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La Redenzione dei Reietti

Davide Quadrelli by Davide Quadrelli
14 Ottobre, 2020
Reading Time: 24 mins read
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La redenzione dei reietti

Copertina a cura di Marco D'Amato

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Tra la regular season, la pandemia, lo stop forzato ed i Playoff nella bolla di Orlando, la stagione 2019-2020 NBA ci ha raccontato diverse storie. 

Ci ha raccontato che, a volte, la vita di uno sportivo è un cerchio che si chiude. 
Ci ha raccontato che, a volte, dopo un episodio negativo può succedere qualcosa di positivo. 
Ci ha raccontato che, a volte, si viene sottovalutati o ritenuti erroneamente non più adatti. 
Ci ha raccontato che, a volte, il fattore umano è superiore al tasso tecnico che si può mettere in campo. 

Tutte queste storie hanno un unico epilogo: la vittoria dell’anello. 

È semplice parlare della grandezza di LeBron James, delle prestazioni da MVP di Anthony Davis, del terzo titolo vinto con tre franchigie diverse da Danny Green e della definitiva consacrazione di Kentavious Caldwell-Pope.  È meno semplice – ma più soddisfacente – parlare della “Redenzione dei Reietti”, delle personali storie di Dwight Howard, di J.R. Smith, di Rajon Rondo, di Markieff Morris, di Alex Caruso, di Kyle Kuzma, di JaVale McGee, di Jared Dudley, di Dion Waiters, di Avery Bradley, di Quinn Cook, di Talen Horton-Tucker e, persino, di DeMarcus Cousins, Kostas Antetokounmpo e Devontae Cacok. 

Come se fossimo in un episodio di Futurama, dove gli abitanti delle fogne salgono in superficie per prendersi il loro momento di gloria. 

 

Dwight Howard

La storia di Superman è, forse, quella più romantica, parte da Orlando e finisce ad Orlando. 

Howard viene draftato nel 2004 con la prima scelta assoluta dagli Orlando Magic e, ragionevolmente, in Florida viene considerato “Il nuovo Shaq”, il franchise player capace di riportare i Magic alle Finals NBA, che da quelle parti mancano dal lontano 1995. 

Nel 2009, con la vittoria in Gara 6 delle Eastern Conference Finals contro i Cleveland Cavaliers dell’attuale compagno (e amico) LeBron James, riesce a regalare ai tifosi di Orlando ciò che aspettavano da ben quattordici anni: l’approdo alle NBA Finals, contro i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Phil Jackson. 

Il sogno del “Figlio della Georgia” e dei tifosi Magic rimane, di fatto, un sogno, in quanto i Lakers vincono la serie con un perentorio 4-1. 

Nelle tre stagioni successive, Dwight e i Magic ci provano a tornare alle Finals, tuttavia la loro volontà si scontra prima con i Boston Celtics – finalisti NBA quell’anno – alle ECF, poi con gli Atlanta Hawks al primo turno l’anno successivo e, infine, con gli Indiana Pacers sempre al primo turno. 

Il 2012, con la sconfitta contro i Pacers 4-1, è segnato dalla rottura tra Howard e i Magic. 

In realtà, i primi dissapori iniziano a percepirsi nel 2010, quando i tifosi gli rimproverano il fatto di essere sì una bestia d’area ma per nulla affidabile dalla media distanza, con movimenti in post limitati e deleterio ai liberi; in seguito a queste – lecite ma – pesanti critiche, durante la postseason, Howard inizia un lavoro mirato con l’ex stella degli Houston Rockets Hakeem Olajuwon, il quale crede ciecamente che il ragazzo sia il miglior centro della Lega ma che abbia, comunque, margini di miglioramento. 

La rottura definitiva con la franchigia della Florida arriva poco prima dei Playoff 2012: il fisico di Superman comincia ad accusare alcuni acciacchi e, il 20 aprile, con i Magic in piena lotta per i playoff, viene operato alla schiena per un’ernia al disco, mettendo fine così alla sua stagione. 

A questo punto, iniziano le “montagne russe” della carriera di Howard. 

A seguito di una trade a quattro squadre, passa alla corte dei Los Angeles Lakers, andando a formare – solo sulla carta, purtroppo – quello che molti definiscono il primo Dream Team della nuova decade. 

