Due titoli negli ultimi tre anni, il quarto anello a distanza di sedici anni dal primo. Soltanto le defunte Houston Comets e le Minnesota Lynx del genio di Cheryl Reeves hanno fatto altrettanto nella storia della relativamente giovane WNBA. Ben 15 apparizioni ai playoff in 20 anni di storia della franchigia, 11-1 di record W/L alle Finals, 3 sweep e solo vittorie all’ultimo atto dei playoffs. Lo storico delle Seattle Storm le inserisce ineccepibilmente in quell’elite di dinastie vere e proprie, che in un modo o nell’altro hanno segnato la storia dello sport americano.
In una città che ha perso la propria franchigia NBA nel 2008, nonostante le diverse invocazioni al ritorno del basket in città, c’è un’altra squadra che tiene in alto (altissimo) la pallacanestro nella Rain City. Sconfiggendo preoccupazioni, difficoltà e infortuni, lontane dalla KeyArena che era stata di Payton e Kemp, altre protagoniste, sicuramente meno atletiche ma anche più vincenti, hanno fatto gioire il (purtroppo non presente) pubblico di Seattle. Andiamo a scoprire, dunque, le protagoniste delle Seattle Storm, la formazione giusta che dovete guardare per appassionarvi alla WNBA e lo spettacolo alternativo (e nemmeno tanto), alla vostra cara NBA.

La star: Breanna Stewart
Se per questo pezzo ho scelto di scomodare un paragone con Paolo Sorrentino e un colosso della cinematografia mondiale, il motivo è anche, e soprattutto, Breanna Stewart. In ogni film di alto livello, c’è bisogno che tutta l’organizzazione sia ottima e funzioni, ma è l’interpretazione del/della protagonista a fare la differenza tra un gran film e un capolavoro. Stesso discorso vale per le Seattle Storm del 2020 (e pure del 2018), un sistema che lavora alla perfezione, reso davvero speciale dell’efficacia della propria prima punta, ossia Breanna Mackenzie Stewart da UConn (una garanzia in ambito femminile).
Premessa: a 26 anni, ha vinto già più di quanto qualsiasi altra coetanea su questo pianeta possa immaginarsi. Della sua indole vincente ne se ne hanno prove già dal college (4 titoli NCAA e altrettanti premi di MOP), in nazionale (oro olimpico a Rio, oro mondiale nel 2018, con annesso MVP) e in WNBA (accoppiata anello e MVP delle FInals quest’anno e due anni fa, metteteci anche il ROTY e un MVP della RS), citando solo i trofei fisicamente presenti nella sua gigante bacheca.
Nonostante l’età, non è una follia dire che Stewart sia la giocatrice di pallacanestro più completa della storia: ha un bagaglio realizzativo infinito, è dominante fisicamente, sa leggere il gioco e sa passare bene il pallone, ha soluzioni in post ed è letale da fuori. Infine, la sua agilità e i suoi 193 centimetri (la stessa combinazione che la rende letale in attacco) le permettono di essere un fattore anche difensivamente, i due inserimenti nel secondo quintetto All-Defense (l’ultimo quest’anno) lo testimoniano, sebbene la fase difensiva sia comunque un suo piccolo neo. La prova di tutto ciò l’ha data in queste Finals e in questa stagione in generale, dove ha dato l’impressione di essere sostanzialmente immarcabile, risultando essere un mismatch vivente.
Per conferma, citofonare A’Ja Wilson, la sua grande avversaria in questa serie finale, che aveva soffiato a Stewie (secondo molti immeritatamente) il premio di MVP della stagione regolare. La go-to-girl delle Las Vegas Aces, a cui è stato affidato l’arduo compito di marcare la numero 30 in canotta giallo-verde, è stata letteralmente spazzata via dal parquet per 120 minuti filati. Stewart ha giocato tre partite da 28,3 punti di media, 7,7 rimbalzi, 2,3 assist e 1,7 stoppate ad allacciata di scarpe, con 3 palle perse totali e il (udite udite) 76,7% di True Shooting su 17 FGA e 3,3 liberi tentati a gara.
Wilson (o chi per lei) è stata perennemente punita quando le ha tolto il tiro, venendo bruciata in partenza o con un taglio, e le è andata peggio quando ha fatto un passo indietro per aspettarla e contenerla, subendo jumper su jumper (65% da tre per Breanna su 6,7 tentativi). In questo senso, Gara 1 della serie, in cui l’MVP delle Finals ha scritto 37 punti e 15 rimbalzi, è un clinic di tecnica e versatilità che ogni appassionato di pallacanestro dovrebbe vedere.
