Se, come me, seguite altri sport oltre al basket NBA, è molto probabile che ottobre abbia rappresentato un po’ la fine del vostro sogno boccacciano. Eravamo lì, intorno al fuoco, a raccontarci le novelle di Ser Jimmy Butler, del giullare infuocato Jamal Murray e del prode LeBron James, lontano da ogni problema del mondo e, a un tratto, da Boccaccio siamo passati ad Edgar Allan Poe: la morte rossa entra nel nostro castello delle feste felici e porta con sé la disperazione: tamponi dei giocatori positivi, partite spostate, campionati a rischio, risultati a tavolino. Terribile.
Come i poeti dell’Arcadia, Adam Silver ha avuto la visione di un mondo diverso, in cui fosse possibile praticare la propria arte nelle migliori condizioni possibile, senza che il mondo esterno potesse influirvi. L’arte di cui parliamo non è la poesia ma la pallacanestro e il luogo non sono i boschi idilliaci del Peloponneso, ma un enorme parco divertimenti di Orlando, in Florida (due posti con niente in comune, se non l’essere estremità peninsulari delle rispettive nazioni. Una coincidenza tutto a un tratto interessante se parliamo di luoghi per l’autoisolamento. Forse.).
La Bolla, quest’intuizione così improbabile a primo impatto ma che oggi sembra, e a conti fatti lo è, l’unico modo possibile per portare avanti senza rischi per la salute una lega sportiva professionistica nella nuova realtà in cui il Coronavirus ci ha costretto a vivere da quasi un anno a questa parte. Un’intuizione, tra l’altro, così rivoluzionaria, da sviluppare un interesse narrativo e un fascino per l’aspetto gestionale di un campionato pari a quello delle storie sportive che si sviluppano al suo interno durante una stagione.

Se voleste degli esempi a corredo di quanto ho scritto, provate ad andare indietro con la memoria di qualche mese, durante quei giorni in cui il vostro twitter era on fire perché i giocatori NBA si lamentavano del cibo servito durante i primi giorni, o di quel video in cui ESPN ci mostra come funzionano i barbershops della bolla (più di 600k visualizzazioni, “battuto” solo, tra i video a tema NBA del canale, da quelli in cui Stephen A. Smith fa ciò che sa fare meglio: triggerare sprovveduti).
Chris Chiozza shares his Bubble meal… pic.twitter.com/kjrj2lh17R
— NBA Central (@TheNBACentral) July 8, 2020
Tra un vlog di Matisse Thybulle e un articolo di Marc Stein, inviato per il NY Times, abbiamo piano piano avuto un assaggio della vita scandita dalle regole elencate in quel report di 113 pagine che hanno ovviamente costituito lo scheletro del successo della bolla e della vita al suo interno. Abbiamo visto le storie dei giocatori Celtics dove Kanter aiuta Tacko Fall a nuotare e lotta con Marcus Smart, Ben Simmons e Kyle O’Quinn che vanno a pesca, Jayson Tatum che legge le favole della buona notte al figlio su FaceTime.
Siamo stati testimoni, per quanto possibile, di dinamiche inedite e uniche in questa sorta di villaggio NBA. Penso poi di parlare a nome dell’intera redazione di The Shot e di chiunque altro abbia velleità di giornalismo sportivo se dico che la Bolla è la nuova definizione di Sogno con la S maiuscola.
Tutto questo successo è il frutto di un lavoro costante e meticoloso operato da numerosi attori, impegnati nei settori più vari.
C’è ovviamente l’NBA, coi suoi Adam Silver e i suoi Mark Tatum, che hanno preso le migliori decisioni dopo aver ascoltato ogni istanza, ma anche i David Weiss, l’NBA senior vice president, l’uomo che fin da gennaio si è occupato di monitorare lo sviluppo del virus mantenendo l’organizzazione costantemente informata. Weiss è stato anche l’uomo chiave nelle relazioni della Lega con la Food and Drug Administration per l’approvazione del “SalivaDirect”, il tampone creato grazie agli sforzi congiunti di NBA, NBPA e dell’università di Yale.
Ma c’è anche l’Associazione dei Giocatori appunto, più presente che mai ad ogni livello della discussione. Dalle videocall di Adam SIlver con Chris Paul, Kyle Lowry e Dwight Powell per discutere periodicamente dei problemi e dei bisogni da affrontare per i giocatori, a figure più “istituzionali”, come Michele Roberts, direttore esecutivo della NBPA, presente nella bolla e pronta ad ascoltare ogni voce e il dottor William Parham, responsabile NBPA per il benessere e la salute mentale, che ha organizzato una delle componenti più necessarie per gli abitanti nella bolla: supporto psicologico professionale in loco 24/7 e aiuti complementari a quelli istituiti dalle singole franchigie.
In ultimo, l’enorme lavoro del “terzo settore”, ovvero tutti i professionisti che, una volta accettato l’invito della NBA, si sono sottoposti ad un regime ulteriormente severo (la loro presenza era prevista solo ed esclusivamente in funzione del loro lavoro, nessuna libertà concessa): dallo staff degli hotel che hanno coperto all’incirca 106mila notti in questi tre mesi agli chef esterni al parco divertimenti, che hanno preparato all’incirca 4000 pasti a settimana, tutti sotto il controllo di Kelly Flatow, responsabile di, sostanzialmente, qualunque cosa riguardasse la vita dei giocatori senza la palla in mano.
