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Lo strano viaggio di Rob Pelinka e Bob Myers

Davide Torelli di Davide Torelli
25 Novembre, 2020
Tempo di lettura: 15 min
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Pelinka e Myers

Copertina a cura di Matia “DiUi” Di Vito

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Lasciamo perdere convenevoli e riassunti: la stagione 2020/21, in procinto di avviarsi in ritardo per ragioni pandemiche che ben conosciamo, è partita con il botto. E neanche i soliti rumors destinati a farsi spazio, come consuetudine con la postseason in dirittura di arrivo, potevano preannunciare le rivoluzioni che stanno materializzandosi in questi giorni. Più esattamente una manciata di ore prima del draft stagionale, e con la Free Agency inaugurata a seguire, in una lega che già aveva visto numerosi (e clamorosi) avvicendamenti in panchine e coaching staff.

Tra le situazioni emergenti – e già ampiamente discusse su questi spazi – quella dei Campioni dei Lakers, con un roster in via di perfezionamento dopo le prevedibili partenze a contratto scaduto (o non opzionato). Per un Howard ed un Rondo che lasciano il gruppo accasandosi allegramente in altri lidi, arrivano sorprendenti sostituti del livello di Montrezl Harrell e Dennis Schroder.

Due novità (alle quali aggiungere Wesley Matthews e Marc Gasol) che lasciano intendere un progetto di ristrutturazione ancora aperto, con l’obiettivo di bissare immediatamente quantomeno il ritorno all’ultimo atto recentemente vissuto, a 10 anni dall’ultima volta (stesso epilogo, tra l’altro).

Ma nella competitiva Western Conference le cose, come ben sappiamo, non sono esattamente semplici.

Il ritorno a disposizione degli Splash Brothers in quel di San Francisco lasciava prevedere i Warriors di Steve Kerr come potenziale oppositrice ad altissimo livello. E non solo per la scelta di James Wiseman con la seconda pick al draft (inevitabilmente acerbo e carico di incertezze). Peccato però che il destino abbia tolto di mezzo Klay Thompson – con la tragica rottura del tendine d’Achille avvenuta durante una partitella proprio a Los Angeles – costringendo la franchigia a ripiegare su Kelly Oubre Jr. e con poco margine di ulteriore movimento tra gli svincolati a disposizione.

Forse poco per ritrovarsi contender, ma i giochi devono ancora compiersi in definitiva, e potrebbero essere le mosse di contorno a determinare il futuro delle due squadre californiane sopracitate, in mezzo a tutte le altre, in affannoso tentativo di pescar la carta vincente, magari invisibile agli altri. Il che significa, massima attenzione verso due General Manager che negli anni sono riusciti ad inanellare successi manageriali e conferme sul campo, tanto da venir definiti “modello ideale” per eventuali emuli futuri.

Si tratta di Bob Myers e Rob Pelinka, una coppia dalle biografie straordinariamente simili, accomunata adesso anche dal raggiungimento di un apice che ha visto il GM dei Lakers costruire una struttura tra dubbi e critiche, rivelatasi più che solida nella “bolla” di Orlando.

In un’epoca in cui la comprensione dei sistemi circostanti alla lega non può essere unidimensionale, hanno dimostrato di poter aggiungere – ai valori canonici – spiccate capacità di analisi anche di fattori meno scontati. Come la ristrutturazione culturale di una franchigia, costruendone l’identità partendo da un approccio empatico verso allenatori e giocatori, sperimentando differenti livelli comunicativi ed interrogandosi su cosa piaccia o meno al cosiddetto “mondo fuori dallo spogliatoio”. Non a caso, si tratta di due ex cestisti titolati a livello universitario, non certo di successo, ma sufficientemente dentro le dinamiche per conoscerle a menadito.

Ma c’è molto di più, soprattutto a livello di formazione, tanto che per capire quanto Pelinka e Myers siano effettivamente pionieri di uno stile moderno di guidare le franchigie, è necessario partire dalle loro storie. Decisamente dense di contenuti e fascino, soprattutto osservandole alla luce dei risultati ottenuti.

 

Rob Pelinka, il predestinato

Da diplomato con successo alla Lake Forest High School in Illinois (e ben istruito sul campo da papà Robert Todd Senior, a sua volta coach liceale), Rob Pelinka doveva solo scegliere il College che più preferiva, desiderato com’era sia da North Carolina, che da Michigan, Notre Dame ed ovviamente University of Illinois. Questo perché non solo il figlio della Città del Vento si era messo in evidenza per risultati scolastici di rilievo, ma pure sul parquet nel suo anno da senior.

