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New York ai tempi della pandemia: l’anno buono è sempre il prossimo. A meno che…

Jacopo Bianchi by Jacopo Bianchi
6 Dicembre, 2020
Reading Time: 12 mins read
0
New York in pandemia

Copertina a cura di Matia "Di Ui" Di Vito - Photo Credits: Martina Guandalini (temponews.it), Clarence Davis (Getty Images)

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In una New York da pellicola post apocalittica, che sta affrontando proprio in questo momento l’inizio della seconda ondata di contagi, dopo essersi sbarazzati delle elezioni, l’unico argomento che tiene banco è la off-season NBA. La città che non dorme mai in questo 2020 si è trasformata in un luogo dove la maggior parte della popolazione benestante vive rinchiusa in fortezze di cristallo da 50 piani con palestra, centro benessere e lavanderia, mentre i lavoratori medi continuano a spostarsi da quartieri sempre più distanti dall’epicentro cittadino soltanto per mettere hamburger e patatine in tavola.

Questo succede perché una persona su dieci di quelle che risiedono sull’isola di Manhattan è milionaria, mentre soltanto una persona su dieci di quelle che vivono oltre il capolinea della metropolitana raggiunge la soglia del salario minimo per l’area di NY. Tutto questo estremizzato negli ultimi 10 mesi da una pandemia che in America ha un peso specifico nettamente superiore ad altre parti del Mondo considerando la quasi totale assenza del sistema sanitario pubblico e i costi di quello privato.

Nonostante questo assurdo scenario che dà materiale al New York Times per riempiere ogni giorno la metropolitan section, sui social sulla metro e agli angoli delle strade non si parla di altro che di New York Knicks e Brooklyn Nets. Perché è vero che il Dr. Naismith ha dato inizio a tutto in Massachusetts, ed è certificato che l’Indiana è lo stato della pallacanestro come la Carolina del Nord è quello del college basketball, ma non c’è alcun dubbio che New York sia stata, è e sarà probabilmente per sempre ‘The Basketball City’. Proprio qui dove è nata veramente la pallacanestro che conosciamo (tra un casinò e una sala da ballo riadattata di Harlem) hanno dovuto smontare o sigillare i canestri degli oltre 600 playground presenti per limitare la diffusione di un virus che stava accumulando tonnellate di corpi in fosse comuni. La stampa non vedeva l’ora di poter scrivere di altro, i dieci milioni di abitanti dei Five Boroughs erano ansiosi di riabbracciare il basket al suo massimo livello. Una versione autoindotta di quei panem et circenses tornati di grande attualità ad oltre 2000 anni di distanza.

 

The Talk of The City

Dall’annuncio delle date di draft, free agency e opening night le febbricitanti suggestioni di mercato legate a Knicks e Nets hanno cominciato ad inseguirsi come scoiattoli (i veri padroni di Central Park). Si è partiti da Chris Paul, poi finito ai Suns, passando per Harden e Beal, ancora fermi nelle rispettive franchigie, fino ad arrivare a Westbrook.

Attorno ai Nets, ora in mano a Irving e Durant, non c’era questo hype dall’arrivo della triade Pierce-Garnett-Johnson e ai Knicks non c’era questo numero di scelte e spazio salariale da quasi vent’anni. Le premesse per riaccendere il fuoco di una città che non vede una finale NBA dal 2003 (persa 4-2 dai Nets contro gli Spurs) e un titolo addirittura dal lontano 1973 (Knicks 4-1 sui Lakers) erano perfettamente apparecchiate. Eppure, parafrasando uno dei più grandi narratori della città, anche questa volta qualcosa è andato talmente bene che è andato storto.

Al netto di mosse dell’ultimo minuto nessuna delle due squadre che rappresentano ‘The Basketball City’ può neanche lontanamente considerarsi una contender. La verità è che nessuna delle due in questo momento può certificare un posto di rilievo ai playoffs, nonostante la non particolarmente affollata situazione della Eastern Conference. Il talento a disposizione dei Nets li pone sicuramente in vantaggio sui Knicks nell’immediato presente, ma gli toglie anche una grossa fetta di futuro se la tanto amata strategia del win-now non dovesse funzionare.

