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So Nineties, il decennio dorato dell’NBA

Davide Torelli by Davide Torelli
26 Novembre, 2020
Reading Time: 13 mins read
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So Nineties, il decennio dorato dell'NBA

Copertina a cura di Alessandro Cardona

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Provare a raccontare “So Nineties”, ed il senso che ha mosso la stesura delle 350 pagine che compongono questo libro edito da Edizioni Ultra, non è particolarmente difficile. Il decennio dei “nineties” risulta ancora oggi uno dei più mitizzati nella storia della lega, per una serie di ragioni abbastanza lampanti, prima fra tutte la crescita della NBA nel mondo in materia di popolarità.

Attraverso un martellamento promozionale favorito da certe singolarità importanti (molte delle quali citate ancora oggi tra “i migliori di sempre” per ruolo), la cronaca stagionale si è progressivamente accompagnata con le storie circostanti. I giocatori sono divenuti il fulcro sul quale costruire la narrazione diffusa, che con il passare degli anni ha assunto toni mitici, talvolta oltre l’effettiva percezione vissuta. Anche perché, almeno in Italia, le informazioni accessibili erano decisamente inferiori all’oggi, sia in materia di partite da visualizzare che a livello di approfondimento.

Per gran parte del decennio – escluse le fasi calde dei playoff – oltre ai risultati quotidiani leggibili alla pagina 230 di Televideo, c’era una partita settimanale, l’appuntamento in TV con Nba Action e quello in edicola con American Superbasket, prima mensile e poi quindicinale dedicato esclusivamente alla lega (ed in piccola parte al College Basketball).

E proprio la raccolta di tutti i numeri del decennio – conservata in questi ultimi 30 anni – ha rappresentato la fonte primaria per ricostruirne le evoluzioni all’interno del libro. Tuttavia, a prescindere dal tiro di Jordan a Salt Lake City del 1998 (oppure da una serie di momenti ancora ridondanti nelle promo della lega di Adam Silver), non tutto l’oro del “decennio dorato” luccicava quanto il sottotitolo può lasciar intendere.

Chiaramente in un periodo tanto vasto preso in analisi, sopravvivono contraddizioni, flessioni, polemiche e momenti cupi, anche negli anni dell’amatissimo “Dream Team” o dei Bulls visti e rivisti in “The Last Dance”. “So Nineties” punta ad evidenziare proprio questo, narrando le singole stagioni come se fossero puntate diverse di una stessa serie tv (inevitabilmente collegate l’una all’altra), ed alternando quei capitoli con altri di approfondimento, con il focus su personalità iconiche o tematiche di cambiamento rispetto al passato prossimo del tempo.

Per farlo, oltre ad avvalersi del punto di vista di Dario Vismara (Sky Sport NBA, per la prefazione) e Roberto Gotta (ex redattore di American Superbasket, oggi giornalista per DAZN, per la postfazione), il libro offre spunti di approfondimento relativi a partite, documentari, libri pubblicati negli anni che possono aiutare a favorire un’analisi anche in chiave odierna, dei fatti raccontati.

Ma la vera porta di accesso al lavoro, è inevitabilmente offerta dalla copertina: una illustrazione ad opera di Alessandro Cardona (ben conosciuto su queste pagine), che prova a riassumerne il contenuto riportandovi cinque dei protagonisti più importanti. Spiegare il perché della loro presenza non solo è doveroso, ma anche utile per introdurre definitivamente il lavoro.

“#SoNineties – il decennio dorato dell’NBA” edito da #UltraEdizioni nella copertina di #AlessandroCardona (https://t.co/ALKhNLf5wf).
Nelle principali librerie nazionali e in tutti gli store online.
Info e link: https://t.co/le19gxqZAk pic.twitter.com/Al1LmIwr3T

— Davide Torelli (@JulianCarax84) November 1, 2020

David Stern

Già raccontata su The Shot dal sottoscritto – e purtroppo ritornata di attualità dopo il tragico decesso che lo ha colpito meno di 365 giorni fa – la storia di David Stern è fondamentale non solo per capire la NBA che fu, ma anche per analizzare quella odierna. Soprattutto nelle sue contraddizioni più discusse, in materia di rapporto tra giocatori (e sindacato) e lega.

