Che la stagione dei Los Angeles Lakers si sia conclusa con una inedita (quanto bizzarra) cerimonia solitaria con il Larry O’Brien Trophy, lo sappiamo tutti perfettamente. Per certi versi, in modo piuttosto lineare se consideriamo quanto, per molti, i ragazzi guidati da Frank Vogel fossero i potenziali favoriti già ai nastri di partenza, principalmente per l’aggregazione a roster di Anthony Davis.
Certo, il contorno poteva lasciar a desiderare se paragonato alle disponibilità dei fratelli-figli-unici Clippers, ed il chilometraggio di un LeBron reduce da una stagione non certo entusiasmante poteva offuscare un’evidenza materializzatasi in questa postseason, partita dopo partita. E cioè che quei due sono, almeno al momento, la coppia più forte della lega in entrambi i lati del campo.
La decisività dell’ex Pelicans, in questo, si è per certi versi rivelata più pesante di quanto previsto, e di per sé è pazzesco. E mentre uno dei reietti del gruppo – Dwight Howard – chiudeva la stagione con una improbabile tripla da poco meno di metà campo (e nella Città degli Angeli si usciva in strada a festeggiare in barba alla pandemia in corso), era facile dimenticarsi le origini di questo successo, complice una stagione lunghissima, terminata quasi quando avrebbe dovuto ripartire con la consueta preseason.
Un viaggio iniziato nella Christmas Night 2018, con il successo gialloviola alla Oracle Arena ed il famoso infortunio del neo arrivato James, crocevia di un campionato carico di aspettative e naufragato con un ennesimo mancato approdo ai playoff.
Le cause della disfatta, per quanto discusse allo sfinimento, erano sotto gli occhi di tutti: un gruppo mal amalgamato con il famigerato young core distante dai senatori capitanati da LeBron, la guida discutibile di un coaching staff inadatto a gestire tanta pressione, il numero elevato di infortuni sofferti ed una difesa decisamente insufficiente per sperare di competere nella Western Conference.
Poteva bastare l’arrivo di un potenziale top 5 NBA (a star larghi) per risolvere tutto? Difficile, considerando il numero di partenti per la sua acquisizione, ed una free agency chiusa in modo deludente, con la beffa di Leonard accasatosi nell’altra Los Angeles, e la consolazione dell’arrivo di DeMarcus Cousins. Una scommessa, quest’ultimo, destinata a sparire molto prima dell’inizio, con il famoso infortunio di ferragosto che ne cancella ogni velleità di riscatto.
Tuttavia, lo staff tecnico rafforzato attorno al nuovo coach Frank Vogel – con l’aggiunta di Lionel Hollins e Jason Kidd, accanto a Phil Handy, Miles Simon, Mike Penberthy e Quinton Crawford – appare una buona base di partenza per risolvere i principali problemi tattici. Ed il ritorno di Rondo e McGee (insieme all’approdo di Howard) completano un gruppo che necessità di un collante forte, capace di guidarlo con determinazione: ruolo perfettamente ricoperto da LeBron James.
È grazie ad una sua intuizione che i Los Angeles Lakers riescono a diventar “squadra”, con il raggiungimento di un equilibro complesso da mantenere fino in fondo. E che quando succede, difficilmente non garantisce risultati importanti. Volendo semplificare, tra i gialloviola ed il trofeo di campioni possiamo riassumere tre momenti importanti, destinati a fungere da spartiacque per quel viaggio di cui sopra, terminato in modo impeccabile sul tetto del mondo.

1) Il pre-camp a Las Vegas
La notizia emerge nei primi giorni di agosto, prima dell’infortunio di DMC ed a qualche mese di distanza dall’avvio degli allenamenti ufficiali: il Re vuole iniziare prima del previsto, ed invita vecchi e nuovi compagni di squadra in una sorta di training camp informale in quel di Las Vegas.
Cinque giorni di allenamenti (due ore e mezza ciascuno), ognuno si paga la sua stanza al Wynn Hotel con l’obbligo di cenare tutti insieme, a sera, dopo le sessioni previste al centro sportivo Impact Basketball. Il tutto destinato a terminar un giorno prima del consueto Media Day, prima di avviare il camp canonico in vista delle gare pre stagionali.