Nash, Bryant, Metta World Peace, Gasol, Howard e, in panchina, prima Mike Brown e poi Mike D’Antoni. Cosa potrebbe andare storto? In parole (molto) povere, tutto. L’età e gli acciacchi di Nash, la personalità e l’infortunio di Bryant, l’avvicendamento in panchina tra i due Mike e la testa non propriamente “fredda” di Howard portano ad un risultato piuttosto deludente: settimo posto ad Ovest in regular season, Kobe assente ai playoff, sweep al primo turno da parte dei San Antonio Spurs ed espulsione in Gara 4 di Dwight. 

Dopo, esattamente, un anno dal suo approdo in California, durante la Free Agency 2013 decide di “portare i suoi talenti” nel relativamente vicino Texas: firma, infatti, un quadriennale da 88 milioni di dollari (3+1 con player option) con gli Houston Rockets e va a formare con James Harden quello che, potenzialmente, può diventare un dynamic-duo difficilmente fermabile. 

Anche in Texas, cosa potrebbe andare storto? In questo caso, nei tre anni passati da compagno di Harden, se non tutto…quasi. 

Rockets eliminati al primo turno da Portland per 4-2 il primo anno. Due infortuni al ginocchio destro e sconfitta 4-1 alle WCF da parte dei Golden State Warriors degli Splash Brothers Curry-Thompson il secondo anno. Prestazioni deludenti durante la regular season, critiche da parte dei tifosi e nuova sconfitta per 4-1 al primo turno, sempre da parte di Golden State, la stagione successiva. 

Dopo tre anni in Texas, decide di non esercitare la player option e diviene free agent. 

Il ricordo più nitido di Howard in maglia Rockets, tuttavia, non riguarda una prestazione in campo ma un alterco tra giocatori: il famoso “Soft!” gridato da Kobe in faccia a Dwight nel 2014, che ha segnato la carriera di Howard più del dovuto – ma su questo punto ci torneremo più avanti. 

Ciò che avviene tra il 2 luglio 2016 e il 26 agosto 2019 certifica il lento ma inesorabile decadimento di Superman. 

Nel 2016 torna nella sua Atlanta, forma con Paul Millsap una coppia di lunghi di tutto rispetto ma gli Hawks vengono eliminati per 4-2 al primo turno da parte dei Washington Wizards. 

Nel 2017 approda alla corte di Michael Jordan, agli Charlotte Hornets, ma, nonostante la stagione positiva, i playoff rimangono un miraggio.

Nel 2018 viene spedito ai Brooklyn Nets, che lo tagliano immediatamente. Una settimana dopo firma un annuale (con player option per il secondo anno) con i Washington Wizards. 
Della sua stagione nel District of Columbia ci si ricorda, essenzialmente, di due cose: gli infortuni alla schiena e al gluteo e lo scandalo sessuale che lo ha coinvolto. 

Arriviamo, così, al 2019. 

Viene scambiato e approda ai Memphis Grizzlies; non rientrando nei piani tecnici della franchigia, il 7 luglio viene tagliato. Salutato il Tennessee, il 26 agosto firma “il contratto più importante della carriera”: c’è il ritorno ai Los Angeles Lakers. 

Il Dwight che si presenta a Los Angeles è un uomo nuovo, umile, conscio di non essere più una superstar della Lega ma un role player che può aiutare, grazie alla sua energia e al suo atletismo, LeBron e Davis a riportare l’anello che in California manca da ormai dieci anni. 
La particolarità di questa situazione sta nel fatto che, avendo firmato un contratto annuale non garantito, negli store ufficiali e allo Staples Center la canotta con il numero 39 risulta introvabile. Dwight si deve sudare tutto in questa stagione, maglia e minuti. 

Anche il rapporto con Kobe Bryant sembra recuperato. Giambattista Vico parlava dei “Corsi e ricorsi storici”. Ecco, appunto: il rapporto con Kobe, dal picco minimo toccato dopo quel “Soft!”, diretta conseguenza della difficile stagione da compagni di squadra, si rinsalda. 

Il tragico incidente di Calabasas, del 26 gennaio 2020, non porta via Kobe Bryant e sua figlia Gianna solamente ai parenti, tocca anche e soprattutto i suoi ex compagni di gioco…e Howard è uno dei più scossi. 