Che il lider maximo (divenuto tale nel 1984) abbia apportato progressive modifiche utili a costruire il mito della National Basketball Association, è ormai divenuto postulato; e l’incalzante susseguirsi di accorgimenti in materia anche di gioco (oltre che a livello salariale, comportamentale e di marketing) è sotto gli occhi di tutti.

In verità, come per ogni visionario che si rispetti, il modo con cui le suddette trasformazioni si compiono (o vengono pilotate) non appare sempre cristallino, o comunque disinteressato. E non c’è niente di scandaloso né a dirlo, né ad attuarlo. Non solo l’obiettivo è palesemente sempre focalizzato su una resa maggiore del prodotto in vendita, ma anche la narrazione circoscritta attorno al personaggio viene limata da diktat o interferenze antipatiche, da non lasciare ai posteri, ma destinate a costruire visioni anche complottistiche rispetto a certe vicende.

Non a caso sono passate alla storia le accuse di combine della prima Draft Lottery di sempre, pensata dall’avvocato newyorkese e risoltasi a favore dei Knicks, capaci di accaparrarsi così l’ambito Patrick Ewing da Georgetown. Ma anche le pressioni presunte per il ritiro di Jordan nel 1993 (dopo lo scandalo scommesse), oppure per il rientro di Magic Johnson dopo aver contratto l’HIV. E tutto questo riguarda solo una prima, piccola parte del decennio, nel prosieguo del quale lavorerà tanto e bene per ripulire il gioco dai residui “spigolosi” dello stile “Bad Boys”, cavalcando i primi 50 anni della lega come un momento per ristrutturarne la storia dal lasciare ai posteri, fino alle metaforiche coltellate con la NBPA a fianco dei proprietari, in tempo di Lockout.

Insomma, in una lega di giocatori – promossa nel mondo dai giocatori – in cui si scrivono record e pagine di storia durante partite memorabili, il vero protagonista della storia è il manovratore (quasi) occulto. Il deus ex machina che immagina, organizza, attua e talvolta impone i ritmi in un periodo di trasformazione, che tratteggerà le linee da seguire per giungere alla lega odierna, passando per il primo decennio del nuovo millennio.

Michael Jordan

In fase di pre-stesura del libro, la mia volontà era quella di insistere il meno possibile sulla figura di Michael Jordan, uomo ed atleta sviscerato oltre il possibile nei dettagli più o meno pubblici della sua vita. Giocatore inimitabile ed autentica macchina da soldi, il nome di Jordan è collegato ancora oggi ad uno dei brand sportivi più venduti nel globo, e le sue imprese si replicano talmente stesso da apparir vissute anche a chi non era stato concepito nel suo decennio di dominio.

Ma proprio per questa ragione (il suo dominio assoluto su ogni aspetto delle cronache del tempo), l’intenzione iniziale è apparsa impossibile da mettere in atto. Anche volendolo lasciare il più possibile in background, la sua immagine emerge prepotentemente in evidenza. E non a caso il suo volto appare dietro agli altri nella copertina di Alessandro Cardona, ma più grande nelle dimensioni.

MJ è la principale ragione per cui i nineties della NBA sono ricordati come tali, anzi è la causa diretta di ogni successo promozionale attuato da Stern, anche basandosi sui suoi highlights e le sue imprese.

