Quella che vedrà la luce il 22 dicembre sarà la settantacinquesima stagione NBA. Cifra tonda, tre quarti di secolo, ricorrenza che un commissioner come David Stern avrebbe di sicuro colto al volo per una riunione delle figure più eminenti della storia della palla a spicchi, come peraltro fece per il cinquantesimo anniversario della lega. L’avrebbe fatto a maggior ragione per tentare di risollevare le sorti economiche di una NBA provata dall’emergenza pandemica e dalle rappresaglie cinesi a seguito della presa di posizione di Daryl Morey, allora GM degli Houston Rockets, sul caso Hong Kong.
Sì, perché la stagione che sta per cominciare sarà anche una tra le più complicate di sempre dal punto di vista organizzativo ed economico: chi pensa che Silver e la lega abbiano già superato l’ostacolo maggiore col successo della bolla (innegabile quantomeno in termini di qualità del gioco e di aver portato la nave sana e salva in porto, discutibile dal punto di vista degli ascolti), si sbaglia di grosso. L’NBA si troverà ad affrontare né più né meno le stesse difficoltà che tutte le altre leghe professionistiche stanno incontrando, in un campo minato pieno di defezioni per tamponi positivi e di arene a mezzo servizio, entrambi fattori che rischiano di creare un distacco ancora maggiore tra gioco e tifosi, che nel linguaggio della lega si traduce in “meno entrate”.
Più potere ai giocatori
Che i rapporti di forza all’interno della lega siano cambiati, e che la bilancia penda ora più in favore dei giocatori di quanto non facesse vent’anni fa, lo si capisce anche da come l’urto dato dalle ripercussioni economiche verrà distribuito tra le parti in causa, chiamate ad uno sforzo comune al fine di attutire l’impatto: un vero e proprio tour de force per i giocatori, chiamati a 72 partite in 146 giorni (forse addirittura più provanti delle 50 partite in 90 giorni della stagione del lockout, anno 1998/99), e meno introiti per i proprietari, che però non possono avanzare certo pretese economiche a fronte di un valore delle proprie franchigie cresciuto a dismisura negli ultimi anni e di una lega che è ormai saldamente nelle mani di chi tale ricchezza la genera, e cioè i giocatori stessi.
Le recenti contrattazioni, sia per allestire la bolla, che per pianificare una strategia comune a tutti i giocatori su temi sociali e razziali e per trovare un accordo sulla stagione 2020/21, hanno rimarcato per l’ennesima volta quali siano i rapporti di forza all’interno dello stesso sindacato giocatori. Quali siano le voci che vengono ascoltate più degli altri, quali figure siano in grado di indirizzare il timone della lega nei frangenti più delicati, quali stelle brillino ancora più forte di quanto non facciano le altre, peraltro già luminose, che rischiarano le notti americane. La chiamata che ha approvato in maniera ufficiosa la ripresa dei giochi vedeva in prima linea LeBron James, Stephen Curry, Kevin Durant (peraltro infortunato ed impossibilitato a partecipare alla bolla, dimostrazione di quanto i rapporti di forza che contino siano anche e soprattutto quelli al di fuori del parquet), Damian Lillard, Giannis Antetokounmpo e Russell Westbrook, oltre che al Deus Ex Machina Chris Paul, organizzatore della riunione. Sono proprio stati i due decani, CP3 e LeBron, le due voci più influenti in questi mesi, i due a fare il bello e il cattivo tempo, pilastri della vecchia guardia sia in campo che fuori.
L’esperienza al comando
Non è un caso che questa gerarchia generazionale si rispecchi anche nei rapporti di forza in campo: i “generalissimi” James e Paul, rispettivamente alla diciottesima e sedicesima stagione in carriera, non sono per nulla intenzionati a cedere il passo a chi viene dopo, ancora intenti a scrivere la propria storia, a rafforzare la propria legacy. James alla caccia del quinto anello, con ormai Michael Jordan come unico metro di paragone per i suoi sforzi erculei, concentrato sull’obiettivo di una riconferma che, superteam o presunti tali a parte (leggasi Heat dei Big3 o Warriors degli Hampton Five), sfugge a tutti dai tempi dei Lakers di Kobe e Gasol. Paul a livelli ancora troppo alti per unirsi ad una superstella alla disperata ricerca di un anello che sancirebbe formalmente il suo ingresso nel gotha delle Point Guard più forti di sempre (club a cui peraltro dovrebbe appartenere di diritto), e pertanto deciso a fare le cose alla sua maniera, ora fiancheggiato da una superstella in rampa di lancio in Devin Booker al caldo sole dell’Arizona.