Questi numeri, le sue caratteristiche fisiche e tecniche ed il suo essere una realizzatrice implacabile avvicinano Breanna Stewart ad un paragone (ovviamente rapportato al contesto femminile/maschile) con il collega Kevin Durant, che ha subito lo stesso logorante infortunio da cui la stella delle Storm è rientrata alla grande quest’anno. In realtà, Stewart, immersa nel sistema Seattle, ha sviluppato delle letture forse superiori a KD. I 4 assist di media ai PO non lo testimoniano completamente, ma la sua capacità di fare la scelta giusta è stato quello che le ha permesso di fare questo decisivo step in avanti.
La veterana: Sue Bird
Per restare in tema grande schermo, avete presente quei personaggi “navigati”, che dovrebbero rivestire un ruolo marginale e invece si rivelano la chiave di volta di una sceneggiatura? Ecco, la stagione di Sue Bird potrebbe esserne la perfetta incarnazione.
Anche lei, come Stewart, ha avuto dei problemi (al ginocchio) che l’hanno costretta a restare fuori per tutto il 2019. A 39 anni suonati, vederla ancora in campo non era per nulla scontato, figuriamoci vederla ancora dominare. Mettere mano al libro dei record, a poche settimane dal suo quarantesimo compleanno, è cosa per pochi eletti, non a caso tale LeBron James ci ha tenuto a rendere pubblico il suo supporto alla Bird, attraverso le proprie storie di Instagram. I due hanno parecchie cose in comune, una su tutte: alla loro diciassettesima stagione da pro hanno conquistato il proprio quarto anello personale.
How’s that 4️⃣ Year 17? ?@S10Bird ? @KingJames pic.twitter.com/qqpLG6yjjG
— WNBA (@WNBA) October 12, 2020
Anche in termini di milestones i due vanno a braccetto: Sue Bird in Gara 1 delle Finals ha sgretolato il record di assist in una partita di finale, mettendone a referto ben 16, il suo career high. Ciò che rende questa veterana, termine che non le si addice particolarmente, così stupefacente e rivoluzionaria, è la sua innata capacità di rendere un passaggio funzionale e, al contempo, spettacolare, fomentando il dibattito su “l’utile e il dilettevole”, che tiene banco nel basket di ogni genere e categoria.
Se per efficienza il secondo violino di questa meravigliosa orchestra è stata la giocatrice che leggerete appena sotto, a livello emotivo e nello spogliatoio Bird è stata la vera (unica, sola ed incontrastata) leader di questa squadra. Oltre ad aver portato la sua mentalità (più che) vincente alle giovani delle Storm, Sue ha anche disputato una serie da 11 assist di media (47,1 di AST%, 55,9 di AST Ratio e 5,5 di rapporto assist/perse!), avendo anche il miglior offensive rating di squadra nelle Finals (128,8… dato influenzato da quello di squadra, ma significativo che sia la migliore), giusto per non farsi mancare nulla. Infine, la raccolta dei suoi migliori assist e canestri in queste Finals, è un contenuto che terrei in considerazione se creassi un’ipotetica cineteca della pallacanestro internazionale.
La co-protagonista: Jewell Loyd
Riuscire ad incidere, non primeggiando in nulla, ma eccellendo in tutto o quasi, è una dote rara, anzi rarissima. Ci è riuscita Jewell Loyd, una pedina fondamentale per il successo delle Storm. È stata la seconda miglior realizzatrice della sua squadra alle Finals: avere due giocatrici che si caricano sulle spalle la leadership tecnica (una) e mediatico-emotiva (l’altra), le hanno consentito di subire meno pressioni e di svolgere al meglio le proprie mansioni sul rettangolo di gioco. Trovare soluzioni a giochi rotti, essere un’alternativa offensiva credibile a Stewart e/o Bird e dire la propria difensivamente: adempiendo a questi compiti, Loyd ha nuovamente trovato la sua dimensione da seconda punta.
Se per tutta la stagione, playoffs compresi, era stata fondamentale con le sue percentuali dall’arco, imprescindibili per il sistema di gioco di Seattle, durante le 3 gare di serie finale ha decisamente faticato. Nulla di grave, visto che alle Finals Breanna Stewart, in questo aspetto e non solo, ha pagato la cauzione per tutte. Sicuramente è da ammirare la capacità di adattamento di Jewell Loyd, capace di tenere 18,3 punti di media nonostante abbia tirato con il 23,1% da tre su 4,3 tentativi a gara.
