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Amarcord Phoenix Suns

Leonardo Pedersoli by Leonardo Pedersoli
30 Novembre, 2020
Reading Time: 13 mins read
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Amarcord Suns

Copertina a cura di Nicolò Bedaglia

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Con l’assunzione di Mike D’Antoni come assistente allenatore, i Brooklyn Nets hanno riunito, dopo quasi 15 anni, una delle coppie giocatore-allenatore più iconiche della storia dalla pallacanestro.

Se a questi due aggiungiamo la precedente firma di Amar’e Stoudemire, abbiamo il quadro completo di quella che non può che essere una bellissima ed affascinante riunione di famiglia; un ritratto, un’istantanea post-mortem di una delle compagini più affascinanti, amate e rivoluzionarie della storia della pallacanestro: i celeberrimi “7 seconds or less” Phoenix Suns. Una squadra che, al di la dei luoghi comuni e dello stesso soprannome che, come spesso accade (coff…lob city…coff), tende a parodizzarne involontariamente l’immagine, ha davvero lasciato un impronta indelebile nel basket a stelle e strisce.

Non potevamo dunque esimerci, visto il bellissimo assist donatoci dalla franchigia newyorkese, dall’andare un po’ a scavare nella memoria e tornare quindi con la macchina del tempo a quei tre anni straordinari, che ancora adesso restano indelebili negli occhi di molti.

E allora gettiamoci in questo fiume di ricordi: andiamo a rivivere insieme, con un pizzico di nostalgia, questa perdente epopea leggendaria.

 

L’alfa e l’omega: Steven Joe Nash

Mark Cuban ha definito l’aver lasciato andare Nash come la sua peggior mossa da quando è proprietario di una franchigia NBA, e come dargli torto: la PG candese ha rappresentato il motore perpetuo di quei Phoenix Suns, vincendo due premi di MVP consecutivi nelle prime due stagioni Arizona. Non possiamo nemmeno però addossare tutte le colpe alla povera franchigia del Texas: se infatti è vero che Nash aveva già fatto vedere ottime cose ai Mavericks (dove era arrivato a seguito di una prima stagione proprio a Phoenix), partecipando fra l’altro in due All-Star Game e due All-NBA Third Team, è indubbio che la crescita repentina e verticale avuta nella prima stagione con Mike D’Antoni fosse di difficile previsione.

Ovviamente, pare pleonastico affermarlo, la metà-campo in cui Nash ha portato tale netto miglioramento è quella offensiva: i Phoneix Suns passano da un Ortg di 101.4 nella stagione 2003/2004 a un Ortg di 114.5 (primo nella lega), uno swing piuttosto incredibile considerando che Nash fu l’unica aggiunta di rilievo di quella off-season.

Questo trend non accennò fra l’altro ad interrompersi per tutta la durata della permanenza di Nash ai Suns. Phoenix ebbe infatti un attacco top 3 della lega in tutte le annate che vanno dal 2005 al 2012, rimanendo dunque nella fascia d’elité anche dopo l’addio di Stoudemire e avvicendarsi di vari allenatori.  

Non è certo una grande scoperta che Steve Nash sia uno dei più grandi playmaker della storia della lega. Un giocatore che unisce a delle doti al tiro davvero fuori dal comune (4 stagioni da 50-40-90 in carriera per una media di 49/43/90) una capacità di vedere il campo tra le migliori di sempre non può che essere, al di là di ogni ragionevole dubbio, uno dei migliori creatori di tutti i tempi. Le sue annate dal 2005 al 2007 ne rappresentano l’assoluto apice.

 

Vediamo in alcuni di questi filmati la capacità che il canadese aveva di non interrompere mai il palleggio, anche nelle situazioni maggiormente complicate, e di saper servire il compagno (specie il rollante) con una moltitudine davvero eterogena di passaggi diversi, dal classico battuto a terra a ogni sorta di creazione estemporanea. Tutto ciò era peraltro reso più facile e pericoloso dalle non indifferenti capacità di self-creation del nostro, capace, proprio grazie al ball-handling, di generare separazione o trovare facili (o nemmeno troppo) conclusioni al ferro.