Il successo dei Lakers si forgia dal 22 al 26 Settembre 2019, quando in modo quasi autogestito, il roster inizia a conoscersi, passando del tempo insieme anche fuori dal campo, a seguito dei primi tentativi di convivenza sul parquet. Del resto, rispetto alla stagione precedente sono 8 i nuovi giocatori, e considerando le potenziali complicazioni di una preseason che porterà la squadra fino in Cina per due gare di esibizione, è obbligatorio gerarchizzare da subito lo spogliatoio. Perché in fondo sono state le gerarchie definite ed accettate, a rendere il gruppo gialloviola “da titolo”.
Importante riconoscere subito la guida di LeBron, che a sua volta incorona il tanto desiderato Davis come giocatore più importante della squadra. Lo mette in chiaro fin dalle prime interviste, proponendosi come “secondo violino offensivo al suo servizio”, ponendolo al centro del progetto. Di contro, l’ex Wildcats risponde di ambire al premio di “Defensive Player of the Year”, a conferma di un obiettivo comune da raggiungere solo con l’aiuto degli altri: vincere.
Se tutti sono d’accordo da subito – stringendo una sorta di patto – sarà più difficile disunirsi alle prime difficoltà.
I risultati di questo rendez vous prolungato ed anticipato, si vedono quasi subito. Vogel ed il suo coaching staff trasformano la difesa attorno ad AD, e la squadra risponde pur dopo esser uscita sconfitta proprio contro i Clippers nell’opening night. Il supporting cast continua a convincere a fasi offensive alterne (soprattutto per efficacia da dietro l’arco e conseguenti spaziature), ma è innegabile che chi ben difende è a metà dell’opera, quando di tempo per affinare gli automatismi ce n’è a bizzeffe.
I Lakers si portano agilmente in vetta alla Conference, magari non convincendo i puristi del gioco, ma dimostrandosi efficaci, vincenti e tremendamente uniti. Lo spirito di gruppo impressiona, anche semplicemente osservando i comportamenti in panchina dei giocatori meno impiegati, ed in campo quella comunione di intenti palesemente assente la stagione precedente, appare tangibile.
2) La tragedia di Calabasas
È domenica 26 di gennaio, e siamo già entrati nel tragico 2020, un anno destinato a passar alla storia come il più drammatico per l’umanità in epoca moderna. I Lakers sono di scena a Philadelphia, ed escono sconfitti per 108 a 91. Terminano così una serie di cinque partite in trasferta inaugurata con una convincente vittoria a Houston, e proseguita nella costa est d’America con una roboante debacle al TD Garden, ed i successi prevedibili nella Grande Mela con Knicks e Nets.
Ancora una volta, i detrattori dei gialloviola sottolineano quanto la squadra soffra contro le potenziali “contender” (per quanto i Rockets rientrino tra queste), come se non fosse lecito sbagliare una partita, seppur la sconfitta contro i rivali dei Celtics appaia abbastanza indigeribile.
LeBron chiude con 29 punti, sorpassando Kobe Bryant al terzo posto della classifica dei realizzatori ogni epoca.
Come successo la stagione precedente con il superamento di MJ, le televisioni ed i social ne parlano, e la sconfitta quasi passa in secondo piano, in un momento chiave del campionato in cui la prossima partita in calendario è l’ennesimo scontro con i Clips.
Poi, succede l’imprevedibile, la tragedia di Calabasas. Un momento epocale e per certi versi generazionale, che colpisce il mondo dello sport: Kobe Bryant muore insieme alla figlioletta Gianna e ad altre persone, l’elicottero sul quale sta viaggiando si schianta su una collina circostante a Los Angeles.
I volti dei giocatori “rubati” da una telecamera al loro atterraggio a casa, rivelano la portata del dramma. Un colpo difficile da subire, trattandosi di una presenza fissa nella vita del gruppo, spesso in prima fila allo Staples Center, e comunque rappresentante la franchigia come forse nessun’altro. Appena dieci anni prima, l’ultimo ad aver consegnato il titolo alla città, il sedicesimo. Il modello da seguire per riportare i gialloviola ai vertici della lega.
