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L’evoluzione del ruolo della point-guard

Jacopo Bianchi by Jacopo Bianchi
26 Dicembre, 2020
Reading Time: 9 mins read
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Evoluzione playmaker NBA

Copertina a cura di Nicolò Bedaglia

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In una off season anomala per tempi e modi che prevedeva un draft pieno di incognite e una free agency non particolarmente scintillante, tutti gli occhi erano puntati sul mercato. Il pezzo più pregiato, più ricercato e più chiacchierato era sicuramente Chris Paul, reduce da un’ottima stagione ad OKC. Nonostante i rimanenti 2 anni di contratto, il front office dei Thunder non aveva mai nascosto l’intenzione di massimizzare la quotazione di CP3 per aggiungere il maggior numero di asset possibili alla ricostruzione in atto.

Dopo settimane di rumors provenienti da ogni angolo della Lega, sono bastati pochi minuti dall’apertura del mercato per scoprire che Chris Paul sarebbe finito nel deserto dell’Arizona. L’ufficialità della trade tra Thunder e Suns magari ha deluso le aspettative di molti, ma altrettanti hanno tirato un bel respiro di sollievo. Il playmaker della Carolina del Nord in questa sessione di mercato avrebbe davvero potuto spostare gli equilibri della prossima stagione: proviamo soltanto ad immaginare alcune destinazioni come Bucks, Sixers, Mavs, Nuggets o i campioni in carica dei Lakers.

La scelta di Sam Presti, e dello stesso Paul ovviamente, era talmente importante nell’economia della prossima annata che l’intera Lega si è fermata ad attendere il responso. Caduta la prima tessera, ad effetto domino sono arrivate anche tutte le altre trade e le firme dei free agent. Una vera e propria corsa agli armamenti capitanata dalle contender al titolo, seguite poi a ruota delle squadre a caccia di un posto di rilievo sul palcoscenico dei playoffs. I giudizi ovviamente arriveranno al termine della stagione, ma resta una domanda a cui dare risposta: perché era così alto il peso specifico della destinazione di Chris Paul? 

 

Ultimi baluardi di una dinastia in estinzione

Il valore del giocatore è indiscutibile, ma le statistiche sono più o meno quelle mostrate negli ultimi anni di carriera e le primavere di certo non vanno a ritroso. Cosa ha reso un 35enne, senza anelli alle dita e mai andato oltre una finale di conference, il pezzo cardine del mercato NBA 2020? Nonostante si parli sempre più spesso di un gioco positionless, Chris Paul ha dimostrato nell’ultima stagione quanta differenza possa fare un vero punto di riferimento in cabina di regia. Tesi corroborata anche delle prestazioni di Rajon Rondo ai playoffs dove, con l’aiuto di LeBron James, è riuscito a rendere fattori in una Finals NBA anche giocatori come Caldwell-Pope, Howard, Morris, Kuzma e Caruso. Ma anche questa tipologia di impatto risponde soltanto parzialmente alla domanda.

Per farlo in maniera più completa bisogna considerare attentamente il ruolo ricoperto dai due veterani e ancora di più il loro modo di interpretarlo. Stiamo parlando degli ultimi rappresentanti di una dinastia in via di estinzione che ha radici molto profonde nella storia della NBA. Due playmaker intesi nella più canonica accezione del termine. Estensioni dell’allenatore in campo. Contemporaneamente studiosi e scienziati del gioco. Persone in grado di leggere la difesa avversaria e il momento della gara per chiamare lo schema offensivo più adatto. Comandanti che provano a guidare al meglio le proprie truppe costruendo per i compagni, tentando di mettere ogni singolo giocatore nelle condizioni di rendere al massimo delle proprie potenzialità.

Un ruolo, quello della point guard, che filosoficamente non è mai cambiato dalla prima palla a due ad oggi, ma ha subito un notevole stravolgimento nella forma (soprattutto negli ultimi 20 anni).

 

Il cambio della guard

A partire da Bob Cousy, passando per Oscar Robertson, Nate Archibald, Walt Frazier, Magic Johnson e Isaiah Thomas, arrivando a John Stockton e Gary Payton non è difficile notare una sottile linea rossa di collegamento. I più grandi playmaker di ogni epoca si sono sempre adattati all’evoluzione fisica, tecnica e tattica del gioco, ma senza mai perdere l’anima di un ruolo sacro nella pallacanestro.