Non è una bestemmia, a mio modesto avviso, affermare che il Nash di quei 3 anni con Stat e D’Antoni sia forse il miglior giocatore offensivo del 21esimo secolo e, con un po’ di fantasia (e qualche anno di ritardo) non sarebbe impossibile pensare per lui a uno stile simile a quello di Stephen Curry, se trasportato in un sistema che gli permettesse di giocare anche off-ball.

 

Il figliol prodigo: Amar’e Stoudemire

Il Rookie dell’anno 2003 fu, senza alcun timore di smentite, il giocatore che giovò maggiormente, a livello individuale, dell’arrivo di Nash. Pur avendo, infatti, lasciato già intravedere ottime cose nelle due stagioni precedenti, fu l’accoppiata con il canadese a liberare tutto il potenziale dell’ala prodotto di Cypress Creek HS.

Ma non solo Nash fu la causa della detonazione di Stat: l’attuale giocatore del Maccabi raggiunse infatti anche il proprio apice fisico in quelle 3 stagioni (ricordiamo che arrivò in NBA direttamente dall’high school), nelle quali rappresento la più temibile minaccia al ferro dell’intera lega. Questa superiorità fisica, i cui segnali erano ben evidenti fin da subito, fu il vero cardine attorno al quale fiorì la sua carriera.

Amar’e era infatti un rim-runner, per definirlo modernamente, totalmente inarrestabile. Nel momento in cui la ricezione avveniva a un palleggio o meno dal canestro non c’era alcuna possibilità di fermarlo, una sorta di Blake Griffin molto potenziato da questo punto di vista. L’unione di potenza, verticalità e coordinazione gli permisero di essere il terminale perfetto dei pocket pass o degli scarichi proprio di Nash, riuscendo, sin dalla stagione 2005, a farsi riconoscere come uno dei migliori scorer interni dell’intera lega, conquistando in quelle tre stagioni due partecipazioni all’All-Star game e due All-NBA (va però precisato che nella stagione 2006, purtroppo, giocò un totale di 3 partite a causa di un grave infortunio).

La serie di WCF del 2005 è stata memorabile: 37 punti di media con il 61 di TS% contro la miglior difesa della lega, guidata dall’avversario diretto Tim Duncan. Se vi piace questo tipo di giocatore e questo tipo di pallacanestro, non credo ci sia un esempio migliore da ammirare di quelle 5 bellissime partite, che gli fecero anche guadagnare l’imperitura stima di uno dei più grandi di sempre.  

Stoudemire non era però solo questo. Negli anni è riuscito infatti ad inserire nel proprio repertorio anche un affidabile gioco in post basso e un più che discreto jumper dalla media, caratteristica che gli permise di sublimare ancora di più quelle che erano le sue migliori caratteristiche.

Certo, si può dire tutto di lui ma non che fosse un’ancora difensiva, ne convengo. Non a caso infatti era spesso accoppiato con un altro lungo dalla propensione difensiva che ne limitasse le criticità, ma,  lo dico onestamente, non è sulla parte tecnica che voglio concentrami in questo frangente, quanto più invece sulla parte estetica e iconica: da quel punto di vista, Amar’e fu una luce nella notte per moltissimi anni.

 

In questo breve filmato (inaugurato da una storica schiacciata allo SDC del 2005), possiamo notare le modestissime doti atletiche del nostro, che, come si può facilmente evincere, aveva moltissime difficoltà a chiudere nel traffico e contro una difesa che va ad intasare pitturato.

Il suo gioco al ferro non era comunque fatto di sola potenza bruta: erano infatti molti i giocatori a godere del suo stesso fisico, pochissimi però quelli in grado di combinare questo dono con una coordinazione in movimento del genere e anche un tocco discretamente dolce in situazioni di precario equilibrio. 

 

Il dottor Frankenstein: Mike D’Antoni

Dopo alcune brevissime esperienze verso la fine degli anni ’90, il coach ex Olimpia Milano torna in NBA nel 2002 come assistente di Frank Johnson, prendendo poi il suo posto all’inizio della stagione 2003/2004; stagione che, nonostante alcuni minimi miglioramenti rispetto alla precedente, si conclude con un record di 29-53.