Dietro di loro, una serie di protagonisti che per diverse volte hanno dato l’impressione di poter detronizzare il Re, di avere la forza necessaria per essere incoronati miglior giocatore della lega, senza però mai riuscire a raggiungere e rimanere stabilmente negli anni alle vette di eccellenza sempiterna a cui LeBron ci ha colpevolmente abituati. C’è Curry, quest’anno chiamato ad uno sforzo sovrumano nel tentativo di portare i suoi Warriors non dico sui palcoscenici delle Finals calcati ripetutamente negli ultimi anni, ma anche soltanto a dei Play-Off il cui accesso sembra essere complicato come non mai nell’Ovest più competitivo di sempre. Dovrà dimostrare di poter caricarsi sulle spalle una squadra senza il suo Robin Klay Thompson, fermato da un infortunio al Tendine d’Achille, smentendo tutti i detrattori che lo vogliono più giocatore da sistema che giocatore che crea il sistema. C’è Durant, alla continua ricerca dell’approvazione popolare, dello stemma di Miglior Giocatore del Pianeta, deluso dal fatto che questo non sia stata naturale conseguenza di due MVP delle Finals, stimolo che l’ha probabilmente portato a forzare la mano nel rientro alle lontane Finals 2019 e all’infortunio che lo tiene lontano dai campi da allora. Ora ha nuovamente una sua squadra, in un mercato con un’eco enorme se paragonata a quella di Oklahoma, con al suo fianco lo scudiero con cui ha architettato questa fase della propria carriera. Probabilmente ne vorrebbe avere un terzo, quell’Harden che negli ultimi anni ha cambiato superstelle al proprio fianco come se fossero calzini, ormai apparente prigioniero della situazione da lui stesso forgiata in quel di Houston. C’è Kawhi Leonard, essere impenetrabile che aveva dato l’impressione di poter sottrarre lo scettro a LeBron dopo l’impresa canadese, miracolosamente lasciato incolume da tutte le critiche piovute sulla franchigia Clippers dopo l’incredibile debacle di Orlando. Tornerà con ancora più voglia di quanta non ne avesse la passata stagione, aiutato da un Front Office che pare aver imparato la lezione che i giocatori non sono pedine con determinate caratteristiche tecniche da ottimizzare nel loro insieme, ma esseri umani le cui dinamiche sociali nello spogliatoio sono ancora più importanti che quelle sul campo.
Giovani aspiranti al trono
C’è poi quella generazione di giocatori i cui rappresentati principali sono ormai superstelle di fatto, ma che devono ancora dimostrare di poter camminare sui sentieri più impervi da soli. Anthony Davis non sembra essere intenzionato a farlo nell’immediato, incline come pare a rimanere a Los Angeles all’ombra del Re, di cui si è scoperto complemento perfetto. Rimane da vedere se la sua fame rimarrà la stessa anche dopo l’agognato anello, tratto che distingue i migliori del gioco da quelli destinati a rimanere un gradino sotto i migliori della classe.
Sulla fame di Giannis Antetokounmpo, invece, nessuno ha dubbi: l’imminente Free Agency del greco (estate 2021) sarà il tormentone mediatico che ci accompagnerà per tutta la stagione, ma tutto lascia intendere che lui sia concentrato unicamente a crearsi la sua reggia nel Wisconsin, precisamente a Milwaukee. Il doppio titolo di MVP e Miglior Difensore dell’anno, vinto solo da Hakeem e Jordan prima di lui, non è bastato a fugare le incertezze sul fatto che il suo gioco sia effettivamente adatto alla parte dell’anno in cui la palla scotta di più: i prossimi sette mesi ci diranno se Giannis può essere un capo tribù, uno capace di trasformare in immediata contender qualsiasi franchigia fortunata a sufficienza ad averlo tra le proprie fila, o se rimarrà qualcuno che necessita di una stella brillante al pari della sua a fianco.
A bussare alle porte dello status più bramato di tutta la lega ci sono poi i nuovi multimilionari, freschi di firma sul loro primo Max Contract: Jayson Tatum, Donovan Mitchell, De’Aaron Fox e Bam Adebayo paiono intenzionati a cementare la propria reputazione come aspiranti ad un All-NBA Team e pietre angolari delle rispettive franchigie. Com’è naturale che sia, le aspettative maggiori ricadono sul prodotto di Duke, già protagonista di due Finali di Conference con i suoi Boston Celtics nei suoi primi tre anni di carriera: i miglioramenti fatti vedere su entrambi i lati del campo al primo anno senza la figura ingombrante (e limitante) di Kyrie Irving fanno aumentare la salivazione dei tifosi Celtics, mentre i suoi movimenti sinuosi, figli di un talento cristallino oltre che di infinite ripetizioni, rappresentano esattamente il prodotto che l’appassionato NBA vuole vedere.