 

Nets a rischio déjà vu

Per comprendere appieno come Brooklyn sia arrivata nel 2019 ad affidare le chiavi della franchigia a Kyrie Irving e Kevin Durant in una free agency epocale per la rivalità di New York bisogna fare qualche passo indietro.

NY ha sempre avuto due squadre di pallacanestro soltanto che fino al celeberrimo merger del 1976 disputavano due campionati diversi, in due leghe diverse. I New Jersey Americans nati nel 1967 per la ABA avevano subito trovato casa, vittorie e tifosi a Long Island diventando i New York Nets soprattutto grazie a Julius Erving. Il sopracitato accordo tra le due leghe li costrinse a privarsi di Doctor J per sopravvivere e a ritornare nella terra di nessuno, nel New Jersey, ad oltre 100 km dai propri fan. Dovettero ricominciare da capo all’ombra degli storici cugini blu-arancio che intanto avevano preso possesso dell’intera città fin dal 1946.

Il primo lampo di luce arrivò negli anni ’80 con ‘Sugar’ Ray Richardson (mai soprannome fu più profetico) e Darryl Dawkins. Persi entrambi rapidamente: il primo cacciato a vita dalla NBA per abuso di stupefacenti (venne poi a dominare in Italia), il secondo per una serie di curiosi infortuni. All’inizio degli anni ’90 arrivò un altro timido bagliore con Derrick Coleman, chiamato alla numero uno assoluta del draft 1990, Kenny Anderson, ottimo playmaker nato e cresciuto nel Queens, e Dražen Petrović, il Mozart dei canestri. Guidati dal leggendario Chuck Daly sfiorarono le vette della Eastern Conference prima della drammatica scomparsa del croato che condizionò ad effetto domino l’intero progetto.

Nel frattempo però, nonostante l’egemonia dei Knicks, i Nets cominciarono a ritagliarsi una propria fetta di pubblico. Che crebbe ancor di più a cavallo dei due millenni con il miglior biennio della carriera di Stephon Marbury e con la sinfonia del ‘Flying Circus’ diretta da Jason Kidd che giunse fino a 2 Finals consecutive. I Nets ricostruirono nuovamente un’identità, una casa e un pubblico. Ma il mercato del New Jersey era troppo stretto per gli standard NBA in una metropoli come New York, si mise anche la politica di mezzo e la riqualificazione del burough più popoloso della città.

Nel 2012, con l’aiuto populista di Jay-Z, la franchigia venne spostata nuovamente dalla parte opposta di Manhattan. Grazie anche alla riqualificazione di Atlantic Avenue, dettata dalla costruzione dell’avveniristico Barclays Center, e alla sempre più impellente assenza di spazio sull’isola di Manhattan, ora Brooklyn è la nuova Manhattan. I quartieri una volta dominati da gang, artisti, musicisti, spacciatori e prostitute ora sono appannaggio degli hypster, dei radical chic e dei nuovi ricchi. Utilizzando maxi-trade e contratti milionari i Nets hanno provato a bruciare le tappe per costruire una nuova cultura e nuova una fan-base. Ma la gente di Brooklyn non ci è cascata, quelli di Bed-Stuy non ci sono cascati, quelli di Coney Island non ci sono cascati, anche quelli di Brownsville non ci sono cascati.

Nonostante la città di New York ci stia provando da almeno tre decenni, i soldi non comprano l’anima di un quartiere. Scelta pagata a carissimo prezzo della franchigia trasformatasi in bianco-nera. Infatti l’unica versione dei Brooklyn Nets davvero riconosciuta del proprio pubblico è stata quella di Kenny Atkinson che senza grandi aspettative è arrivata lottando e divertendo fino al ritorno ai playoffs nel 2019. Ma anche questo non è bastato a chi risiede senza particolari meriti nella stanza dei bottoni che ha colto al balzo l’occasione di premere nuovamente il tasto RESET e bruciare tutto quello che era stato faticosamente costruito per firmare un infortunato Kevin Durant e un capriccioso Kyrie Irving (che non parlerà con i media per l’intera stagione 20-21).