Il nostro amato Baffo, nonostante riceva il timido plauso di una parte dei tifosi, si trova quindi, fin da subito, in bilico e messo in discussione: sul suo operato si sollevano infatti alcuni dubbi, specie in relazione alla gestione di una parte rilevante dello spogliatoio.

Nonostante varie titubanze, D’Antoni viene comunque fortunatamente confermato per la stagione successiva, nella quale, come sappiamo, piantò il primo seme di una rivoluzione che ha, ancora oggi, fortissime ripercussioni. I Phoenix Suns passano da un pace (numero di possessi per 48 minuti) di 92.5 a uno di 95.9, nettamente il primo della lega, avendo al contempo il maggior numero di punti a partita e il miglior Offensive Rating, portando i Suns al miglior record della lega (62-20) e se stesso al primo titolo di COTY. Lo stile di gioco di quella squadra, definito propriamente “7 seconds or less”, era una completa novità per l’epoca (gli unici antesignani di rilievo erano gli Warriors di Donn Nelson e i Denver Nuggets di Doug Moe, pur con corpose e nette differenze). L’idea di correre avanti e indietro per il campo senza soluzione di continuità, prendendo il primo buon tiro disponibile, fu un qualcosa che sconvolse l’NBA e, nonostante i risultati, non rimase esente da critiche aspre, a partire chi (come oggi con i Rockets) li definiva l’antibasket, per terminare con le costanti accuse mosse alla scarsa mentalità difensiva trasmessa dall’allenatore alla squadra.

Va detto che le critiche alla metà-campo difensiva non erano del tutto peregrine: i Suns infatti raggiunsero enormi risultati nonostante un Drtg che galleggiava tra i peggiori della lega per vari anni consecutivi (30esimi nella prima stagione, ad esempio).

Questi trend, sia offensivi che difensivi, non mutarono mai, anzi vennero estremizzati per tutto il perdurare di Mike sulla panchina e se, da una parte, furono la delizia dei tifosi di tutto il mondo, dall’altra rappresentarono da certi punti di vista un limite alle ambizioni di titolo del trio.

Non mancarono comunque, anche in questo caso, alcune criticità nella gestione del gruppo: Shawn Marion, terzo violino designato, faticava a trovare, presso pubblico e critica, i riconoscimenti che avrebbe voluto (detto fra noi, meritatamente) e covava dunque un mal di pancia nemmeno troppo nascosto; Joe Johnson era giovane e in rampa di lancio, che smaniava e sgomitava per un ruolo più di primo piano e Stoudemire, per quanto amato e riverito da tutti, non rappresentava certo una personalità facile. Fortuna di D’Antoni, da questo punto di vista, fu sempre e comunque la presenza di Nash, unico e fondamentale collante del gruppo, una personalità conciliante e in grado di tenere tutti, pur con modi opposti a tante superstar odierne, “sulla stessa pagina”; un MVP (e che MVP…) con così poco ego e in grado di assumersi in ogni situazione le proprio responsabilità, senza puntare il dito contro i compagni, era l’unica possibilità per un gruppo del genere di rimanere in piedi e, in effetti, Steve e Mike riuscirono egregiamente nell’impresa. 

 

Un po’ di storia

Abbiamo brevemente accennato alla prima stagione regolare di D’Antoni sulla panchina dei Suns, quello che non abbiamo detto, però, è come quella stagione si concluse. Dopo un facile 4-0 ai danni dei Memphis Grizzlies, Steve Nash si trova davanti al suo passato nella sfida contro i Dallas Mavericks, in una delle serie più esaltanti dal punto di vista offensivo della storia moderna (pillola statistica: i due attacchi migliori della storia NBA per Ortg, punti su 100 possessi in relazione alla media della lega, appartengono proprio a due compagini di Suns e Mavericks dei primi anni 2000). Nel 4-2 ai danni dei texani, Steve non mancò di farsi rimpiangere dai suoi vecchi tifosi. Un clinic offensivo, 30/12/7, 55% dal campo e 42% da 3, torturando la difesa avversaria in ogni modo possibile: dalla media, al ferro, da fuori, servendo i compagni o mettendosi in proprio. I poveri difensori di Dallas pare abbiano avuto gli incubi per mesi dopo questa serie. Manca qualcosa? Ah sì, c’è Stat, che potete immaginare cosa fece ai poveri Nowitzki e Dampier.