Un lavoro mastodontico, ma capace anche di straordinaria minuziosità, come quando si è trattato, per esempio, di procurare a JaVale McGee un particolare tipo di spillo per compressore, necessario per gonfiare le ruote della sua bici, di cui il parco era sprovvisto.
Il lavoro nella bolla è stato talmente grande da aver lasciato alcune parti notevoli fuori dall’attenzione mediatica più ampia. Un esempio potrebbe essere quello della scuola, sì c’era una scuola nella bolla, prevista perché l’ingresso delle famiglie sarebbe stato possibile solo dopo l’inizio dell’anno scolastico, spingendo dunque alcuni giocatori a chiedere la creazione di uno spazio in cui i figli non dovessero perdere dei giorni di lezione per stare, dopo due mesi di separazione, con i loro padri.
they even have a bubble school for the kids ???✏️? @thenbpa @baxter pic.twitter.com/J8tlTKzogB
— NBA Bubble Life (@NBABubbleLife) September 8, 2020
Questo esempio ci porta ad un altro successo, anche questo meno celebrato, purtroppo, un po’ meno scintillante e con molti più bambini. A 150 miglia di distanza da Disneyworld, alla IMG Academy, il 24 luglio riprendeva una versione condensata della WNBA (e The Shot l’ha raccontata, su Pink&Roll) all’interno della cosiddetta “Wubble”, che ha ospitato non solo le squadre, ma anche alcuni dei figli delle giocatrici per tutto il tempo.
Il tema della disparità nel trattamento tra divisione maschile e controparte femminile è al suo culmine da un paio d’anni e non è certamente questo il posto migliore per parlarne, ma se da un lato si può considerare la ripresa della WNBA un altro grande successo, dall’altro torna certamente a ronzare in testa quel discorso sull’equità, quando ad uno dei più grandi parchi divertimenti del mondo, con ogni comfort, viene contrapposto il campus di un liceo dal quale sono emerse testimonianze decisamente poco incoraggianti dalle giocatrici sui social.
Un discorso sentito dai colleghi maschi stessi, che hanno offerto il loro supporto, come Kyrie Irving che ha costituito un fondo da un milione e mezzo di dollari per le giocatrici che hanno deciso di non prendere parte alla ripresa della stagione, o Avery Bradley, che ha silenziosamente donato 30.000 dollari di giochi e attrezzature per i bambini presenti nella bolla WNBA.
nah dat ain’t it https://t.co/4GhXt3EEVQ
— Ja Morant (@JaMorant) July 7, 2020
Ma, come ogni cosa, la bolla ha avuto un costo, che va ben oltre i 180 milioni di dollari investiti per realizzarla. Il “peso” mentale che quest’esperienza ha avuto sui suoi partecipanti è stato poco discusso e lo si è fatto, prevalentemente, in termini speculativi nei primi giorni.
LeBron James è uno dei pochi che si è sbilanciato a riguardo e le sue parole, per quanto pronunciate in tono scherzoso, non sono certo leggere:
Lakers’ LeBron James on whether he was ready to leave bubble after Bucks refused to play: “I’ve had numerous nights & days thinking about leaving. I think everyone has, including you (media) guys. There’s not 1 person who hasn’t (thought), “I’ve got to get the hell out of here.’” pic.twitter.com/qKIZzlzRp1
— Ben Golliver (@BenGolliver) August 30, 2020
Parliamo infatti di un lungo periodo, da luglio a ottobre, da vivere lontano da famiglie e affetti e sottostando ad un severo regime di regole da rispettare. Per quanto buone possano essere le intenzioni, una forte componente alienante è inevitabile ed è certamente uno degli elementi che rendono impossibile l’adozione di questo modello per lo svolgimento di un’intera stagione.
Il migliore a raccontare “the dark side of the bubble” è stato probabilmente Ben Golliver, che sulla sua esperienza nella bolla ha scritto anche un libro, in questo articolo per il Washington Post.
Nell’articolo appena citato, Golliver fa infatti un’affermazione sacrosanta: la bolla è stata un cerotto, non la cura. Una cura che sembra sempre più difficile da formulare, vista la nuova impennata di contagi a livello globale.
L’NBA cercherà sicuramente di tornare, quanto più possibile, nelle arene, i cui ricavi, diretti e indiretti, costituiscono circa il 40% dei guadagni delle franchigie. Alcuni stati permettono effettivamente lo svolgimento di spettacoli e esibizioni sportive con pubblico: prendendo ad esempio la NFL, in 7 stati in cui gioca anche almeno una squadra NBA, si sono tenute partite con un pubblico consiste in circa il 10% della capienza massima (Ohio, Florida, Tennessee, North Carolina, Indiana, Texas, Colorado. Diventano 8 se si considera che il Wisconsin avrebbe in programma una prima apertura a novembre), ma una percentuale così irrisoria in spazi decisamente più ampi di un’arena NBA lasciano poche speranze.
L’unica certezza è che un gruppo di persone sta studiando ogni giorno la migliore strategia per non lasciarci senza lo sport più bello del mondo, e che quel gruppo è lo stesso che ha ideato e costruito la Bolla, un esperimento perfettamente riuscito che è già storia dello sport.