 

La caduta degli Dei

I New York Knicks invece, uno dei pilastri della NBA fin dalla prima palla a due, non hanno mai avuto problemi di collocazione o di fidelizzazione dei tifosi. Anzi hanno sempre avuto, e continuano ad avere, il problema contrario: gestire al meglio l’arma a doppio taglio dei tifosi più appassionati ed agguerriti dell’intera Lega. Gli arancio-blu infatti necessitano di molta meno dietrologia per comprendere come si è arrivati a questa off-season e alle scelte fatte. Basta tenere bene a mente cosa sono stati i Knickerbocker fino al 1999, cosa hanno rappresentato per la cultura, per la Lega, per la città e per i proprio tifosi. E cosa sono diventati dall’inizio del nuovo millennio che coincide quasi perfettamente con il passaggio della franchigia nelle mani di James Dolan.

Sono bastati meno dei vent’anni al front man dei JD & the Straight shot (band country-blues di cui l’imprenditore è fondatore, cantante e chitarrista) per rendere i Knicks lo zimbello della Lega. I primi anni di gestione Dolan sono filati via lisci sulla scia dell’ottimo decennio precedente vissuto da protagonisti, con addirittura due Finals disputate (1994 e 1999 entrambe perse). I problemi hanno cominciato ad affiorare proprio con la fine di quello che possiamo definire ciclo Patrick Ewing: prima scelta assoluta del draft 1985 e condottiero dei newyorkesi fino al 2000. Dolan con le dimissioni di Van Gundy, la trade di Ewing, gli infortuni di Houston e la cessione di Sprewell avrebbe potuto, e dovuto, avviare una ricostruzione. Ma a New York non si ricostruisce. Non l’ha mai fatto nessuno prima. C’è troppa pressione di media e tifosi per predicare pazienza. Allora cosa c’è di meglio che affidare la franchigia più ricca della Lega prima a Donnie Walsh e poi addirittura a Isiah Thomas. Annate talmente disastrose dal punto di vista dei risultati e della gestione da poter essere tranquillamente aggiunte ad una delle raccolte di Edgar Allan Poe

La drammatica situazione sportiva rischiava di minare le casse di Dolan che allora si convinse a percorrere la strada della moderata ricostruzione, prima di cambiare nuovamente idea con l’affrettata trade per Carmelo Anthony. Nonostante qualche annata da sufficienza risicata e la miglior stagione del ventennio (2012-13 regular season da 54-28 e semifinale della Eastern) la situazione generale rimase drammatica. Mentre Dolan tentava l’ennesimo folle volo pindarico, sotto forma di Phil Jackson, i tifosi hanno cominciato a chiedere a gran voce la cessione della proprietà della franchigia. Dimenticando però quanto possa risultare complesso far scendere ‘un bambino viziato’ dal suo cavallo a dondolo dorato preferito (stabilmente secondo Forbes la franchigia di maggior valore dell’intera NBA oggi a quota 4.6 miliardi di dollari). Il proprietario allora, per rimanere in sella, tenendo bene a mente anche le indicazioni dal Commissioner, ha accettato una ricostruzione a tabula rasa in stile philadelphiano (gli anni del controverso genio di Sam Hinkie). Anche in questo caso, nonostante si potesse considerare corretta la filosofia alla base, la fortuna non ha particolarmente aiutato e non l’ha fatto nemmeno l’aurea distruttiva creatasi in questi anni attorno ai Knicks. Free agency complesse (snobbati dai big e considerati dagli altri giocatori solo a fronte di contratti economicamente scomodi), draft gestiti in modo superficiale, sviluppo e valorizzazione del proprio young core inesistente. Insomma il contrario esatto di quello che servirebbe per stare al passo con la NBA del ventunesimo secolo.