I Suns allora, che a inizio anno erano quotati +10.000 per vincere il titolo, si trovano quindi a una serie di distanza dalle NBA Finals.

Nelle finali delle WC arrivano però i San Antonio Spurs, che furono la vera e unica bestia nera dei Suns per tutti quegli anni, e qui le cose si ridimensionarono un attimo. La serie non parte bene: Joe Johnson è costretto a saltare le prime due partite per un problema facciale e gli Spurs sono straordinari ad addormentare le partite, portandole su binari a loro più consoni limitando al massimo Nash. Con il loro faro ingabbiato, i comprimari di Phoenix faticano a coinvolgersi autonomamente. Nei Suns sale allora in cattedra Stoudemire ma, nonostante la sua fantastica seriee dopo le due sconfitte in casa, di cui la seconda rappresenta il vero punto di svolta della serie, subita in rimonta e buttando via partita (molto simile alla gara 2 fra Rockets e Lakers di quest’anno, per fare un paragone), i Suns non riusciranno a riprendersi e perderanno per 4-1.

L’anno successivo Nash si ripete (strameritatamente ndr.) come MVP, portando la sua squadra, nonostante l’assenza totale di Stoudemire, a una stagione da 58 vittorie e il secondo posto delle WC. Il cammino ai playoffs è però più complicato: le prime due serie contro le squadre di Los Angeles arrivano entrambe alla settima gara e contro i Lakers al primo turno Phoenix rischia già moltissimo. Il doppio clutch shot di Kobe porta infatti Lakers avanti 3-1 nella serie, e solo una serie di miracoli dello stesso Nash, unita alla obrobriosa Gara 7 proprio di Bryant, permisero alla squadra di completare quella che fu una grandissima rimonta, nella quale spicca una gara 5 deliziata dalla sfida interna fra Nash (32+12) e Kobe (50).

 

Anche in questo caso però il cammino si interrompe alle finali di Conference e, siccome la storia è fatta di corsi e ricorsi, l’avversario non potevano che essere i Dallas Mavericks. La squadra di Don Nelson (coincidenze?) e Avery Johnson arriva alla sfida con la testa di serie numero 1 e il miglior attacco della lega, ma la serie, a un primo sguardo irrimediabilmente impari, è invece molto più combattuta del previsto. Nash è sempre Nash e Marion, promosso a numero due, gioca come mai in carriera su due metà-campo, ma la vera Wild Card è Boris Diaw (che chiuderà a 24 e 9 di media), un semi-lungo (usato da 5 da D’Antoni) che, a differenza di Stoudemire, offre molti meno punti di riferimento alla difesa e permette alla squadra di sfruttare il suo ottimo playmaking, specie dal post medio. Sul 2-2 la serie viene però spaccata metà da una leggendaria partita di Dirk Nowitzki: 50 punti, 12 rimbalzi, 74 di TS% e 159 di Ortg, mangiando in testa all’incolpevole Marion. I Suns non riescono dunque a sopravvivere al secondo cinquantello dei playoffs e, dopo una gara 6 comunque combattuta, sono costretti a cedere il passo. 

Il 2007 è l’annata in cui più di tutte Mike, Steve e Amar’e vanno vicini a un titolo (nonostante escano un turno prima) e qui, è inutile girarci intorno, potrei raccontare l’intera stagione ma tutto si riduce ad un singolo, (mestamente) storico episodio.

La serie, e come ti sbagli, è contro i San Antonio Spurs. I Suns sono la testa di serie numero 2, gli Spurs la numero 3; Dallas, fresca di 67 vittorie ed MVP, è stata eliminata in un clamoroso upset dagli Warriors; in finale arriveranno i Cleveland Cavaliers di un 22enne LeBron James: in sostanza, stiamo parlando della finale NBA, all’epoca c’erano poche discussioni a riguardo.

I Suns sono chiaramente la squadra migliore, è una cosa evidente ad una visione odierna come lo era all’epoca, ma, in qualche modo, le cose riescono comunque ad andare male e a scivolare via dalle loro mani.