Non dimentichiamo però che la NBA è una Lega di mode e se un modello funziona, nel senso che diventa vincente, la maggior parte delle franchigie provano a copiarlo o a crearne una propria versione. I Bulls e i Lakers di Phil Jackson hanno vinto senza un playmaker vero e proprio perché non ne avevano la necessità o lo spazio salariale per procurarsene uno. Addirittura sono stati adattati giocatori al ruolo per particolari scopi difensivi e caratteristiche offensive (Ron Harper, Steve Kerr, Brian Shaw, Derek Fisher).

L’attacco triangolo (triple-post offense) era stato creato ad hoc per sopperire alla mancanza di un grande playmaker e per distribuire la costruzione del gioco, le letture e la creazione dei vantaggi sul maggior numero di elementi possibile. Il gioco di Tex Winter era perfetto per quelle due squadre e per come erano strutturati quei due roster, ma non è mai stato la verità assoluta. Se Chicago avesse avuto John Stockton in cabina di regia e Los Angeles avesse avuto Jason Kidd entrambe avrebbero giocato in modo differente, ma i risultati sarebbero stati pressoché identici (forse anche superiori).

Proprio Jason Kidd è stato il naturale proseguimento di quella sottile linea rossa citata in precedenza. Un giocatore in grado di trascinare dei ‘normali’ New Jersey Nets a due Finals NBA consecutive, di dominare gare di regular season e playoffs senza dare particolare peso ai punti segnati. L’impatto del nativo di San Francisco infatti non passò inosservato nei primi 2000 e proprio per questo i Kings si affidarono a Jason Williams, come i Suns a Steve Nash, i Cavs ad Andre Miller e i Pacers a Jamaal Tinsley.

Ma parallelamente a questa schiera di ‘nuovi playmaker old-school’ cominciò a fare capolino sul palcoscenico anche una nuova versione della point guard. Giocatori con una conformazione fisica e delle caratteristiche tecniche molti simili al più classico dei registi, ma con una differenza sostanziale: l’interpretazione del ruolo. Playmaker che scelsero di abbandonare la filosofia del passing-first per convertirsi a quella dello shooting-first. Sembra un cambiamento minimo, ma la realtà è che rapportato al ruolo del giocatore che ha più spesso la palla in mano durante una partita di pallacanestro fa una differenza enorme.

Giocatori come Stephon Marbury, Steve Francis, Mike Bibby e Baron Davis scelsero di creare prima per se stessi e poi per i compagni, accentrando nelle stesse mani la costruzione e la finalizzazione del gioco. Quasi in completa controtendenza rispetto alla storia del ruolo che ha sempre predicato prima la costruzione del gioco di squadra e poi l’eventuale soluzione personale. Non è un segreto che per creare un vantaggio al proprio attacco un playmaker debba mettere in difficoltà la difesa avversaria, ma i modi per farlo sono innumerevoli.

La versione canonica prevedeva di farlo con la lettura delle scelte difensive avversarie, con il passaggio e la scelta della soluzione più efficace. I due premi di MVP assegnati a Steve Nash nel 2005 e nel 2006 rappresentano proprio l’ultimo grande riconoscimento dell’universo NBA a questa filosofia. Ma anche battere costantemente il proprio avversario dal palleggio è un modo per farlo. Ed è proprio qui che arriva la prima grande rivoluzione del ruolo di point guard nella storia della Lega.

I playmaker di nuova generazione cominciano ad infiammare le arene, a vendere tanti biglietti e tantissime magliette. L’NBA allora comincia a dedicare grande attenzione a questi giocatori che fino a qualche anno prima erano considerati di seconda fascia nel ruolo. Gli addetti ai lavori iniziano ad abbracciare uno stile di gioco molto più vicino a quello della ABA rispetto alla tradizione NBA. Nulla che non si fosse già visto su un campo da basket, ma per la prima volta diventò il principale prodotto da vendere. 

 

Una finestra sul domani

É proprio così che si arrivò in pochi anni alla quasi totale estinzione dei playmaker old-school. Restarono a difendere la stirpe soltanto i nomi citati in precedenza con l’aiuto proprio di Paul e Rondo, draftati rispettivamente nel 2005 e nel 2006. Però in una Lega votata al nuovo e al futuro, dove addirittura qualcuno tenta di forzare i tempi di evoluzione del gioco per provare ad avere un vantaggio sulle concorrenti, è normale che si arrivi all’MVP di Derrick Rose del 2011, per passare poi ai due consecutivi di Steph Curry.