E lui non guarda soltanto alla cultura sportiva (potendo scegliere tra le migliori nazionali, tra l’altro), ma anche ai programmi accademici. Diviene un Wolverine soprattutto per il valore del dipartimento economico e giuridico dell’ateneo, considerando probabilmente la carriera di giocatore come un “piano b”, contrariamente alla media.

Effettivamente nei suoi quattro anni universitari, Rob Pelinka non riuscirà a mettersi troppo in evidenza in campo, pur vincendo subito un titolo nazionale, da freshman. In quella squadra ci sono giocatori come Terry Mills, Loy Vaught, Rumeal Robinson e Glen Rice: tutti nomi che avremo modo di ricordare una volta passati in NBA. Certo, chi più e chi meno, a prescindere dalle aspettative (ogni riferimento al playmaker giamaicano non è evidentemente casuale, per quanto riguarda la delusione delle stesse).

Nel 1991, invece, uno straordinario quintetto di esordienti trasformerà Michigan in un caso nazionale, non solo circoscritto al mondo del College Basketball. Ray Jackson, Jimmy King, Juwan Howard, Jalen Rose e Chris Webber sono i Fab Five, che diventeranno – a loro modo – un simbolo stilistico degli anni ‘90. Due anni di fila a giocarsi il titolo NCAA alle Final Four, atteggiamento spavaldo, provocatorio, talento cristallino, pantaloncini baggy e gioco spettacolare.


Pelinka funziona da sesto uomo ed aspirante “coscienza” per una serie di cavalli pazzi, ricoprendo anche il ruolo di capitano nella sua annata da senior, quella in cui arriveranno ad un passo dal successo. Anzi, più precisamente ad un tecnico dalla vittoria, in un finale in volata divenuto storico a causa di un time out chiamato da Webber, quando Michigan non ne aveva alcuno a disposizione.


Poco male, nonostante una delusione che rompe qualcosa nei labili equilibri di un gruppo singolare: C-Webb diviene prima scelta assoluta nel Draft seguente (finendo a Golden State, dopo esser stato scelto dagli Orlando Magic), mentre Pelinka ci prova partecipando all’NBA Summer Camp di Long Beach, valutando offerte provenienti dall’Europa, ma alla fine optando per un’altra strada.

Si, perché contemporaneamente alla cavalcata dei Wolverines nel suo ultimo anno, Rob entra a far parte del Bachelor of Business Administration Program grazie ad un rendimento scolastico eccellente, iscrivendosi poi alla Michigan Law School e lavorando al contempo con il prestigioso studio di avvocatura Winston and Strawn.

Nel frattempo conosce l’agente sportivo Arn Tellem, ed inizia a programmare i primi passi in un mondo complesso ma ampiamente alla portata del suo intelletto. Sarà quest’uomo a convincerlo a diventare avvocato per SFX Sports, diventando a sua volta agente, e di giocatori di un certo livello. Gente come Tracy McGrady, e soprattutto Kobe Bryant. E proprio uno scambio reciproco di influenze e motivazioni (inaugurato dalle capacità di Pelinka, da unirsi con un alto tasso di empatia nel periodo in cui la star dei Lakers deve fronteggiare un complesso processo, con accuse piuttosto pesanti per la sua persona), porta alla svolta definitiva.

Rob fonda la propria agenzia – The Landmark Sports Agency – e diviene rappresentante dei principali top players della lega. Non solo Andre Drummond e Andre Iguodala, ma anche Chris Bosh, James Harden e Kevin Durant figurano tra “i suoi”, tutto questo fino ai primi mesi del 2017.

Dopo anni di risultati deludenti, scelte disastrose ed il ritiro del Mamba, Rob Pelinka diviene General Manager dei Los Angeles Lakers durante un ennesimo riassetto societario, che la presidentessa Jeanie Buss si augura possa essere definitivo per riportare i gialloviola ai vertici della lega. Al suo fianco, nient’altro che una iconica figura come Magic Johnson, nel ruolo di President of Basketball Operations. Dal Draft arrivano Lonzo Ball e Kyle Kuzma, e nella Free Agency 2018 quello che per molti è considerato il più forte giocatore della lega, LeBron James.


