“Welcome brother, welcome to the family”.
Sei parole, un messaggio spedito via sms la sera del 1 luglio 2018 che segna un passaggio di consegne essenziale nella storia dei Lakers.
Se c’è una città al mondo dove conta solo una cosa, vincere, questa è Los Angeles, dove il concetto è portato all’estremo dal cinema, l’industria pulsante della città che si adagia sotto la collina con la scritta Hollywood. E Hollywood detta le regole, lo stile di vita, i colori e i ritmi di questa metropoli infinita dove il sole che si spegne ogni sera nel Pacifico regala dipinti unici.
Solo un attore vince l’Oscar per aver fatto sognare, nessuno ricorda gli altri candidati. Questo cinismo viene trasportato direttamente dalla settima arte allo sport e trova nelle amate squadre locali dei Lakers e dei Dodgers la perfetta interpretazione. Non basta essere grandi campioni in campo per essere ricordati, ma bisogna sapere vincere e regalare emozioni.
Pochi giocatori sono riusciti ad abbracciare completamente la città e ricevere un affetto popolare senza precedenti: nel baseball Fernando Valenzuela, la prima grande star messicana in una città dove la maggioranza è latina e lo spagnolo è la lingua preferita per le strade, Tommy LaSorda, il coach di origine italiana delle 2 word series, nel basket Magic Johnson, figura eccelsa dello showtime, ma soprattutto Kobe Bryant, in assoluto l’atleta più amato, divinizzato e idolatrato. Ed è proprio dal telefonino di Kobe, che parte il messaggio di benvenuto a LeBron James. Una firma controversa, per tanti tifosi storici ancora difficile da accettare, ma che ha segnato un momento chiave della rinascita dei gialloviola, caduti in anni di errori societari, scelte sbagliate e programmazione deficitaria. Una firma che segnava l’inizio di un nuovo capitolo e la benedizione di Kobe (con la spinta di Pelinka) ne apriva le porte.
Non è stato un cammino facile tornare in vetta, ma il titolo del 2020, in un anno tragico e particolare è solo l’inizio di quella che può essere una nuova dinastia e le recenti firme a lungo termine di LeBron e Anthony Davis indicano esattamente questa direzione.
IL VALORE AGGIUNTO E LA FORZA DI LEBRON SUL MERCATO
Tutto parte e tutto finisce con LeBron, personaggio dominante con profondi interessi fuori dal campo e un impero commerciale in crescita esponenziale che hanno agevolato la scelta Lakers e Los Angeles per chiudere una carriera che lo porterà tra i più grandi di sempre. Dopo tre anni James finalmente ha una corazzata perfetta, costruita abilmente a tavolino negli ultimi due mercati estivi con il braccio destro e socio Rich Paul e l’amichevole partecipazione di Pelinka. Una squadra senza punti deboli, con una rotazione profonda che gli permetterà di giocare anche lontano dalla palla e lasciare alle volte l’onere della fase offensiva ad altri.
Nessuno ai Lakers si era fatto illusioni che la squadra campione ad ottobre potesse ripetersi, e l’approccio alla free agency è stato aggressivo, mirato nel migliorare quei punti deboli mascherati da una grande chimica e una superba organizzazione difensiva. É raro vedere una squadra vincente cambiare così tanto, quasi inusuale, ma in questo caso era una mossa obbligata, tanto che la nuova versione dei gialloviola cancella tutti i punti di domanda che la scorsa stagione aveva trascinato e delinea un progetto ed un’idea di gioco ben precisa.
La presenza di Marc Gasol , forse all’ultima stagione in carriera, porta un lungo dalla grande intelligenza e dalle doti di passaggio uniche, che sarà utilissimo in fase di costruzione e fornirà una valida alternativa a Davis fornendo una doppia dimensione che i vari Howard e McGee non potevano dare. Dennis Schröder è un attaccante capace di crearsi il tiro da solo, con la possibilità di rompere gli schemi e alleggerire la pressione, e rappresenterà in vari minuti della gara una prima opzione offensiva affidabile, quello che è mancato fino a oggi. Wes Matthews è il veterano perfetto da affiancare a James, con un tiro sicuro da fuori e una leadership e una solida presenza difensiva. Il vero colpo, il giocatore che può rappresentare la differenza fra i Lakers e le altre pretendenti, è Montrezl Harrell, arrivato con una mossa a sorpresa di Rich Paul, capace di convincere il miglior sesto uomo della scorsa stagione ad accettare un contratto mediocre pur di giocare per il titolo nella squadra più glamour della lega.
Se le modalità di questa e altre acquisizioni han fatto storcere il naso a tanti e rappresentano un’eccezione nella storia NBA, la sostanza per i Lakers non cambia perché con Harrell trovano un’arma totale dalla panchina capace di cambiare con la sua atipicità ed energia il corso di una partita.