Probabilmente – azzardo – non esiste un singolo giocatore capace di dare tanto ad una lega, in un periodo perfettamente circoscritto come un decennio. Perché non solo coincide con la sua definitiva salita sul tetto del mondo (vince il primo, agognato, anello nel 1991), ma tutto quello che tocca diviene dorato come se fosse una sorta di Re Mida, anche quando si eclissa.
Anche nelle stagioni in cui Jordan non vince, si parla sempre di loro in primis. Succede in avvio di narrazione, quando i Bulls si scontrano contro il muro dei Pistons, oppure nel periodo del suo primo ritiro, con l’attenzione focalizzata sulle capacità dei cosiddetti “Jordaners” di poter essere competitive, interrogandosi su quale squadra avrebbe potuto riceverne lo scettro.

Dopo l’atteso (e mai insperato) rientro del 1995, la sfida sostanziale per le altre squadre è per il secondo piazzamento stagionale, e durante le contrattazioni che bloccano la prima parte del campionato 1998/99, la domanda che passa sottotraccia non riguarda i tempi di risoluzione della serrata, ma la sua ipotesi di ritorno o ritiro definitivo. Che poi definitivo non sarà.

In tutto questo, un uomo proposto come role model per tutta la prima parte della sua carriera, balza agli onori della cronaca esponendo il proprio lato oscuro, fatto di prepotenze, vizi e conseguenti pressioni. Con le quali riesce non solo a misurarsi, ma a convivere con successo.

Le sue capacità di concentrazione – unite con una competitività ossessiva – lo rendono figura ai limiti del mitologico per rendimento sul campo, e la vittoria di sei finali su sei disputate lo dimostra definitivamente.

Ovviamente è opportuno rendere merito al suo contorno – non certo composto da giocatori di seconda fascia o da organizzazioni improvvisate (basta citare Scottie Pippen, Dennis Rodman, Phil Jackson e Jerry Krause) – ma pur sforzandosi al massimo, appare difficile farlo anche a ritroso. Perché se è vero che ancora oggi MJ restituisce un magnetismo unico, questo emerge anche attraverso parole che si susseguono su una tastiera, o su uno schermo, oppure sulla carta di un libro.

Impossibile non rendergli omaggio, anche volendo riportare le sue contraddizioni al pari delle sue imprese. Una sfida comunque impari, a vantaggio di quest’ultime.

Reggie Miller

In alternanza con le cronache stagionali, in “So Nineties” si presentano capitoli monografici relativi a certi giocatori (o temi particolari) che caratterizzano il decennio. Oltre ad analizzare trend come quello del “salto” dalla High School ai Pro, oppure guardando ai grandi centri che ne percorrono la storia per soffermarsi sui talenti “extrastatunitensi” che iniziano a farsi largo nella lega, sono tante le storie di protagonisti del tempo che meritano approfondimento. E non si tratta mai di “vincenti”.

C’è la storia twinpeaksiana di Brian Williams/BisonDele, l’epopea di Shawn Kemp e quella di Charles Barkley, oltre al motivo per cui Nick Anderson verrà ricordato a vita come “The Brick”, magari suo malgrado. Poi, c’è Reggie Miller. Da qualcuno soprannominato “Hollywood”, sia per appartenenza di nascita alla città di Los Angeles che per quell’attitudine di amplificare i contatti subiti, recitando la parte della vittima in campo, maestro del Trash Talking.

Il Killer rappresenta il prototipo perfetto del beneficiario di un sistema alla ricerca di nuove stelle mediatiche, il che non significa sminuirne il valore assoluto. Anche se, guardando con oggettività alle sue capacità tecniche, è difficile annoverarlo tra i top di ruolo nella storia della lega.

Cresciuto cestisticamente all’ombra della sorella Cheryl, la sua voglia di rivalsa lo trasforma in un agonista unico, soprattutto quando la palla scotta. E le sue sfide contro i Knicks – e più generalmente la città di New York, sotto forma del Madison Square Garden – contribuiscono a renderlo amatissimo dal grande pubblico. Anche quello della Grande Mela, che per rendimento opposto dovrebbe odiarlo.