Se, invece, vi piacciono i parallelismi con la NBA e i riferimenti a Kobe (ammetto di non essere un fan di ambedue le cose), potremmo tracciare una linea di collegamento tra Loyd ed Anthony Davis. Entrambi hanno vinto il proprio anello da secondi violini ed entrambi lo hanno fatto indossando due diverse varianti dorate delle Mamba V in queste Finals, storicamente parallele. Non a caso, il soprannome di Jewell è ‘Gold Mamba’, avendo anche avuto un intenso rapporto con KB iniziato prima di entrare in WNBA.
Parlando di basket vero, vi invito a guardare questo video della serie Detail, targata ESPN e Bryant, che attenziona il gioco della protetta dell’ex-Laker. Loyd ha voluto ricordare Kobe e Gigi nel suo discorso post-vittoria, dedicando l’anello a loro e a Breonna Taylor, altra grande protagonista (purtroppo e per fortuna) di questa particolarissima annata.
“This year has been a lot for me. This is for Kobe, Gigi and the Bryant Family and for Breonna Taylor.”
— ESPN (@espn) October 7, 2020
Jewell Loyd, the Gold Mamba, spoke after winning the WNBA championship. pic.twitter.com/yyIwnr2STV
La sorpresa dietro le quinte: Alysha Clark
Così come in ogni sceneggiato di successo c’è qualcuno che si da un gran da fare affinché tutto possa andare per il verso giusto, allo stesso modo, in ogni super team degno di questo nome, c’è un elemento non appariscente e nemmeno ingombrante tatticamente, ma essenziale ai fini dei successi di squadra.
Per le Seattle Storm questa persona è indubbiamente Alysha Clark, una giocatrice che fa tante di quelle cose su un 28×15 che è realmente difficile elencarle tutte. Si potrebbe cominciare col dire che è stata la migliore tiratrice da tre in percentuale della regular season accorciata (tra quelle “qualificate” per volume a questo titolo, 52,2% su 67 triple) e, allo stesso tempo, è stata inserita nel miglior quintetto difensivo della WNBA.
In realtà, nessuno avrebbe obiettato se fosse stata premiata come DPOY, in virtù del suo stratosferico impatto, ma l’assegnazione di quel riconoscimento è stata decisa dai tifosi, non sempre perfettamente imparziali nelle preferenze. Difatti l’effettiva vincitrice del premio, Candace Parker, con tutto il rispetto per una leggenda assoluta, non è stata nemmeno inserita in nessuno dei due quintetti difensivi, scelti dai coach…
Comunque, semplificare il valore di Clark come un’elevazione all’ennesima potenza del concetto di 3&D potrebbe addirittura risultare riduttivo. Per intenderci, dall’alto dei suoi 178 centimetri (la media dell’altezza di una giocatrice WNBA è di circa 180 cm, in NBA è qualcosa in più di due metri) ha, ad esempio, tirato giù 2 rimbalzi offensivi a gara durante le Finals. Parliamo della stessa giocatrice che ha avuto il miglior Defensive Win Share della Regular Season (0,220) e che è passata dall’ultimo Usage di squadra in RS (12,1%) all’ottavo nei PO (14,5%), fino al quarto (senza considerare Morgan Tuck, in campo solo 7 minuti) alle Finals (17,5%).
Riuscire ad adeguare il proprio impatto e la propria presenza sul gioco di squadra è cosa da poche, per non dire pochissime. Alysha Clark è riuscita a farlo garantendo il solito impegno difensivo stratosferico, dimostrando di avere la mentalità giusta per essere protagonista (pur non rivestendo un ruolo di primo piano) in una franchigia in cui la mentalità (vincente) è alla base di tutto.
Il regista: Gary Kloppenburg
Ultimo, ma non in ordine d’importanza, colui a cui vanno i meriti di aver diretto la splendida ed elaborata trama delle Seattle Storm. Come in tutta la narrativa delle gialloverdi, ad una storia particolare si intrecciano delle evoluzioni tattiche importanti. Innanzitutto, colui che avete visto seduto sulla panchina delle campionesse WNBA, non è il vero “titolare” nel ruolo di capo allenatore. Il detentore del posto di Head Coach delle Strom è Dan Hughes, che ha guidato questa squadra alla conquista del titolo nel 2018. A Hughes nella primavera nel 2019 è stato diagnosticato un cancro all’appendice, che lo aveva costretto ad assentarsi anche nella scorsa stagione, motivo per cui ha potuto usufruire del protocollo medico per la protezione dei soggetti a rischio, ottenendo l’esenzione dall’ingresso nella bolla della IMG Academy. Per sostituirlo, Seattle ha scelto il suo assistente di fiducia, Gary Kloppenburg, che lo aveva già rimpiazzato ad interim nel 2019.