Le aspettative sono altissime, considerando l’inserimento di un trascinatore simile all’interno di uno young core di rosee prospettive, ma le cose non vanno benissimo. La squadra non riesce a centrare i playoff, dopo un discusso – e fallito – tentativo di spedir mezza squadra a New Orleans in cambio di Anthony Davis, a metà stagione.

La situazione diviene bollente, Magic e Pelinka si scontrano più o meno ufficialmente, e l’ex coscienza dei Fab Five ha la meglio, restando al timone e completando quello scambio tanto agognato, che riporterà il Larry O’Brien Trophy nella Città degli Angeli dopo 20 anni. Una rivincita incredibile, festeggiata nella “bolla” di Orlando e coronata con la rivendicazione di rispetto da parte dello stesso James, portavoce di una franchigia criticata nelle scelte, martoriata da un destino tragico, finalmente libera di sorridere.

Rob Pelinka non solo ricopre il ruolo di architetto della squadra campione, ma quel rapporto sincero con lo scomparso Kobe lo incorona come il più evidente rappresentante di quel fil rouge che lega il titolo 2020 con quello del 2010, l’ultimo conquistato da Bryant.

Bob, un Warrior dalla nascita

Bob Myers non viene da troppo lontano, sia guardando all’attuale casa dei Warriors che pensando a quella storica, la recentemente superata Oracle Arena (a vantaggio dello scintillante Chase Center).

Nasce e cresce a poco meno di un’ora di macchina da lì, a Danville, nel 1975. Quasi contemporaneamente al terzo successo di sempre della franchigia, allora guidata da Rick Barry e Jamaal Wilkes: una squadra talmente tanto poco pronosticata, che l’allora Coliseum Arena (non ancora Oracle) risultava occupata da altri eventi per tutta la durata della postseason, costringendo i ragazzi guidati da coach Al Attles a giocare le gare casalinghe a Daly City, al Cow Palace.


Ma il buon Bob non era ancora in grado di intendere e desiderare quei colori, che avrebbe tifato già dai primi anni 80, respingendo l’appeal che i Lakers dello Showtime potevano avere per un californiano qualsiasi, seppur nella parte “alta” dello stato.

La passione è forte, l’intelligenza innegabile, il talento cestistico invece non lo rende certo prospetto potenziale, ma con grinta ed applicazione non solo Bob Myers gioca per la Monte Vista High School, ma riesce pure ad entrare a UCLA dopo il diploma. Si iscrive alla facoltà di economia da studente modello, e contemporaneamente si trova – con suo presumibile stupore – a vestire la maglia dei Bruins nel quadriennio che va dal 1993 al 1997.

Nella stagione 1994/95 i losangelini divengono campioni nazionali, guidati da coach Jim Harrick, il primo a restituire il prestigioso titolo alla città dai tempi di John Wooden, l’uomo che ancora oggi troneggia sotto forma di statua all’esterno del Pauley Pavillion. In quella squadra brillano Ed O’Bannon, George Zidek e Tyus Edney, che non riusciranno a ripetersi al livello superiore con la stessa efficacia (il playmaker citato per ultimo, in verità, giocherà tre anni molto bene a Treviso, vincendo due Scudetti, tre Coppe Italia e una Eurolega da MVP con la Benetton).

Myers “contribuisce” dal fondo della panchina – con appena 0.3 punti per gara – ma risulta già prezioso nello spogliatoio e pure per il coaching staff, incapace di limitare un intuito ed una intelligenza strabordanti.

Una volta laureatosi, le proverbiali scarpette vengono appese al chiodo quasi di conseguenza: troppo poco potenziale sul parquet per sprecare una mente brillante, la stessa che gli apre le porte di un modo fatto di scouting e contrattazioni, quello degli agenti sportivi. Diviene collaboratore di Arn Tellem conseguendo contemporaneamente una seconda laurea alla Loyala Law School, trasformandosi rapidamente in braccio destro ideale per quello che al tempo era uno degli astri nascenti più eccellenti tra gli agenti NBA.

In 14 anni di onorata carriera diviene vicepresidente della SFX Sports, dopo aver portato in scuderia giocatori del calibro di Tracy McGrady, divenuto espertissimo in materia di dinamiche contrattuali interne alla lega. Gli ultimi 5 anni li passa con il gruppo Wasserman Media, seguendo clienti importanti (uno tra tutti, Brandon Roy), prima di cogliere il treno giusto. Quello della grande occasione.