 

L’anno buono è sempre il prossimo

Per festeggiare questi 20 anni di clamorosi fallimenti cestistici della città di New York, le due rappresentanti hanno deciso di invertirsi i ruoli: ora Brooklyn è la squadra che punta tutto sul win-now senza considerare le conseguenze di un eventuale fallimento e i Knicks sono quella che prova a ricostruire nell’ombra (restando però in balia del ciclone Dolan). Le due rivali hanno fatto scelte contrapposte in ogni singola categoria. Da una parte il front office è stato sostanzialmente confermato dopo il discreto lavoro svolto negli ultimi anni, dall’altra è stato completamente rivoluzionato.

I Knicks hanno deciso di seguire la moda del momento affidando il ruolo di President of Basketball Operations ad un ex agente che sia in grado di muoversi nel torbido sottobosco del vero mercato NBA. Al timone Leon Rose, un colosso tra gli agenti sportivi, con ancora qualche piccola connessione con la sua ex-agenzia (CAA). La prima casella da riempiere, per entrambi i front office, era quella dello staff tecnico. Anche qui due decisioni diametralmente opposte: Brooklyn abbandona il tanto apprezzato dai giovani a roster (un po’ meno da Irving e Durant) Kenny Atkinson per affidare la panchina all’esordiente Steve Nash. A dare una mano al due volte MVP ci sarà Mike D’Antoni (epurato dopo il quadriennale fallimento Rockets), Ime Udoka (in arrivo dai Sixers) e Amar’e Stoudemire (il grande ex di rientro dall’avventura israeliana). Dall’altro lato dell’Hudson invece, dopo settimane di interminabili colloqui, la scelta è ricaduta su Tom Thibodeau. Un coach difensivista con una filosofia di gioco molto lontana dai canoni moderni e soprattutto una modalità di approccio ai giocatori davvero distante dal player-friendly in voga al momento. Per provare a colmare le lacune di Thibodeau, ampiamente mostrate nel triennio ai Wolves, New York ha speso tutti i dollari possibili aggiungendo allo staff Kenny Payne (vice più pagato della Lega), Mike Woodson (coach del piccolo lampo di luce 12-13), Johnnie Bryant (prelevato dai Jazz) e altri 6 assistenti.

Il secondo step era il Draft, il più enigmatico di sempre. NCAA e maggioranza dei campionati interrotti a febbraio, workout dal vivo limitati, colloqui via Skype, draft combine a distanza. Ma anche molto più tempo del solito per analizzare i prospetti e preparare strategie per la notte del ‘Ballo dei debuttanti’. Brooklyn non aveva alcun interesse ad aggiungere giovani talenti a roster per cui ha utilizzato le due scelte a disposizione (19 e 55) per imbastire uno scambio a tre con Clippers e Pistons. Arrivano in bianco-nero per rimpinguare il reparto esterni Landry Shamet e Bruce Brown. New York invece dopo aver lavorato di cesello è riuscita a prendere alla ottava scelta assoluta Obi Toppin, il giocatore che Rose voleva a tutti i costi (fresco cliente della CAA).

Nel frattempo continua ad allargarsi la colonia di John Calipari tra le mura del Madison Square Garden con la guardia Immanuel Quickley chiamata alla 25, mentre Perry prova a scovare una perla nascosta firmando l’undrafted Myles Powell. Il piatto forte però era mercato/free agency dove NY ha voluto a tutti i costi mantenere la flessibilità salariale, mentre i Nets hanno avviato una spasmodica ricerca del terzo big da affiancare a Irving e Durant. Non volendo puntare sulla soluzione interna Caris LeVert, in costante crescita nei primi 4 anni di NBA, si è passati prima dalla suggestione Bradley Beal per poi arrivare addirittura ad ipotizzare una fantascientifica trade per James Harden. Al momento nulla di fatto, ma sicuramente Brooklyn continuerà a provarci almeno fino alla pausa per l’All Star Game (tecnicamente rimandato). Intanto, con un quadriennale da 75M, sono riusciti a trattenere Joe Harris e, con cifre molto più contenute, anche Tyler Johnson. Senza trascurare l’aggiunta di un veterano come Jeff Green per provare a dare un minimo di equilibrio alla second-unit.

