà avvicina lo stesso all’infinito, caricandosi di potere evocativo e di sfrenata esaltazione.
La pallacanestro di Dončić è un turbinio di fantasie ed intuizioni, che si manifestano sul parquet senza essere svilite dal raziocinio ma che attraverso esso si elevano e realizzano. Luka ha unito istinto ed intelletto, avvalorando le sue visioni anziché reprimerle e conformarsi così alla massa. Vedere corridoi di passaggi laddove non ci sono o far svanire la palla con una finta: influenzare la realtà e non esserne semplici spettatori.
VELOCITÀ: De’Aaron Fox
Essere la point guard titolare di una squadra eterna incompiuta non è certamente la situazione tecnica ideale per lasciare che il proprio talento cresca libero ed inalterato. De’Aaron Fox, però, ha trovato il modo di illuminare una storia dalle tinte pericolosamente chiaroscure, cavalcando le accelerazioni del tempo e manipolandolo con la stessa sfacciataggine. “The fastest motherf***er in the league” è un credibile leader del backcourt di Sacramento e non serve spingersi troppo in là con l’immaginazione per affermare che si tratta di un giocatore molto forte.
La velocità con cui si mangia il campo in transizione, infatti il fast break per lui è uno status mentale, strappa la palla dalle mani dell’avversario e aggredisce il divenire dell’azione è tra i migliori che la lega possa offrire.
DIFESA: Marcus Smart
Sangue e sudore. Marcus Smart è uno dei giocatori più intensi e coinvolgimenti di tutta la NBA. A Boston lo sanno bene. Lui sanguina verde per davvero. Impossibile non rimanere colpiti dalla sua voglia di incidere, soprattutto nella metà campo difensiva dove non lascia mai nulla di intentato, spremendosi fino all’ultima goccia di sudore. Con lui si possono tranquillamente spendere le diciture “difendere sottopelle”, “dentro ai pantaloncini” oppure sfruttare il tanto ricamato concetto di “entrare mentalmente dentro la testa dell’avversario”.
Smart è un ragazzo genuino, senza filtri o schemi mentali e totalmente incosciente quando si tratta di ottenere il massimo dai compagni o di prevalere sull’avversario. Non riesce a trattenersi quando non vede attorno a lui il suo stesso spirito di sacrificio e generosità nell’approcciare il basket. Ogni partita, ogni possesso. Un giocatore che vorresti sempre avere nella tua squadra perché, proprio come te, morirebbe all’istante su quel campo per realizzare l’irrealizzabile.
STOPPATA: Anthony Davis
Tra le innumerevoli qualità e ragioni per cui si potrebbe inserire “The Brow” all’interno di una “lista”, la scelta è ricaduta su uno dei fondamentali che, probabilmente, meno lo identifica nell’immaginario cestistico globale. Davis è un grandissimo stoppatore, gesto tecnico che simboleggia le sue qualità difensive in maniera più esplicita e “commerciale”, e la cosa straordinaria è che sarebbe in grado di condurre e concludere la transizione come una guardia, dopo aver inchiodato l’avversario al tabellone, sbriciolandone le certezze.
Non è uno cattivo, AD. Non è uno di quei stoppatori che celebrano la propria giocata o ridicolizzano la vittima. Davis è troppo completo ed esagerato nelle sue competenze tecniche per sottolineare il valore di una singola stoppata. Avrebbe meritato il Defensive Player of the Year la scorsa stagione ma al di là del riconoscimento individuale, AD ha dimostrato di essere un dominatore anche a protezione del ferro. Che fosse un giocatore pazzesco già si sapeva. Avevamo tutti promesso di andare avanti e non tornare sopra l’argomento. Invece siamo ancora qui, otto stagioni dopo, a chiederci la stessa cosa: “Ma quanto c**** è forte?”.
SCHIACCHIATA: Zion Williamson
Non servirebbero nemmeno le parole per raccontare un dunker, uno schiacciatore. Già il vocabolo italiano in sé richiama inevitabilmente un altro sport. Sono le nude immagini ad interpretare nel modo migliore il ruolo di narratore quando il soggetto della storia sono persone a cui è stato concesso il dono di volare. Zion Williamson ha tantissime qualità, molte delle quali ancora inespresse, ma è innegabile attribuire alle schiacciate profuse prima del suo ingresso nella NBA la sua aura di giocatore potenzialmente rivoluzionario.
Con una struttura fisica stranissima per un atleta professionista e un modo di correre strascicato e antiestetico, il talento dei New Orleans Pelicans è uno dei dunker più incredibili che si siano mai visti nella pallacanestro americana. Ce ne sono stati tanti nella storia, molti dei quali ben superiori al nativo di Salisbury, North Carolina, ma non si può che confermare un carattere di unicità a un giocatore con questa potenza nell’aggredire il ferro e questa capacità di saltare molto più in alto del necessario per raggiungere l’obbiettivo. Un po’ “Reign Man”, un po’ “King James”.
CLUTCH: Kawhi Leonard
Riuscire a performare ad altissimo livello nei momenti di maggior pressione rappresenta uno degli achievement più significativi per una superstar NBA. Kawhi Leonard incarna tutte le caratteristiche fondamentali per essere considerato un maestoso e spietato clutch player. Riuscire ad alienarsi mentalmente, eliminando il frastuono dell’arena e le fragilità del proprio io, ed eseguire alla perfezione un movimento offensivo provato e riprovato in allenamento permettono a Kawhi di dominare la sceneggiatura della partita e di prendersi consapevolmente responsabilità che la maggior parte dei giocatori eviterebbero.