Non solo quel convoglio lo riporta velocemente verso casa, ma addirittura il capolinea è rappresentato dalla squadra che ha sempre amato fin dalla più tenera età, quella il cui destino appare legato da un filo invisibile ma solido. Diviene assistente GM dei “suoi” Golden State Warriors, affiancando Larry Riley e bevendosi come una spugna tutti i segreti ancora oscuri, da conoscitore dell’altro lato delle contrattazioni quale era.

È l’aprile 2011 e nella baia è arrivato da poco Wardell Steph Curry, l’uomo che ne rivoluzionerà la storia recente. Myers opera un vero e proprio salto nel buio economico, rinunciando ad una carriera avviata e redditizia per sposare un progetto in ricostruzione, e viene immediatamente promosso 12 mesi dopo.

Il suo primo vero colpo è Klay Thompson (scelta numero 11 nel Draft 2011), e nel frattempo ad Oakland si accasa come executive board member il signor Jerry West, altro valore che dona a Bob un bagaglio esperienziale unico, dal quale attingere ed imparare. A quel punto, tutto si muove rapidamente, ed ogni scelta risulta sostanzialmente più che azzeccata, decisiva.

Arrivano Harrison Barnes e Draymond Green dopo il ritorno in postseason, poi Andre Iguodala nella Free Agency 2012, ed infine Shaun Livingston e Steve Kerr in panchina, da esordiente ed erede del triennio firmato da Mark Jackson. Con questi nomi ed una guida rivoluzionaria in materia sia di organizzazione che di chimica, Bob Myer può finalmente vedere i suoi Dubs vincere un titolo NBA, salire sul tetto del mondo, diventare fenomeno sportivo da libri di storia.


Da Executive of the Year ottiene giustamente una ribalta quasi rifuggita fino ad allora, da umile quanto competente lavoratore nelle retrovie. Riconfermarsi è difficile, e nonostante una stagione da 73 vittorie con la bruciante sconfitta in gara 7 contro Cleveland, Bob Myers non solo non si arrende, ma si conferma mente illuminata all’interno della propria categoria professionale.

Portare Kevin Durant nella baia equivale ad altre tre finali consecutive (da sommarsi alle precedenti due), con altrettanti titoli su cinque partecipazioni allo scontro finale. L’ultimo, il più amaro, racconta di una sconfitta dolorosa contro i Raptors delle meraviglie, con i Dubs funestati da una sequela di infortuni impressionante, dopo che tutto il mondo li dava i vincenti già ai nastri di partenza grazie all’aggiunta di DeMarcus Cousins.

Durante quella serie, Myers appare in lacrime in conferenza stampa, distrutto per la tragedia di Kevin Durant, costretto a forzare il ritorno in campo dagli eventi, ed uscito dopo pochi minuti di gara 5 per la rottura del tendine d’Achille. Nella sfida seguente – quella che chiuderà per sempre l’esperienza dei Warriors ad Oakland, visto l’immediato ritorno a San Francisco nella stagione 2019/20 – succederà qualcosa di simile anche a Klay Thompson.

Più di qualche analista punterà l’indice contro la dirigenza per dirette responsabilità, accusando tra gli altri anche lui di aver permesso la discesa sul parquet di due giocatori di quel livello, non completamente recuperati, per salvare la stagione.

Una serie di coincidenze?

La prima cosa in comune che emerge dai profili di entrambi, è un nome. Più esattamente quello di Arn Tellem – oggi vice presidente dei Detroit Pistons – che seleziona e cresce entrambi nella gestione della sua agenzia. È lui a reclutarli velocemente, individuando quei valori che li rendono oggi potenziale modello della futura classe dirigenziale della NBA. Ma le coincidenze non si fermano certo qui.

Entrambi hanno conosciuto il parquet anche da giocatori, vincendo in circostanze differenti (ma non da protagonisti) un titolo NCAA, oltre che diventando per un breve periodo analisti e commentatori per il basket universitario. Ed anche questo ha un discreto significato, ma ci torneremo dopo.

Allo stesso modo, sia Myers che Pelinka rifiutano le sirene europee che suggerirebbero il tentativo di proseguire una carriera cestistica non destinata a particolari successi, laureandosi in legge ed inserendosi in un mondo complesso, dove in momenti distinti riescono a primeggiare. Ma che conquistano con personalità e metodologie comportamentali uniche, figlie di un’esperienza che eufemisticamente potremo definire “multitasking”.