Per rendergli onore, allo Slam Dunk Contest 2020 si presenta vestito da Superman: Kobe Protro 5 ai piedi, canotta blu, mantello rosso e, al posto della grande S sul petto, un 24 scintillante. 

La stagione di Howard è complessivamente positiva: gioca settanta partite, in campo porta circa venti minuti di energia pura (nel bene e nel male), ai playoff fa occasionalmente impazzire Nikola Jokić nella serie contro Denver e si siede in panchina durante la fondamentale Gara 6 contro Miami e… 

E corona il suo sogno, chiude il suo personalissimo cerchio, vince il suo primo titolo NBA. 

 

J.R. Smith

La storia di J.R. Smith ha una data d’inizio ben precisa: 1 giugno 2018. 

Oakland, NBA Finals, Golden State Warriors contro Cleveland Cavaliers. LeBron legge il taglio di George Hill, Klay Thompson fa fallo, due liberi per Hill. Il primo tiro libero entra, il secondo è corto. Rimbalzo di Smith…e inizia l’incubo che durerà due anni e quattro mesi. 

La scena di LeBron che urla di tirare al compagno è nota a tutti. La partita va all’overtime e le Finals finiscono con uno sweep impietoso, 4-0 Warriors. 

Quel giorno di giugno, Smith diviene il protagonista di quello che verrà definito, da Rodger Sherman di The Ringer, “The costliest mistake in basketball history”, il momento più stupido della storia del basket. 

Di fatto, la carriera di J.R. sembrerebbe finita qui. 

Col passaggio di LeBron James ai Lakers, i rumors circa un suo approdo alla corte del Re si susseguono un mese sì e l’altro pure ma, a conti fatti, Smith passa un anno da separato in casa. Nel nuovo corso dei Cavaliers non c’è posto per lui, non riescono ad imbastire una trade con altre franchigie per via del suo contratto oneroso e, per lo stesso motivo, non lo tagliano. 

Team Swish si allena da solo, usa i social network per far vedere al mondo che lui si vuole far trovare pronto se qualcuno volesse dargli un’occasione. 

Il 17 luglio 2019 viene tagliato dai Cavs ma, nonostante alcuni workout sostenuti, nessuno gli dà fiducia. Viene trattato da ex giocatore. 

Ma chi sa aspettare, a volte, viene premiato. Avery Bradley, per motivi familiari, decide di non partecipare al prosieguo della stagione nella bolla di Orlando e i Lakers devono firmare una guardia che sia capace di garantire minuti di riposo al backcourt titolare e un minimo di pericolosità perimetrale. 

C’è LeBron James in squadra, c’è J.R. Smith free agent, il gioco è fatto. A Smith viene chiesto poco: qualche minuto, qualche fallo, qualche tripla, supporto emotivo. 

I due amici si ritrovano, nuovamente, come compagni di squadra e, esattamente come nel 2016, sono campioni NBA. Secondo anello al dito, secondo tour a petto nudo per lui, redenzione. 

 

Rajon Rondo

La storia di Rajon Rondo è quella di un giocatore che, insieme a gente del calibro di Jordan, James e Bryant, è stato capace di dividere gli appassionati di basket in due categorie essenziali: chi lo ama e chi lo odia. 

In campo non conosce mezze misure: si tratta di un giocatore imprevedibile, può essere il tuo miglior amico e il tuo peggior nemico nella stessa partita. 

La sua carriera è costellata di parecchi alti e bassi, fin dai tempi di Boston. Nonostante a lui – e anche a molti tifosi – non piaccia il nickname “Playoff Rondo”, è innegabile che gli picchi più alti nella sua carriera li abbia toccati ai playoff e quelli più bassi in regular season. 

Rajon, insieme a Garnett, Allen e Pierce, è stato uno dei grandi artefici della sconfitta che ogni tifoso dei Lakers ricorda e dimenticherà difficilmente: NBA Finals 2008, 4-2 per Boston, tutto il “pride” bostoniano in campo e un playmaker sul tetto del mondo, Rondo. 

Tuttavia, nella NBA moderna, è molto facile e veloce passare da giocatore fondamentale a giocatore dannoso ed anacronistico. 

