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Intervista ad Umberto Brusadin

Francesco Semprucci by Francesco Semprucci
26 Novembre, 2020
Reading Time: 7 mins read
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Umberto Brusadin

Copertina a cura di Francesco Ricciardi

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Molti non si rendono conto di quanto i social possano unire le persone, persone che magari abitano molto distanti tra loro ma accomunate dalla stessa passione. Questo è il caso mio e di Umberto Brusadin, lontani geograficamente da giovani (lui di Latina, io di Rimini) ma accomunati dall’età e da una grandissima passione per il basket. Ci siamo conosciuti su Spazio NBA ormai parecchi anni fa, arrivando praticamente a parlare tutti i giorni e di tutto.

Crescendo però le nostre strade si sono pian piano divise: io sempre più dedito all’analisi e alla valutazione dei prospetti; lui pian piano si costruiva un futuro da giocatore, prima in Italia poi negli USA. Nel frattempo leggevo della sua avventura e delle sue fortune oltre oceano, ripensando a noi due con un po’ di malinconia e nostalgia, quando poco più che bambini parlavamo e ci confrontavamo su tutto, tentato più e più volte dallo scrivergli ma convinto che ormai si fosse dimenticato di me.

Ma tutto questo fino a qualche giorno fa, quando a sorpresa mi ha riscritto su facebook e così, sfruttando anche l’occasione per rivederci (in videochiamata ovviamente) ne ho tirato fuori un’intervista, che più che un’intervista è stata una bellissima chiacchierata tra due amici di lunga data.

 

Raccontaci un po’ della tua decisione di andare negli states, quando hai iniziato a pensarci e come ti è venuto in mente?

Ho sempre avuto il sogno di venire in America, avendo ovviamente come moltissimi il sogno NBA. Volevo giocare contro i migliori, in Italia mi allenavo sempre con i più grandi ma il mio sogno era dall’altra parte dell’oceano, volevo giocare al livello più alto possibile.

A 13-14 anni feci un camp in america, il camp dei Lakers, in cui finii con una cosa come 37 punti di media e l’MVP. Tre allenatori di HS a fine camp vennero da me e mi proposero di entrare nelle loro squadre, nel varsity team, come play titolare. Mia mamma, vista anche la mia età, non voleva lasciarmi andare da solo negli USA, così per il momento dovetti rimandare il mio sogno, ma solo per poco.

A 15 anni sono andato in America e ho iniziato a frequentare la Oak Hill Academy (una delle HS più famose, fucina di talenti come, tra gli altri, Carmelo Anthony, Jerry Stackhouse, Josh Smith, Cole Anthony, Michael Beasley, Kevin Durant, Brandon Jennings, Stephen Jackson, Rajon Rondo, ecc; ndr), nel varsity team, avevo solo 15 anni ma ero già un junior, nonostante come età fossi un freshman. Il primo anno giocai poco, principalmente garbage, il secondo anno partii titolare ma purtroppo un leggero acciacco mi ha tolto dai giochi per un paio di settimane, e visto il livello e la competizione a Oak Hill tanto basta per perdere il posto in quintetto; al rientro comunque ho fatto bene e ho finito la stagione con ottimi numeri. Anche solo il potermi allenare ad un livello così alto mi ha aiutato molto a crescere.

 

Pensi che per un giovane italiano sia meglio il modo migliore di svilupparsi sia provare un esperienza negli USA o rimanere in Italia?

Bella domanda, credo che dipenda da che tipo di giocatore e di persona sei.

Nel mio caso, nelle giovanili sono sempre stato il migliore della mia squadra, giocavo e mi allenavo anche con gente più grande, rimanendo qua avrei avuto un percorso diverso.
Appena arrivato negli States ho preso una batosta clamorosa, mi allenavo bene ma non giocavo mai. Questo mi ha spinto ad allenarmi il doppio degli altri, nonostante comunque vedessi di essere al loro livello, e questo mi ha portato a migliorare moltissimo.

Molto dipende anche dal carattere e dalla mentalità, da quanto sei forte di testa. Il gioco qua è meno tattico e molto più individuale, ad esempio non si fa difesa a zona, se sei contro uno più veloce di te devi farti il culo in allenamento e migliorare fino a quando non riesci ad essere al suo livello, non c’è un sistema dietro cui nascondersi. Questo ti sprona a migliorarti individualmente, però a livello mentale devi essere molto molto tosto.

 

Cosa ci racconti di una HS leggendaria come la Oak Hill Academy?

Una delle prime persone che ho incontrato ad Oak Hill è stato Harry Giles (post primo infortunio, pre secondo, ndr), ovviamente era un mostro, un giocatore clamoroso. Ma era esattamente ciò che volevo, giocare e competere coi migliori, volevo confrontarmi coi più forti.

Per quanto riguarda Oak Hill e l’ambiente, lì non c’è assolutamente nulla, praticamente solo i dormitori, la palestra e la scuola, poco altro. Ma è anche quello il suo bello, vai lì per giocare a basket, nel tempo libero vai a giocare in palestra per divertirti, anche se non hai allenamento. A Oak Hill ci vai per amore della pallacanestro, non per altro. Il livello è altissimo e all’inizio è stata dura.

Poi mi sono reso conto che anche io potevo stare a quel livello, magari, come nella prima stagione, giocavo poco ma comunque vedevo che negli allenamenti e nelle partitelle riuscivo a giocare e a segnare anche contro gente molto forte.

 

Come hai affrontato la decisione del college?