Se a coach Hughes vanno i meriti di aver rafforzato la cultura vincente di questa squadra e di aver creato un sistema di gioco quasi futuristico per il basket femminile, a Kloppenburg va dato atto di essere riuscito ad interpretare il nuovo incarico con personalità, senza snaturare il gioco del suo collega, ma riuscendo ad apportare alcuni suoi miglioramenti personali al meglio. Da questa combinazione di fattori, in questa stagione è venuto fuori il sistema di gioco quanto più “moderno” e vicino alla NBA che si possa ammirare nella lega delle W. Se le NBA Finals sono state la testimonianza dell’evoluzione del gioco, pure al femminile, almeno per quanto riguarda le Storm, questo processo è sotto gli occhi di tutti. Seattle, che come abbiamo visto può godere di interpreti di primissima fascia, propone una pallacanestro spumeggiante, estremamente godibile e dinamica. In particolare, il loro attacco potrebbe essere un ottimo elemento di studio del gioco, visto che i concetti che mette in campo chiamano in causa argomenti ricorrenti nelle discussioni su the game.
Se lo star power non manca (Stewart), è affascinante notare come tutto si muove attorno a lei. Quella bi-campione WNBA è una squadra molto perimetrale, che sfrutta parecchio il tiro da tre e che fa della fluidità nella circolazione di palla il suo punto di forza principale. Venendo ai numeri, è impressionante il dato che riguarda la percentuale di canestri dal campo assisti delle Storm: si tratta del 68,8% di assisted FGM in Regular Season, un numero che arriva fino al 77% ai playoff, entrambi i dati sono ovviamente i più alti della lega.
Seattle è anche la seconda squadra per %FGA da 3 punti nei playoffs ed è nella stessa posizione per percentuale da dietro l’arco in RS (39,4%). Capacità di adattarsi a ciò che gli viene lasciato dalle difese e dalle situazioni, muovere tanto e bene il pallone e innalzare il proprio livello di gioco ed intensità durante i momenti cruciali della stagione. Arrivando a Kloppenburg, dunque, possiamo dire che, in un attacco dinamico così speciale, era impossibile imprimere la propria impronta se non mirando ai punti deboli. La sua abilità, difatti, è stata quella di guardare i passaggi statici del proprio sistema, ovvero le rimesse, sia in attacco che in difesa. Qui ha inserito le proprie idee, come in questo schema denominato EOG Stagger, utilizzato nelle rimesse offensive, spesso da lui disegnato durante i timeout.
Seattle Storm’s EOG Stagger by Basketball Inside Official. pic.twitter.com/bTkZlRI3ce
— Gaetano Gorgone (@gorgo147) October 24, 2020
In pratica è appunto uno stagger (due blocchi sfasati in fila per liberare un’uscita), che libera la ricezione della guardia (tendenzialmente Loyd) e offre a Stewart un ingresso nei giochi migliore, sia rollando sull’arco quando gioca da 4, che con lo short-roll quando è impiegata da 5 (sì, capita). La vera innovazione di Kloppenburg contro le rimesse trae le sue radici negli addirittura defunti Seattle SuperSonics, come raccontato da coach Marco Crespi.
Carlotta, assistente a St. Jose State, riceve dopo ogni sua partita il feedback via Whatsapp dal nonno Bob.
— Marco Crespi (@marcocrespi) October 4, 2020
Nonno Bob Kloppenburg, chiamato come assistente per la difesa dai Seattle SuperSonics nel 1985. Per impiantare i concetti della sua SOS pressure defense. pic.twitter.com/MEsmGyAgXO
In sostanza, come scritto dall’ex CT dell’Italbasket femminile, Bob Kloppenburg, nonno di Gary, impiantò il suo concetto difensivo, la SOS Pressure Defense, nei mitici Sonics nel 1985. A 35 anni di distanza, il nipote sta tenendo vive le idee del suo avo, trasmettendole alle sue Seattle Storm. Il fondamento di quella sorta di zona aggressiva era “Act, Don’t React”, un’impressione che hanno spesso dato le Storm del 2020: influenzare il più possibile l’attacco avversario. Lo schema principale della SOS Pressure Defense, applicato da Seattle, concerne appunto le rimesse dal fondo avversarie. In virtù dell’intenzione generale della difesa, la pratica consiste nello spingere le portatrici di palla avversarie verso l’esterno del campo, aumentando la zona di pressione in determinati checkpoints. Effettuato ad alta intensità è risultato efficace.
SOS Pressure Defense System – Seattle Storm. pic.twitter.com/NixCvFTkJK
— Gaetano Gorgone (@gorgo147) October 24, 2020
Questo è ciò che Gary Kloppenburg ha portato alle Seattle Storm campionesse WNBA 2020, un attacco (già) speciale e una difesa ancor più reattiva, tali da definirle “La Grande Bellezza” del basket femminile.