Freddo e asettico. Leonard sa controllare il cronometro, è dentro la sua testa, e regolare il proprio battito cardiaco in modo che esso non possa influire sul risultato finale. Sa rallentare quando tutti vengono sopraffatti. Una sola espressione nel viso e un silenzio assordante nel profondo dell’anima.
TIRO DA TRE: Steph Curry
Ridefinire il concetto di “buon tiro”, le distanze e i tempi con cui prenderlo. Steph Curry ha cambiato la pallacanestro e ha tradotto il suo background “Run and Gun” in un rivoluzionario e spettacolare approccio al gioco inventato da James Naismith. Ci sono tanti straordinari tiratori nella NBA contemporanea e ogni stagione ne arrivano di nuovi. Steph, però, rimane la quintessenza in questo fondamentale. La ragione non è esclusivamente tecnica, anche se basterebbe analizzare i numeri per dimostrarlo (no, non lo farò), ma culturale.
Attraverso la sua credibilità, Curry ha dato concretezza ad alcune idee eversive che giacevano da anni nelle menti di molti coach e GM. Ha contaminato le fantasie degli innamorati del gioco, introducendovi la convinzione che una tripla da distanza siderale non solo potesse entrare senza toccare nemmeno il ferro ma anche diventare addirittura funzionale al sistema. I titoli vinti hanno aiutato, certo, ma senza le emozioni irrefrenabili provocate dal suo gioco offensivo non sarebbe stato possibile un cambiamento filosofico di tali proporzioni.
POST: Nikola Jokić
Artisti veri nella pallacanestro NBA ce ne sono pochi. Nikola Jokić è uno di questi. Un tempo ci sarebbe stata una battaglia feroce per aggiudicarsi il trono di miglior attaccante in post della lega. Una soluzione offensiva dalla quale i giovani allenatori della lega si stanno sempre più allontanando. No, non ci sarà alcuno sproloquio nostalgico sul basket dei tempi che furono. Jokić, però, è un giocatore che quei tempi li ricorda. Un lungo che porta avanti il sapere cestistico del suo popolo, dotato di mani delicate che trattano la palla con rispetto e voglia di emozionare.
Il gioco in post del centro dei Denver Nuggets riesce nell’intento di unire tradizione e innovazione, proprio come una raffinata composizione che non esaurisce il proprio significato rimanendo intrappolata in un banale esercizio stilistico. Passaggi che trasudano poesia, ganci e fadeaway. Mani, testa e cuore.
RIMBALZO: Russell Westbrook
Sarebbe stato facile scegliere uno tra i tanti lunghi a disposizione nell’immensità del parco giocatori NBA, così come spulciare il folto gruppo di guardie alle quali viene gentilmente lasciato il compito di catturare rimbalzi solo per iniziare velocemente la transizione. Poi ci sono pure i cultori dello “stat padding” e allora magari qualcuno potrebbe additare la scelta di Russell Westbrook come stupida ed eccessivamente artefatta. Invece, Brodie si differenzia dagli altri per la foga e l’intensità con cui cerca di strappare un rimbalzo dalle mani dell’avversario o, male che vada, di un compagno.
La filosofia o l’istinto, come pare a voi insomma, di andarsi a prendere qualcosa che concettualmente non ci spetta, sovvertendo l’ordine prestabilito, risulta piuttosto affascinante e, per certi versi, gloriosa. Non è facile conseguire quello che ha ottenuto in carriera Russell Westbrook. Fosse stato facile, l’avrebbero fatto in tanti. Volare più in alto di tutti con coraggio, rischiando di sbattere violentemente contro dei corpi marmorei, per impossessarsi della palla e controllare finalmente il proprio destino. Romanticismo ed eroismo.
Q.I. CESTISTICO: LeBron James
Vedere la pallacanestro attraverso gli occhi di LeBron James significa ambire alla più elevata e consapevole comprensione del gioco. “The King” è uno studente perspicace, assetato di conoscenza, che riesce a “sentire” la gara in maniera vivida, individuandone i vari momenti e i significati ad essi collegati. Non è solamente esperienza o intrinseca abilità ma il frutto di una costante ricerca e lavoro su sé stesso.
LeBron James sa incidere enormemente (e in più modi) all’interno di un partita di basket e la sensibilità nell’analizzare il gioco durante l’azione è eccezionale. Il suo Q.I. cestisco, abbinato ad una sublime essenza di giocatore, è il più sviluppato e razionale che possiate trovare in una stella della sua sconfinata grandezza.
LEADERSHIP: Jimmy Butler
Jimmy Butler è il giocatore con più carisma e leadership di tutta la NBA. Una personalità fortissima, intimamente mossa da un’etica del lavoro clamorosa ma, allo stesso tempo, un po’ ingombrante, che non conosce mezze misure quando si tratta di pallacanestro. In campo fa tutto quello di cui c’è bisogno: facilitatore, difensore, go-to guy, allenatore. Tutto. Butler è una risorsa inesauribile di contenuti tecnici e motivazionali, modello da seguire e nemico da combattere. Uno stimolo continuo per i compagni, costretti a misurarsi con lui e con la sua voglia di prendere tutto il mondo a calci in culo.
La caratteristica che più di tutte rende Butler un leader attendibile è il suo essere d’esempio: non chiede mai agli altri di fare cose che lui non farebbe. Indica la strada e fa vedere come raggiungere la meta. Non bisogna deluderlo, però, altrimenti si finisce brutalmente col culo per terra, sotterrato da trash talking e rimostranze semi-criminali. Don’t mess with Jimmy.