La serie è una delle peggio arbitrate della storia, già all’epoca moltissimi giornalisti (come un imberbe Bill Simmons) la definirono uno scempio, Tim Donaghy (già noto per la serie tra Kings e Lakers del 2002) ammise tempo dopo che Tommy Nunez (che ora potete trovare spesso sul canale BballBreakdown), allora direttore dell’arbitraggio, odiava Sarver e per questo diede velate istruzioni di sfavorire la sua squadra. Stoudemire accusò Bowen, non nuovo a cose del genere, di aver cercato di infortunarlo volontariamente. Dopo gara 3, vinta dalla franchigia texana, gli arbitri furono accusati di aver platealmente favorito gli Spurs, e in effetti, guardando la partita, la cosa appare piuttosto evidente anche un occhio poco esperto.

Insomma, il clima era teso, ma è in gara 4 che le cose prendono davvero una brutta piega: con i Suns sopra di 3 a 1 minuto dalla fine, Robert Horry butta con un colpo Steve Nash sul tavolo, facendo passare un brutto secondo a tutta l’Arizona, ma Nash si alza, sta bene e Horry verrà sospeso per due partite, tutto a posto giusto? Sbagliato, perché Staoudemire e Diaw, in un giustificato impeto difensivo verso il loro leader, si sono alzati dalla panchina e sono entrati in campo, e questo, purtroppo, per l’NBA porta a una squalifica automatica. I due salteranno gara 5, che comunque i Suns riusciranno quasi a portarsi a casa, anche qui con un arbitraggio piuttosto discutibile, e rientreranno in gara 6 con i loro sotto 3-2. A questo punto però i Suns, eroi biblici contro le intemperie, non sono più in grado, e non mi sento di farne loro una colpa, di tornare in sella. Nonostante una grandissima partita di orgoglio di Stoudemire, la serie si chiude ancora una volta 4-2. 

Non voglio entrare nel merito delle polemiche o delle discussioni sull’eventuale dolo che si ebbe nell’indirizzare quella serie, mi permetto però solo una piccola nota di fatto: pare evidente, a un osservatore imparziale, che, al di la degli errori arbitrali nel merito, vi fu un enorme confusione nella gestione delle partite e delle terne che, alla lunga, volenti o nolenti, danneggiò i giocatori e, in definitiva, lo spettacolo e il pubblico. Uno spettacolo equo e godibile non può essere inficiato da certe logiche e deve rappresentarsi in modo molto più trasparente.

 

L’annata 2007/2008 non ha molto senso di essere raccontata: la squadra è falcidiata da intoppi di ogni tipo ed è chiaro a tutti che al termine di essa D’Antoni dara l’addio. Phoenix termina comunque con 55 vittorie ma viene eliminata al primo turno, e da chi sarà mai stata eliminata? Ma ovviamente dai loro amici speroni.

 

Conclusione

In definitiva, mi pare inevitabile ribadire quanto detto nella premessa: il trio che rivedremo a Brooklyn ha indubbiamente rivoluzionato il basket moderno, presentandone una visione, ognuno con i proprio definiti e proporzionati compiti, talmente innovativa da essere, come tutte le grandi idee, da prima osteggiata, poi guardata con sospetto e infinite idolatrata ed imitata ovunque.

Mi risulta difficile, se devo essere onesto, immaginare D’Antoni con un ruolo di secondo piano e, seppur già fin d’ora vengono paventate varie ipotesi di gestione ombra da parte del Baffo, credo che i nostri tre riusciranno a convivere in modo non solo pacifico, ma persino fruttifero per le sorti della nuova franchigia, riuscendo ad infondervi (e so per certa che questa è la speranza dei tifosi) la cultura che ha reso grande Phoenix.

Adesso la palla è però in mano a Nash: starà a lui ricoprire il compito che fu del suo maestro, dovendo gestire una squadra fondata su due star dalla personalità complessa, senza però avere dalla sua proprio un Nash ad equilibrare il tutto, ma potendo però contare sul fondamentale aiuto di due compagni di mille e più battaglie.

Tags: Phoenix SunsSteve Nash
Leonardo Pedersoli

Leonardo Pedersoli

Studente di Giurisprudenza ed istruttore Minibasket. Tifoso Knicks per autolesionismo, compenso ammirando il più grande di sempre, che mannaggia a lui poteva degnarsi di venire da noi nel 2010 ma ha preferito vincere qualcosa.

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