Dopo il titolo del 2008, una stagione molto positiva nel 2009, la sconfitta 4-3 alle NBA Finals 2010 contro i Lakers, ed un paio di anni a buonissimo livello, comincia il viaggio di Rondo nella “Terra dei reietti”. 

Il 27 gennaio 2013 si rompe il legamento crociato del ginocchio e, di fatto, questo infortunio mette fine alla sua gloriosa carriera in maglia Celtics. 

Nel 2014, con i Celtics in pieno rebuilding, viene scambiato ed approda alla corte di Mark Cuban, ai Dallas Mavericks. Il Rondo post-infortunio, però, è un lontano parente di quel giocatore che Magic Johnson aveva definito quattro anni prima come “Il miglior playmaker della NBA”. 

Il suo secondo anno in maglia Mavs è contraddistinta da tre fatti: una frattura orbitale per uno scontro con il compagno di squadra Jefferson, una sospensione per un litigio con il proprio allenatore Carlisle e un infortunio alla schiena che lo estromette prematuramente dalla serie persa contro gli Houston Rockets ai playoff. 

Dopo Dallas, decide di trasferirsi in California firmando un contratto annuale con i Sacramento Kings ma non riesce ad agguantare i playoff.

Nel 2016, divenuto free agent, decide di tornare sulla East Coast e firma un biennale con i Chicago Bulls; di fatto, va prendere il posto di Derrick Rose, volato a New York per rilanciare la sua carriera.

I Bulls di Rondo, Butler e Wade sono protagonisti di una stagione sottotono, caratterizzata da dissidi tra giocatori in campo e fuori. Riescono ad agguantare l’ottavo posto ed a qualificarsi per i playoff. 

Come dicevamo, il nickname di Rajon è “Playoff Rondo” e, infatti, dopo una stagione non buonissima, nella serie contro i Celtics – ironia della sorte – esegue il suo consueto switch mentale. Solamente un infortunio durante Gara 2 lo estromette dalla serie e, dopo aver fatto sudare non poco Boston nelle prime due partite, i Bulls si arrendono. 

Dopo un solo anno, viene tagliato e si accorda con i New Orleans Pelicans. In Louisiana, Rondo va a formare con Anthony Davis un asse play-pivot tecnicamente molto valido. 

Anche in questo caso, dopo una regular season non eccellente, ai playoff si trasforma: dopo aver mandato a casa i Portland Trail Blazers con uno sweep, si devono arrendere 4-1 ai Golden State Warriors di Curry, Thompson e, soprattutto, Durant, futuri campioni NBA. 

Così come per Smith, anche Rondo viene baciato dalla fortuna. “Bollato” da tutti come giocatore non più adatto al basket moderno, anacronistico, deleterio, sembra destinato alla chiusura della carriera in franchigie di rincalzo o con ruoli marginali. 

Nel 2018, avviene qualcosa che in pochi avrebbero immaginato: LeBron James firma per i Lakers e, come back-up PG che possa dare il cambio e fare da mentore a Lonzo Ball, chiede a Rob Pelinka proprio Rajon Rondo. 

I due, in passato, non si sono mai amati ma LeBron riconosce (da sempre) l’intelligenza cestistica e la leadership di Rondo e lo vuole nella sua squadra. 

La prima stagione in maglia Lakers, tuttavia, è un fallimento totale. LeBron si fa male a metà stagione, lo Young Core è ancora troppo acerbo per sopperire l’assenza di James, il roster è completamente disfunzionale e, quindi, anche per Rondo c’è poco da fare. 

Questa stagione, complice un roster meglio costruito e l’affair Anthony Davis, sembra l’anno buono per diventare il primo giocatore ad aver vinto un anello in maglia Lakers ed uno in maglia Celtics. 

Dopo una regular season secondo i suoi personalissimi standard ed un infortunio al pollice poco prima dell’inizio dei playoff, Rondo entra nella bolla di Orlando…ed è subito Playoff Rondo: alterna giocate geniali a vere e proprie giocate senza senso e permette a LeBron James di poter “riposare” durante la partita. 

E, alla fine, dopo la serie contro Miami ed una Gara 6 memorabile, l’anacronistico e deleterio Rondo riesce a diventare l’unico giocatore ad aver vinto l’anello con i Lakers e con i Celtics. 