La mia decisione è ricaduta sulla Division II perchè volevo giocare, avevo una gran voglia di fare e di mettermi in mostra, ho preferito la D2 ma giocare di più; il livello era comunque alto, abbiamo giocato e vinto anche contro squadre di D1. Purtroppo però il primo anno per me è finito prestissimo con la rottura del tendine di achille e il secondo non è praticamente nemmeno iniziato.

A febbraio scorso, dopo aver mandato un po’ di miei video pre-infortunio e anche dell’HS in giro, mi è arrivata la proposta di visitare Rhode Island. Quest’estate mi hanno ricontattato e mi hanno detto che c’era un posto per me in squadra e ho colto l’opportunità al volo.

E’ stato incredibile, praticamente non giocavo da quasi 2 anni ma evidentemente hanno visto qualcosa in me, emotivamente è stata una bella spinta. Qua mi sto trovando molto bene sia coi compagni ma anche col coaching staff.

 

A proposito di infortuni, come è stato dover stare fermo per così tanto tempo?

E’ stata tosta, soprattutto a livello mentale. Ho tenuto le stampelle per 8 mesi nei quali potevo solo guardare gli altri giocare ed allenarsi. È stato molto pesante, soprattutto se hai una passione e sei abituato a vivere in un certo modo, mi sentivo morire dentro ogni volta che vedevo gli altri giocare, sono fin troppo competitivo per restare a bordo campo senza poter fare niente. Mi dava proprio fastidio a livello emotivo e mentale, mi faceva soffrire anche fisicamente, quasi più dell’infortunio in sè.

Per quanto riguarda il ritorno, ci ho messo un po’ a ritrovare la condizione ma ora sto bene. Ho dovuto cambiare un po’ mio gioco, sono cresciuto tatticamente e sono diventato meno impulsivo, ma ora sono al 100% e sono sicuramente cresciuto e migliorato come giocatore (ho avuto modo di vedere i video e mi hanno molto impressionato, il livello della squadra è molto alto visti anche i transfer importanti da Syracuse e Maryland, e la presenza di un John Wooden Watch list per la miglior PG della nazione come Fatts Russell, ma Umberto in campo faceva la sua figura, mi ha molto sorpreso, ndr)

 

Giocatore più forte con cui hai giocato? E contro?

A entrambe le domande rispondo Lindell Wigginton (anno scorso in G-League nella squadra di Minnesota, ora professionista in Israele, ndr), abbiamo giocato sia da avversari, essendo sempre a Oak Hill ma nell’altra Varsity, sia che da compagni. In generale direi Harry Giles, ma sento meno il confronto con giocatori non del mio ruolo.

 

Cosa pensi della eterna diatriba tra professionismo ed NCAA? Ritieni che i giocatori, almeno i più importanti, debbano ricevere un compenso?

Ci sono fin troppa politica ed interessi economici nel mondo NCAA, non è un problema che mi riguarda direttamente ma se io fossi al posto di questi giocatori vorrei essere pagato. Se io ti faccio guadagnare milioni o miliardi perché il mio “compenso” dovrebbe essere la retta universitaria che costa sui 50.000 dollari? Magari poi sono un giocatore che in NCAA domina e ti attira un sacco di pubblico ma con zero possibilità di finire in NBA e con una buona probabilità che la mia carriera finisca una volta uscito dal college, perché non dovrei avere l’opportunità di guadagnare se tu NCAA con la mia immagine guadagni tantissimo?

 

Come si concilia la vita da studente e da atleta? Come si gestisce la questione allenamenti/partite/lezioni/esami?

Io ormai sono un graduate student (uno studente che sta prendendo il master, ndr) quindi per me è diverso, studio sempre quando non gioco e mi alleno, alcune volte devo anche saltare qualche allenamento per le lezioni.

La mia giornata tipo si svolge così: alle 9 mi alzo e studio, alle 12 fino alle 13.30 siamo in sala pesi, dalle 13.30 alle 16.30 allenamento, dalle 18 alle 20 tiro. Il tempo non è tantissimo per me che faccio il master.

 

A proposito di master, obiettivi una volta finito il percorso universitario? Sia nella vita che nello sport

Voglio tornare a giocare in europa.

Visto anche che otterrò il master giovanissimo, a 21 anni, i primi anni li spenderò per provare a vedere a che livello posso giocare, concentrarmi e vedere il livello a cui posso ambire, l’ambizione ovviamente è l’Eurolega. Non mi sento inferiore a nessuno degli italiani da questa parte dell’oceano. Non è spavalderia o sbruffonaggine, è sicurezza nei propri mezzi, se si vuole arrivare a certi livelli bisogna avere una certa mentalità.

Da qui in poi la chiacchierata prosegue ma inizia ad esulare dal basket e inizia a divagare su argomenti vari, come due amici di lunga data che non si vedono da molto, ridendo e scherzando come al bar. Ma questa è un’altra storia. Nota a margine: l’inglese parlato con l’accento romano credo sia una delle cose più belle che esistano.

Tags: Oak Hill AcademyRamsRhode IslandUmberto Brusadin
Francesco Semprucci

Francesco Semprucci

Appassionato di sport e di tecnologia, nasce a Rimini nel 1999. Gioca a basket fin da piccolo e ora studia ingegneria meccanica. Tifoso dei Miami Heat, si interessa ben presto al mondo del Draft e della NCAA. Lo caratterizza un certo feticismo per i giovani e, soprattutto, per il progresso.

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