Per concludere, ci sono due figure che figuratamente hanno ancora i denti da latte, ma sulle quali le aspettative sono altissime: potranno Luka Dončić e Zion Williamson ricreare una rivalità a distanza come quella che si respirava ai tempi di Magic e Bird? Potranno essere rappresentanti primari di due stili di basket diametralmente opposti, uno basato sulla tecnica, sulla furbizia, su colpi da maestro, l’altro invece caratterizzato da forza pura ed esplosività senza precedenti? Luka ha fugato molti dei dubbi legati alla bontà del suo stile di gioco nella scorsa stagione, finendo quarto nella corsa all’MVP e mettendo a dura prova i Clippers di Kawhi ai play-off (conquistandosi anche un rarissimo doppio BANG dal famoso commentatore Mike Breen).
Sembra solo questione di tempo prima che lo sloveno si prenda la lega tra le mani, forse vero erede designato al ruolo di LeBron quando il talento da Akron deciderà di ritirarsi. Resta solo da capire chi sarà a fargli compagnia nei suoi prossimi anni della lega, se al suo fianco ci sarà quel Porzingis fortemente limitato dagli infortuni o qualche altra stella. Zion invece è ancora circondato da un alone di mistero, dato che non sono di certo bastate 24 partite stagionali a placare le voci che lo vogliono sovrappeso, sebbene in queste apparizioni il talento classe 2000 abbia fatto intravedere lampi di classe che solo i grandissimi del gioco hanno nell’arsenale. Riuscirà ad essere la superstella di una franchigia che annovera tra le sue fila un altro neo Paperone in Brandon Ingram? Saranno sufficienti i due per trascinare New Orleans ai Play-Off?
Una lega variegata
Mai come negli ultimi vent’anni il basket ha vissuto un’evoluzione continua, figlia di nuove regole volte all’ottenimento di un gioco più spettacolare (e quindi migliore dal lato marketing) ed avanzamenti tecnologici e statistici impensabili alla fine del secolo scorso. Siamo di fronte ad un mix di vecchia scuola e futuro, che si rispecchia sia nella varietà dei personaggi citati che nell’eterogeneità degli stili di gioco delle diverse squadre: la lezione della bolla è stata che ci sono diversi modi per raggiungere l’eccellenza. Si può fare con un’ottima organizzazione difensiva abbinata al miglior talento offensivo che ci sia seguendo il modello Lakers, oppure con un complesso sistema di movimenti lontano dalla palla orchestrato da più mani in grado di trattarla e smistarla propriamente da buona tradizione Heat. Si può provare ad arrivarci ottimizzando la posizione da cui vengono presi i tiri come hanno fatto i Rockets, oppure fondare il proprio gioco su un lungo dal dubbio atletismo ma dalle mani più educate che si possano immaginare come Jokić. Si può tentare la via dell’intelligenza tattica e del trasformismo difensivo perseguita dai Raptors di Nick Nurse, oppure ancora creare uno schema di gioco volto ad ottimizzare le capacità fisiche più incredibili che si siano mai viste su un campo da basket come hanno fatto i Bucks.
Per farla breve: la lega non è mai stata così ricca di talento così diverso nelle sue forme, non è mai stata così piena di sfaccettature tattiche, non ha mai avuto così tanti filoni narrativi. L’appassionato NBA può sedersi in poltrona e godersi lo spettacolo più bello del mondo, con la consapevolezza di stare assistendo da contemporanei ad un’era aurea della lega.
Dettagliatissima analisi. Molti nostalgici non si rendono conto (a causa della stessa ripetitiva dialettica riguardo il tiro da tre) di quanto l’NBA sia e sarà variegata.
E’ innegabile quanto questa Lega sia ormai piena zeppa di talenti, oltretutto molto diversi tra di loro.
Personalmente, giudicando solo ed esclusivamente il basket giocato, rimango ancora parecchio nostalgico quando penso a come si giocava a metà anni 2000, che sono quelli che posso permettermi di “giudicare” meglio.
Spero che, col passare del tempo, si possa trovare un giusto compromesso, esempio su tutti gli Heat di quest’anno.
Tanta roba questa analisi, molta carne al fuoco.