LA FORZA MENTALE DEI CAMPIONI E IL CHEAT CODE
Gary Vitti, storico trainer di otto titoli Lakers, oggi in meritata pensione, ripeteva sempre “Quello che divide un buon giocatore da un grandissimo giocatore è la forza mentale. Ci sono tanti atleti che sono allo stesso eccelso livello dal punto di vista tecnico, ma l’ultimo gradino che solo pochi possono fare dipende dalla testa. Non si diventa Jordan, Kobe, Magic, Kareem o LeBron solo allenandosi o per caso, ma dietro c’è un enorme progetto di crescita fra cui l’accettare i tuoi compagni e migliorarli con il tuo gioco”.
LeBron in questo è arrivato alla sua completa maturazione cestistica, ed è il primo a riconoscere che la vittoria permette al gruppo di fare un grande salto in avanti. Essere campioni in carica eleverà le prestazioni di giocatori come Davis, KCP, Caruso, Morris e (sperano a LA) Kuzma, che beneficeranno di un’altra stagione insieme consapevoli del loro ruolo.
I Lakers hanno rinforzato la panchina, allungato le rotazioni, e restano difficili da marcare e accoppiarsi perché spingono molto in contropiede e in transizione per esaltare il gioco di LeBron, con Schröder e Harrell che si troveranno a meraviglia. In un mondo di analytics, dove si cerca di aprire più spazi possibili per creare tiri di tre piedi per terra, i gialloviola restano, probabilmente, l’unica squadra della lega capace di generare attacco dal post basso ad alto livello con due giocatori, LeBron e Davis, che sono fra i primi 5 in NBA in un’incredibile combinazione di talento e IQ cestistico difficile da ripetere.
La crescita di “The Brow” dal punto di vista caratteriale e tecnico è stata impressionante e il nuovo contratto da uomo franchigia e simbolo servirà come ulteriore stimolo e legittimazione. La possibilità di andare in post contro avversari piccoli o battere dal palleggio avversari lenti lo rende un arma offensiva unica e per di più, dall’infinito bagaglio tecnico, è uscito un tiro da tre affidabile che dagli scorsi playoff entra con continuità. In caso di pericolo poi c’è sempre il “cheat code”, la mossa segreta, che un GM di una squadra NBA incontrato nei corridoi dello Staples mi aveva riassunto perfettamente lo scorso anno, quasi scoraggiato dopo una sconfitta: “Il grande vantaggio dei Lakers, ed il problema per la altre squadre a giocarvi contro è che quando le cose si mettono male, LeBron prende la situazione in mano ed inizia a giocare a…… football. Atleticamente e fisicamente aggredisce la partita facendo sentire il suo corpo, spingendo, andando a cercare lo scontro e il contatto e nessuno riesce ad arginarlo”.
La parola favoriti è d’obbligo e non ripetersi sarebbe visto come un fallimento.
LA STRANA STORIA DEL SIG. VOGEL
Frank Vogel resta la storia più bella dei Lakers che hanno alzato il Larry O’Brien. La meno raccontata perché nel suo fare ha tutto tranne che quello che un allenatore Lakers dovrebbe avere dal punto di vista dell’immagine e del contorno marketing, essenziali in questa organizzazione, e quindi non attrae i riflettori e i titoli dei giornali.
Scelto quasi per caso, non fra i primi 3 nella lista dei candidati per sostituire Walton, e presentato ufficialmente in un giorno di burrasca societaria, è stato sostanzialmente ignorato e messo in disparte in quella che doveva essere la “sua” conferenza stampa. Nella mia personale classifica in vent’anni al seguito resta una delle giornate più surreali, con Pelinka in bilico, attaccato ad arte la mattina su TV nazionale da Magic, l’opinione pubblica contro, e i giornalisti più interessati alle dinamiche societarie che al futuro allenatore. Come se non bastasse, si ritrova Jason Kidd, indicato apertamente come futuro allenatore, imposto nel coaching staff.
L’ex allenatore di Indiana e Orlando non ha mai fatto una piega pubblicamente rifugiandosi sempre nel lavoro in palestra e dispensando parole decise e concetti chiari ogni volta, vivendo il tutto con la forza di chi doveva dimostrare sempre qualcosa. É stato bravo ad entrare immediatamente nella testa dei giocatori, trasmettendo a loro questo (suo) senso d’ urgenza e portando a vivere ogni partita come una battaglia. Vogel allenava per sopravvivere e i giocatori in campo andavano convinti di dover riconquistarsi la fiducia e il rispetto dei tifosi e delle altre squadre. L’inizio di stagione prepotente è stato una logica conseguenza, inclusi il minutaggio (alto) e gli straordinari a cui LeBron e Davis erano chiamati, perché non poteva permettersi passi falsi. La grande capacità difensiva ha fatto il resto riuscendo ad amalgamare subito un gruppo dal talento non eccelso e con molti limiti, ma coeso come raramente accade.