Canestri sulla sirena, inchini provocatori a metà campo, prestazioni eroiche su caviglie slogate: non manca niente che non giustifichi la presenza di Miller tra gli indimenticabili di un epoca che si basa, anche e soprattutto, sulla diffusione di highlights promozionali. Ma c’è anche molto di più ovviamente, rispetto a semplici clip riguardanti momenti comunque difficili da replicare.

C’è la capacità di un ragazzo venuto dal nulla (o comunque non esattamente “un prescelto”), di rendere gli Indiana Pacers una delle costanti tra le inseguitrici al titolo per gran parte del decennio, coronando il sogno delle Finals appena fuori dall’arco temporale analizzato. Da un certo punto di vista, tra i “non titolati” presenti in narrazione, forse nessuno quanto Reggie meriterebbe di vincere per l’impegno agonistico profuso, considerando il mercato non certo di primo ordine rappresentato.

Purtroppo quando non sono i Knicks o i Bulls a mettersi tra lui e l’anello, toccherà ai Lakers di Kobe e Shaq spazzare via le ultime speranze di successo di Reggie, comunque rimasto tra i personaggi più amati della NBA anche odierna (a maggior ragione con la sua presenza costante come analista televisivo).

Dennis Rodman

Nel decennio in analisi, The Worm si propone come in continua evoluzione, rappresentando le sfumature più grunge degli anni 90 (con qualche passaggio nel glam, che non guasta). Appare campione come ex “Signor Nessuno” dei Pistons, alfiere di Isiah Thomas incarnante l’essenza dei Bad Boys come nessun altro. Poi declina in provocatorio anti-sistema dai capelli colorati in quel di San Antonio, divenendo la “grande distrazione” che si oppone alla consacrazione definitiva di David Robinson agli albori del “sistema Popovich”. Infine torna a dimostrar al mondo la sua indole vincente durante la redenzione di Chicago, grazie all’influenza positiva del padre buono Phil Jackson, come pedina fondamentale nei Bulls del “repeat of three-peat”.

Montagne russe continue, metafora perfetta non solo per la sua carriera, ma anche per una vita vissuta sempre sul filo del rasoio. Purtroppo per lui, quest’ultima, con un numero nettamente inferiore di “lieto fine”. Con poco per cui esultare alla sirena della sfida decisiva.

Che sia considerato il più grande rimbalzista di sempre, uno spostato mentale, difensore magistrale oppure un sostanziale alcolizzato, poco importa. La cosa fondamentale è che Dennis Rodman ha sdoganato una serie di comportamenti (e tematiche) che hanno ampliato la potenza comunicativa dei giocatori della lega, superando autentici tabù e magari lanciando messaggi con la semplice colorazione dei capelli.

In questo, il periodo forse più interessante passato dal Verme nel decennio dei nineties, è quello trascorso a San Antonio. Quello dove la metamorfosi è palese, dolorosa, a tratti insostenibile. Il corpo di Dennis cambia, il suo stile fuori dal campo si modifica, le sue provocazioni anche all’interno dello spogliatoio sfociano nel bizzarro, e non solo per l’ingombrante love story con Madonna, che talvolta lo segue anche dagli spalti.

Resta ancora oggi un personaggio impossibile da emulare, unico nel suo genere, anche e soprattutto in campo. Difficile trovare qualcuno così palesemente disinteressato al lato offensivo del gioco, dimostrando che un rimbalzo o l’annullamento dell’avversario decidono i campionati tanto quanto 30 punti di media.

Solo passando dalle libertà che Rodman si prende nelle sue stagioni agli Spurs possiamo capire la tendenza sbruffona della cosiddetta “Generazione X”, che porta quello stile Hip Hop sfrontato e proveniente dalle strade dei quartieri più complessi d’America, alla ribalta delle cronache. Anche e nonostante i dress code imposti da Stern, vero “nemico” giurato del Verme, in quanto concentrato a mantener una parvenza di dignità all’apparenza della lega, oltre che limitarne le tendenze più violente degli scontri di gioco. Scontri e proteste per i quali Dennis rappresenta un vero maestro, anche sotto la gestione “controllata” di Phil Jackson, che non sempre riesce ad arginarne colpi di testa e scappatelle.