Tra i fans sconvolti che presidieranno per giorni l’area antistante lo Staples Center, si fa subito vedere un Quinn Cook in lacrime, a testimonianza di quanto il dolore squarci lo spogliatoio losangelino. La partita con i Clippers viene rimandata, quella seguente contro i Blazers è un disastro emozionale. Un evento simile può segnare l’intera stagione, minare gli equilibri del gruppo, render privo di senso ogni obiettivo comune. Oppure trasformarsi in una forte motivazione.
“Vincere per Kobe” diviene un mantra ridondante, a tratti destinato ad apparire fastidioso per retorica, ma sicuramente acquisisce un valore tangibile per tutti i componenti dello spogliatoio, staff incluso.
L’ultima commemorazione all’eroe gialloviola scivola via tra la commozione, i Lakers fanno appena in tempo a dimostrarsi gagliardi nel respingere i soliti Clippers nella sfida di cartello domenicale, e poi il destino ci mette ancora lo zampino. Stavolta, il problema all’orizzonte si manifesta interessando un area più vasta della Lakers Nation, della California o degli Stati Uniti interi. È una questione globale.
3) La pandemia, lo stop, la bolla
La NBA è la prima lega professionistica statunitense a percepire la portata della pandemia in arrivo, fermando i giochi ai primi contagi emersi. La sospensione lascia basita quella parte d’America che ancora crede alle sottovalutazioni mediatiche del problema, amplificate dall’atteggiamento del Presidente in carica. Poi, il COVID-19 impatta sull’universo a stelle e strisce con la stessa violenza che abbiamo conosciuto nel nostro paese, tristemente in anticipo rispetto al resto d’Occidente.
La stagione si ferma a tempo indeterminato, i giocatori si trovano confinati in casa come gran parte dei comuni mortali, impossibilitati ufficialmente ad allenarsi insieme. Destinati a rischiar di perdere la forma, e l’abitudine al gioco.
Ammesso che si riparta, quell’equilibrio raggiunto con tanta determinazione rischia nuovamente di vacillare, per quel che può contare. Ma evidentemente la concentrazione di LeBron e compagni si mantiene alta, mirando al titolo. Addirittura si vocifera di allenamenti in gran segreto contravvenendo alle imposizioni statali, per non perdere lo smalto in attesa di un segnale.
E la svolta arriva con la Bolla di Orlando, con l’accordo tra Silver e la NBPA per una ripresa estiva del campionato in un’area teoricamente incontaminata, controllata, dove il virus non deve entrare.
Mentre si discute sulla sicurezza dell’operazione – e si incorona il Walt Disney World Resort in Florida come luogo ideale per accogliere la visionaria prospettiva – il brutale omicidio di George Floyd spariglia ancora le carte in tavola. Nonostante le restrizioni, un’America stufa delle disuguaglianze razziali si riversa in strada, protestando per i diritti civili delle minoranze, generando rivolte difficili da sedare che rischiano quasi di sfociare in una sorta di guerra civile.
La ripresa della stagione è sovrastata da qualcosa di più importante, molti giocatori si uniscono alle proteste, che coincidono anche con un’evidenza statistica rispetto all’epidemia in atto: sono le stesse minoranze che subiscono la brutalità gratuita della polizia, a morire maggiormente a causa della pandemia.
Per molti “la bolla” non potrà mai essere sicura, ed Avery Bradley – giocatore chiave nella stagione gialloviola – decide di non partecipare alla spedizione: uno dei suoi figli soffre di problemi respiratori cronici, ed è quindi soggetto a rischio. Non può staccarsi da lui. Anche Dwight Howard si dichiara dubbioso, sciogliendo il nodo della sua presenza ad Orlando solo all’ultimo momento. Contemporaneamente iniziano i tamponi di controllo ai giocatori, il numero dei contagiati è contenuto ma non insignificante, e si vocifera che anche due losangelini siano degenti da marzo.