Un anno dopo non essere riuscito a parlare alla sua presentazione, Vogel ha alzato il trofeo di campione NBA allenando in maniera impeccabile tutta la stagione, facendosi apprezzare in un mercato che guardava con diffidenza un allenatore che guida un’auto normale o si presenta davanti ai giornalisti senza il completo di ultimo grido comprato su Rodeo Drive, ma in t shirt e scarpe da ginnastica….l’incarnazione perfetta della solidità, che è sempre stata parte del bagaglio, e lo specchio di una perfetta armonia con società e giocatori. La continuità di una gestione tecnica in un stagione con pochi giorni di training camp e possibilità limitata per squadre nuove (Clippers, Nets fra le contender) di trovare coesione in breve tempo può essere un fattore e un vantaggio notevole.
RICH PAUL MANAGER DELL’ANNO NBA ?
É una provocazione, questo è chiaro, ma per la prima volta nella storia NBA stiamo assistendo ad una squadra che appoggia praticamente tutte le operazioni principali su un agente esterno che ha un controllo quasi generale e rappresenta un canale preferenziale. Pratica ampiamente usata nel calcio europeo, mai da questa parte dell’oceano e motivo di tensioni nei corridoi NBA (agenti, lega, proprietari). Ufficialmente James non ha quote della Klutch Sports, ma il fatto che l’NBA nel 2017 abbia svolto una lunga indagine per capire meglio le dinamiche della società la dice lunga sul livello di tensione che si respira per un possibile conflitto di interessi.
Se LeBron fosse, in sostanza, parte della Klutch Sports, sarebbe l’agente dei vari Davis, KCP, Harrell, Waiters, JR Smith, Horton-Tucker (occhio che è in rampa di lancio), Markieff Morris che hanno vestito o vestono la maglia gialloviola. Finché la formula è vincente nessuno, Pelinka per primo, che ha avuto l’arguzia e l’intelligenza di sapere puntare tutto su questa collaborazione, proverà a cambiarne l’ordine. La redenzione del sesto dei Fab Five di Michigan, il cui destino dopo l’abbandono di Magic sembrava segnato, passa attraverso questa divisione non ufficiale di poteri e questo patto di forza che ha rilanciato una franchigia che sembrava in totale confusione. Rich Paul dal canto suo ad ogni partita è padrone del bordo campo e, cosa unica per un agente, alla fine di ogni gara sosta davanti all’uscita degli spogliatoi Lakers all’interno del tunnel, privilegio in passato riservato solo a Vanessa Bryant.
Difficile pensare questo possa essere un modello ripetibile e mutuato a questo livello, ma la tendenza è lanciata e i Knicks, alla ricerca disperata di creare un sistema vincente, hanno dato direttamente i gradi di GM a uno degli agenti più potenti del circuito (Leon Rose, CAA). Chi ha avuto il coraggio di uscire dagli schemi e trovare il successo avrà un gran numero di imitatori. Rob Pelinka ha vinto la sua sfida, passando e accentando una sfida complicata, trovandosi in mille difficoltà e riuscendone ad uscire nella maniera migliore.
UN TITOLO IN TONO MINORE E LE ASPETTATIVE
Chi vive a Los Angeles da tanti anni conferma che, senza alcun dubbio, questo titolo è passato quasi in sordina in città e sicuramente è stato il meno celebrato e sentito. Tanti fattori hanno inciso a iniziare dal fatto che giocare ad Orlando nella bolla ha creato un distacco naturale con il mercato di apparenza e, in una metropoli come questa, molto particolare, tutto è stato vissuto quasi in forma distaccata. Il non potere andare alla partita, la pesante connotazione politica, gli ascolti mediocri televisivi per un prodotto che in tanti non sentivano vicino in un momento dal punto di vista economico e sanitario di piena emergenza, ha fatto il resto. Senza dimenticare il fattore emotivo della morte di Kobe Bryant, che rappresenta una ferita aperta impossibile da rimarginare, che quasi ha frenato le emozioni e fatto scendere altre lacrime alle dediche di James e Pelinka con il trofeo in mano.
Doveva essere il titolo per Kobe e così è stato, non poteva esserci conclusione migliore.
Oggi i Lakers hanno tutte le carte in regola per riconfermarsi e partono come i naturali favoriti. L’approccio alla regular season sarà meno esasperato, facile attendersi una partenza più tranquilla e anche LeBron ha lasciato capire che doserà le sue forze, ma tutti conoscono la via del successo. Se è vero che ripetersi è più difficile e anche vero che ripercorrere un percorso già fatto non riserva sorprese. Il sogno di ogni tifoso è riassunto in un modo di dire che gli americani usano nello sport, ma la cui origine risale negli anni ’30 a livello commerciale…..”back to back”
Grande Zeno ,prezioso il tuo contributo come sempre e un grazie in particolare alla redazione per metterci a disposizione questo dream team di giornalisti e appassionati della nostra amata NBA…