Proprio questa successione Nash-Rose-Curry rappresenta alla perfezione il processo evolutivo del ruolo di point guard, la massima espressione di ogni tipologia di interpretazione. Un play old-school libero di interpretare il 7-second-or-less di D’Antoni, un’ala piccola nel corpo di un playmaker con una rapidità e un atletismo impossibili ad arginare, e uno dei tiratori più puri della storia del gioco prestato alla cabina di regia. Questo processo, durato più di 10 anni, ha portato il solo Curry al titolo NBA dando così il via ad una nuova moda: la ricerca del playmaker realizzatore con grandi capacità balistiche.

È proprio in questa prospettiva che nascono le nuove superstar come Damian Lillard, Jamal Murray, Kemba Walker e D’angelo Russell giusto per citarne alcuni. Esattamente come possiamo riconoscere in John Wall, in Kyrie Irving o in Russell Westbrook la normale prosecuzione della filosofia portata alla ribalta dal Rose MVP. Come sempre però nella storia della NBA non tutti seguono il selciato, alcuni provano a tracciare la propria rotta da soli, magari con la complicità dei talenti che gli capitano più o meno volutamente tra le mani.

Mentre Lonzo Ball al momento sembra essere l’unico giocatore di nuova generazione depositario della filosofia originale, è particolarmente interessante osservare la parabola di Ben Simmons. Il prodotto di LSU ha fatto brillare non pochi occhi nel suo anno da rookie dove ha dato la netta sensazione di poter essere una versione moderna di Magic Johnson. Potevamo assistere ad un’ulteriore evoluzione del ruolo, ma l’affidabilità al tiro da fuori, che Magic non ha avuto la necessità di risolvere completamente nella NBA degli anni ’80, sta rallentando l’ascesa di Simmons.

Per fargli guadagnare tempo è stato spostato anche nel ruolo di ala grande, ma oramai il seme era piantato. Proprio su quest’onda si è giunti all’esperimento Antetokounmpo playmaker, ma soprattutto alla prima stagione della carriera di LeBron James da ball-handler primario. Un ruolo che si è affidato da solo, decidendo con grande intelligenza di passare da prima opzione offensiva a creatore di gioco a 360°. Una scelta voluta e pianificata per poter coesistere al meglio con Anthony Davis, ma soprattutto per continuare a dominare il gioco a 35 anni. Alla fine il giocatore più determinante degli anni 2000 ha avuto ancora una volta ragione e ha messo il titolo numero 4 in bacheca, ma nel frattempo ci ha anche permesso di dare un’occhiata a quello che potrebbe essere il playmaker di domani.

 

Welcome to the future

In un gioco dove il campo continua ad allargarsi sempre di più grazie all’affidabilità dei tiratori anche da distanze siderali, l’atletismo aumenta a dismisura e i cambi sistematici sono la sola ed unica scelta difensiva, la capacità di lettura (delle situazioni, della difesa e dei vantaggi creati) diventa la moneta più preziosa in circolazione. A maggior ragione se teniamo conto che la pallacanestro NBA stia andando probabilmente verso quel modello positionless tanto chiacchierato, con cinque giocatori in campo oltre i 2 metri in grado fare tutto in attacco e cambiare su qualsiasi avversario in difesa.

Questo è il motivo per cui ogni squadra con ambizioni si tiene stretti i propri ‘lettori’, indipendentemente dal ruolo, e prova a costruire il roster tenendo in grande considerazione questo vantaggio. Lo sta facendo Denver con Jokić (centro), lo ha fatto Utah con Ingles (ala piccola), Golden State con Green (ala grande) e lo farà Dallas con Dončić (guardia).

Non possiamo trascurare però una nozione elementare della pallacanestro, che era vera nel 1946 e lo è ancora adesso a 74 anni di distanza, dei 5 giocatori in campo sarà sempre il playmaker ad impostare (direttamente o indirettamente) l’attacco. La qualità delle letture della point guard avrà sempre un peso specifico essenziale sul gioco, al netto di tutti i possibili facilitatori in campo, ed è proprio per questo che Chris Paul è diventato il pezzo più pregiato del mercato 2020.

Difficile sapere come sarà il playmaker del futuro, o meglio quale sarà la filosofia più adatta al gioco che verrà, ma sicuramente quel filo rosso che abbiamo visto scorrere per tutti questi anni proseguirà la sua corsa. Quello della point guard resta il ruolo più sacro e più viscerale della pallacanestro ed è per questo non passerà mai di moda, neanche in NBA. 

Tags: Chris PaulDerrick RoseJason KiddPoint guardRussell Westbrook
Jacopo Bianchi

Jacopo Bianchi

Professional Journalist - Columnist @TheShotIT - Host of "Basket Time" @ https://teletutto.it

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