Impossibile ingabbiarlo, così come categorizzarlo da un punto di vista di gioco.

Kobe Bryant

No, gli anni ‘90 non sono il periodo in cui Kobe Bryant diviene il grandissimo giocatore che abbiamo apprezzato. Ma con la scelta numero 13 del Draft del 1996 con cui entra nella lega, contribuisce a modificare un trend fino ad allora considerato sacro: l’importanza di una formazione collegiale prima del “grande salto”. Lui e Kevin Garnett apriranno definitivamente la strada ai vari LeBron James, dimostrando che senza un approfondito lavoro proposto dai guru delle panchine NCAA, si può comunque crescere tanto e bene tra i Pro.

Servono un talento profondo e una attitudine maniacale per la crescita personale, concentrandosi anche sui dettagli apparentemente più superficiali.

Bryant rappresenta meglio di tutti quella generazione cresciuta all’ombra di Jordan, pronta a dominare il decennio a seguire. Nel suo caso, funzionando da secondo violino a fianco di Shaq, i primi tre titoli arriveranno in fila non appena scollinato il nuovo millennio.

Anzi, Kobe non ha mai nascosto di puntare direttamente ad MJ come modello sul quale plasmare la sua struttura di giocatore, e mentre lo osserva provando a carpirne i segreti, riesce comunque a regalarci due momenti che – se li guardiamo a posteriori – rappresentano l’incipit ufficiale di una carriera leggendaria.

Il primo si rileva durante l’All Stars Saturday di Cleveland nel 1997, all’interno di un week end destinato a festeggiare i primi 50 anni della lega (ed i 50 giocatori più grandi per acclamazione). Nel rookie game gioca una partita aggressiva, affamato com’è di mostrare al mondo quanto il divario tra lui ed il resto di una delle classi di esordienti migliori di sempre, fosse inesistente. E solo la sconfitta dei suoi nell’inutile sfida gli preclude il premio di MVP, finito nelle mani dell’impressionante Allen Iverson.

Ma come avverrà anche in futuro, Bryant non si arrende. Passano una manciata di minuti, e subito lo ritroviamo a competere nella gara delle schiacciate, che conquista agilmente (seppur in una edizione non certo memorabile), tra smorfie e sicurezza ostentata. Il ragazzino appare già più avanti di quanto si potesse sperare, e la conferme arriva 365 giorni dopo, al Madison Square Garden.

In quella che dovrebbe essere l’ultima apparizione di Jordan nella partita delle stelle, non solo Kobe si presenta come partente in quintetto, ma addirittura la sfida viene presentata come un ipotetico “passaggio di torcia” tra i due.

Ovviamente se MJ si conquista l’ennesimo MVP della serata, sono proprio il numero 8 dei Lakers e Kevin Garnett ad impressionare con schiacciate roboanti e agonismo oggi difficile da ritrovare in contesti simili. Un ulteriore messaggio a Stern ed al pubblico di appassionati, rispetto ai dubbi sul futuro della NBA: le nuove leve ci sono, sono affamate e determinate a lottare per garantirsi una posizione di vertice negli anni a seguire.

Le aspettative, nel suo caso, non saranno disattese, ed il fatto che i nineties rappresentino l’inizio di una parabola ascendente unica nel suo genere, lo rende giustamente indispensabile nella copertina del lavoro. Oltretutto, la bizzarra coincidenza che la stesura del capitolo a lui dedicato sia coincisa con il giorno della sua tragica morte, rende tutto ancor più surreale. Inevitabile dedicare il lavoro anche alla sua memoria.

Tags: David SternDavide TorelliDennis Rodmankobe bryantMichael JordanReggie MillerSo Nineties
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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