Dopo mesi di inattività, in un clima bollente e con un paese sconvolto dalla pandemia, i ragazzi di Vogel si presentano a Disney World con l’aggiunta di due personaggi “dubbi” come JR Smith e Dion Waiters, per completare un roster che aveva già aggiunto Markieff Morris poco prima della sospensione, non esattamente un agnellino. Il gruppo deve ritrovarsi, integrare i nuovi, unirsi. Uno dei senatori più importanti per influenza nello spogliatoio – Rajon Rondo – si frattura un pollice nei primi allenamenti, ed è subito costretto ad uscire per operarsi.
Dopo una serie di amichevoli al piccolo trotto per ritrovare il campo, i Lakers sono attesi ad una serie di partite di rodaggio utili per concludere la regular season.
Conquistano la prima piazza ad ovest in una condizione dove il fattore campo non è destinato ad incidere, e poi letteralmente mollano gli ormeggi in vista dei playoff. È probabilmente in quel momento – chiaramente, lo possiamo solo dedurre – che riprendono definitivamente le redini della stagione, concentrandosi più sull’aspetto umano di squadra, che sul gioco. Le partite vengono vissute con una superficialità ai limiti dell’imbarazzante, proponendo un gioco svogliato e inefficace, ma dietro le quinte quel lavoro lunghissimo fatto di motivazioni e comunità di intenti, si forma definitivamente.
Ed il successo, a quel punto, diviene a portata di mano. Lo possiamo notare anche a seguito dello sciopero proposto dai Milwaukee Bucks, che si rifiutano di scendere in campo durante una sfida di postseason con gli Orlando Magic, protestando per il clima di violenza razziale che permane fuori dalla bolla.
Forse per la prima volta, gran parte dei giocatori della lega (quelli presenti ad Orlando) si riuniscono in assemblea per decidere se proseguire o meno. James e Kawhi Leonard propongono la fine immediata della stagione: una mossa apparentemente sorprendente, rappresentando i principali giocatori delle due contendenti al titolo più accreditate.
La creazione di Silver vacilla – ed il COVID-19 non c’entra niente – e nell’abbandonare l’incontro fermo sulle sue posizioni, LeBron viene seguito dal resto della squadra. A dimostrazione che ci si muove uniti, appoggiando la causa e l’opinione promossa dal leader gerarchico del gruppo, anche se questa è direzionata verso l’annullamento dei sacrifici fatti fino a quel punto.
La situazione rientra, ma anche questa immagine rappresenta profeticamente quello che oggi possiamo definire “fattuale”: una squadra che perde gara 1 con Portland al primo turno, e risorge dalle sue ceneri attraverso l’attuazione di accorgimenti progressivi, appoggiandosi sulla propria difesa, vincendo quattro gare consecutive. Stesso identico copione contro Houston al secondo turno, e similare nell’incrocio con Denver in Conference Finals.
Giunti all’ultimo atto con Miami, la vittoria in gara 4 rappresenta al meglio l’anticamera del successo definitivo.
Dopo essersi agilmente portati sul 2 a 0 nella serie (complici anche gli infortuni sofferti dagli Heat nella sfida d’esordio), dopo aver subito un clamoroso rientro avversario in gara 3, la squadra si compatta sciorinando una prestazione corale ai limiti del perfetto. Il contorno alla coppia più forte della lega tiene botta per 48 minuti, restituendo ai gialloviola un’inerzia che poteva apparir minacciata, e testimoniando quella sensazione già provata nell’osservare i vari Alex Caruso, Kentavious Caldwell-Pope o Javale McGee durante l’arco di tutta la stagione.
E cioè che ognuno si è sentito decisivo, rivelandosi tale, per il ruolo dedicato. Ognuno, anche i Jaren Dudley e Quinn Cook, ha percepito l’importanza di esserci, dedicandosi al massimo per l’obiettivo comune. Un qualcosa determinato probabilmente più di un anno prima dalla decisiva gara 6, forse in quel pre-camp di Las Vegas, e forgiato attraverso tragedie e avversità che non hanno scalfito il disegno di James e AD.
Impossibile da terminare, senza l’apporto di un gruppo forte quando unito, non necessariamente tale se osservato singolo per singolo. Anche in questo modo si vincono i titoli.