New York invece non è riuscita ad eseguire il Piano A, che prevedeva di andare a prendere prima Chris Paul e poi Carmelo Anthony, per cui ha provato a ripiegare su vari Piani B e C che alla fine sono stati tutti rifiutati o accantonati. Il risultato è stato un taglio netto con la scorsa stagione: è stato rinnovato il solo Reggie Bullock (esercitata la team option), lasciando andare Portis, Ellington, Dotson, Harkless e Gibson. Con contratto annuale sono stati firmati Alec Burks, in arrivo da una buona esperienza ai Warriors, Michael Kidd-Gilchrist, seconda scelta assoluta del draft 2012 da Kentucky, e Nerlens Noel, un altro ex Wildcats da Lottery ancora alla ricerca del suo posto nella Lega. Per rinforzare il reparto esterni può essere considerata una aggiunta di rilievo quella di Austin Rivers (triennale con il solo primo anno garantito), un po’ meno quella a sorpresa della ri-firma di Elfrid Payton, anche se con un annuale da 5M (altro cliente CAA). Ora resta solo da certificare quale sarà la linea scelta da Rose e Thibodeau perché la squadra difficilmente potrà competere per un posto ai playoffs.

Tra meno di una settimana, in pre-season, capiremo se i Knicks utilizzeranno questa stagione per valutare, sviluppare e valorizzare l’interessante young core a disposizione o se si tornerà a vedere dei “mercenari’ gestire la maggior parte dei possessi. In attesa di conferme l’idea sembra proprio quella di affidarsi ai vari Barrett, Toppin, Robinson, Ntilikina, Knox, Quickley e Powell, coadiuvati dai veterani, per passare finalmente all’anno 1 della ricostruzione dopo aver visto una serie reiterata di anni zero. Un sorprendete passo verso la normalità per i mai banali New York Knicks. Dalle parti di Atlantic Avenue invece, dopo oltre un anno di attesa, si potranno finalmente ammirare due dei migliori giocatori del mondo condividere il parquet. Resta da monitorare la questione fisica visto che Durant rientra dal un grave infortunio al tendine d’Achille che lo ha tenuto lontano dai campi per 18 mesi, mentre Irving ha disputato solo 20 gare la scorsa stagione prima di fermarsi ai box per un problema alla spalla destra che lo ha escluso anche dalla bolla di Orlando.

Brooklyn è sicuramente una squadra con un notevole talento a disposizione, ma con una chimica tutta da costruire e un gioco ancora da immaginare. Toccherà all’esordiente Nash e al suo staff trovare il modo di far convivere le due superstar con il resto del roster senza magari rinunciare allo sviluppo di giocatori come LeVert e Allen. La vetta dell’Est al momento è più distante di quello che potrebbe sembrare, a maggior ragione se pensiamo con largo anticipo in ottica playoff, ma non è detto che i Nets non si giochino il tutto per tutto prima della deadline di marzo. Insomma neanche questo sarà l’anno buono per la città di New York, soprattutto se ragioniamo in termini di risultati, ma questo non vuol dire che non possa essere l’inizio di qualcosa di veramente intrigante. Si parlerà e scriverà tanto come al solito, anzi forse molto più del solito perché effettivamente qualcosa di concreto c’è, sia su una sponda che sull’altra dell’Hudson. I Nets hanno il dovere assoluto di provare a costruire quantomeno una contender attorno a Durant e Irving nell’immediato futuro, mentre i Knicks hanno la necessità di preservare quel poco che è rimasto e riaccendere una cultura cestisticamente ancestrale che sta rischiando di scomparire come lacrime in un giorno di pioggia.

Tags: Brooklyn NetsNew YorkNew York Knicks
Jacopo Bianchi

Jacopo Bianchi

Professional Journalist - Columnist @TheShotIT - Host of "Basket Time" @ https://teletutto.it

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