Per funzionare da agenti prima, e da dirigenti in seguito, servono conoscenze specifiche in materia di gestione legale e contrattuale, capacità comunicative di primo livello, esperienza dettagliata sulle dinamiche sia dei campi in generale, che degli spogliatoi professionistici. E ancora più importante, un’attitudine relazionale di successo a 360 gradi, dovendo trattare con colleghi, presidenti, giocatori ed altri dirigenti in una lega tanto espansa quanto complessa come la NBA.

Insomma, bisogna essere squali ma con cognizione. È necessario saper guardare al profitto personale mettendo avanti quello degli assistiti, o delle franchigie di rappresentanza, puntando in alto in materia di risultati sportivi. Limitando la massimo cadute di stile, riuscendo a far buon viso a cattivo gioco, mantenendo sempre un aplomb inattaccabile nelle relazioni con i media, convincendo gli altri trasmettendo sicurezza e fermezza. Anche perché con responsabilità fortissime in prospettive esigenti, serve saper costruire una “cultura” secondo il senso statunitense del termine, passando da minuziosi processi di team building ed incentrando il proprio lavoro su coltivazione dei rapporti personali e collaborazione.

Insomma, riguardando nuovamente i loro profili mettendoli in relazione con successi ottenuti, domandarsi se Pelinka e Myers rappresentano il nuovo paradigma per un General Manager NBA di successo, è più che legittimo. Ma la risposta non è così consequenziale, almeno per chi vi scrive.

Indubbiamente, quel background similare che contraddistingue il loro passato li rende tenutari di caratteristiche oggi indispensabili per costruire qualcosa di definitivo e che affonda le proprie radici nella loro formazione, che dona loro un’attenzione nella comprensione dei dettagli importante, tanto da sviluppare una conoscenza delle dinamiche contrattuali che un General Manager deve avere, in questo caso favorita da un passato da agenti di successo. Il che non deve necessariamente farci pensare che per costruire un sistema da titolo, la soluzione è pescare tra i rappresentanti dei migliori agenti NBA mettendoli alla guida gestionale di una franchigia.

Pelinka e Myers riescono a far convivere preparazione e competenza, con capacità comunicative innate da favorire costruzioni relazionali complesse, efficaci e tremendamente semplici nell’apparenza. Ma soprattutto, nell’arco della loro vita non si accontentano mai del risultato ottenuto, che per molti coetanei appartenenti ad altri strati sociali, avrebbe potuto significare diventar professionisti in altro continente, mettere da parte qualche soldo giocando a basket e pensare al futuro in seguito.

Saper scegliere bene e non sbagliare direzione negli incroci che la vita presenta, non può esser semplice responsabilità del caso, soprattutto quando ogni opzione aggiunge un tassello importante per giungere ad un successo riconosciuto. Serve istinto, ma anche duro lavoro, conoscenza, capacità di valutazione. Altre caratteristiche fondamentali per portare la propria franchigia in alto, costruendo una “cultura” che funzioni e che sia trasmissibile a tutti i livelli circostanti, dai massaggiatori al coaching staff per giungere ai giocatori.

Insomma, per essere un GM di successo nella lega di oggi, servirà saper fondere lo studio dei numeri con le capacità relazionali, esser comunicatore ma non dimenticare che al centro del tutto resta sempre e soltanto il campo. Quindi sarà importante aver respirato pallacanestro, compreso le dinamiche del gioco e dello spogliatoio, saper modificare la propria percezione di sé in base al contesto interno in cui si agisce.

Non è facile far convivere tutto questo in una figura, e Pelinka e Myers possono rappresentare dei modelli senza dubbio, probabilmente predestinati ad un successo professionale a prescindere grazie all’intelligenza in dotazione.

Probabilmente si tratta di due figure difficili da imitare perché complesse da ricostruire artificialmente, tanto eccellenti in qualità ed in quantità in distinti fronti, tutti indispensabili per il ruolo ricoperto nella lega del 2020. Di sicuro – ed i successi ottenuti sono lì a dimostrarlo – hanno prepotentemente alzato l’asticella delle competenze richieste.

Tags: Bob Myersgolden state warriorsLos Angeles LakersRob Pelinka
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket Nba. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Founder di Nba Week, tra le altre cose.

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