 

Markieff Morris

La storia di Markieff Morris è quella di un giocatore che è stato, costantemente, visto come “il gemello più scarso”. 

La storia dei gemelli Morris è nota, inutile raccontare la carriera di uno e dell’altro. Il fatto che a noi interessa succede poco prima della trade deadline di quest’anno. 

Marcus Morris è il go-to-guy dei New York Knicks ed è il pezzo pregiato del mercato. I Lakers e i Clippers, oltre che nella corsa al titolo NBA, fanno la “guerra” anche per gli uomini da aggiungere a roster tramite trade, buy-out e il mercato dei free agents. Così, dopo essersi contesi Darren Collison e Reggie Jackson, entrambe le franchigie vanno a caccia di un giocatore capace di portare energia e punti in uscita dalla panchina ed entrambe puntano forte sul “gemello forte”. 

Dopo le richieste (alte) dei Knicks, i Lakers virano su Markieff Morris, lasciando strada spianata ai Clippers per rinforzare il proprio – già molto valido – roster con Marcus. Kieff ottiene il buy-out da parte dei Detroit Pistons ed il 23 febbraio si accorda con i Los Angeles Lakers. 

La scelta di Morris si rivela fondamentale in ottica playoff, semplifica il lavoro di coach Vogel, soprattutto nella serie contro gli Houston Rockets. Per “disinnescare” lo small ball dei Rockets, Vogel decide di mettere in panchina McGee e di promuovere in quintetto Kieff, spostando di fatto Davis nello spot di centro. I Lakers vincono la serie 4-1 grazie – anche e soprattutto – a questo aggiustamento, che si rivelerà meno efficace ma non meno importante anche nella serie con Denver e nelle Finals contro Miami. 

Morris ha permesso ai Lakers di poter schierare Davis come “5” e, di conseguenza, di avere una power forward in grado di allargare il campo. 

I Lakers, invece, con la vittoria sugli Heat, nonostante l’errore imperdonabile in Gara 5, hanno permesso a Kieff di vincere l’anello, “il gemello di Marcus, quello forte”. 

 

Alex Caruso e Kyle Kuzma

La storia di Alex Caruso e di Kyle Kuzma è strettamente legata a quella di Anthony Davis, Lonzo Ball, Brandon Ingram e Josh Hart. 

La storia di questi due ragazzi deve necessariamente partire dalla Summer League del 2017. 
Lonzo, Kyle e Josh sono stati scelti, qualche settimana prima al Draft; Alex è un undrafted della classe 2016 ed aggregato al roster dei Lakers mentre Brandon è stata la seconda scelta assoluta al Draft del 2016. 

I Lakers giocano la Summer League di quel’anno in maniera sublime, Ball e Kuzma si trovano a meraviglia – Lonzo risulterà MVP, Kyle FMVP – e, con Hart e Ingram, andranno a formare quello che i più chiamano “Young Core”. 

Ball e Ingram sono i due più talentuosi, Kuzma e Hart i due più pronti (in virtù, anche, della maggior età dei due rispetto agli altri). 

Caruso, una volta convinti coach Walton e il duo Magic&Pelinka grazie alla sua energia, alle sue hustle plays e alla sua pericolosità perimetrale, firma un two-way contract e si divide tra i South Bay Lakers in G-League e i Lakers. 

I Lakers giocano un basket spensierato nella prima stagione, senza grossi obiettivi. 

Nel 2018, però, con l’arrivo di LeBron e, conseguentemente, delle pressioni che una firma del genere comporta, a farne indirettamente le spese sono Zo e B.I., il primo relegato negli angoli ad aspettare uno scarico del Re e il secondo impossibilitato a giocare il basket a lui più congeniale, fatto di isolamenti e tiri dalla media. 

A guadagnarci, invece, sono proprio quei ragazzi che venivano considerati meno talentuosi: Kuzma, Hart e Caruso, capaci di farsi trovare pronti grazie alla loro capacità nel tiro dall’arco. 

In particolare, LeBron “ama” Caruso, chiamato da tutti “The Bald Mamba” e chiamato da James “GOAT”. 

La storia di questi giovani si intreccia con quella di Anthony Davis in due momenti precisi: poco prima della trade deadline del 2019 e il 16 giugno 2019. 

Il desiderio di Anthony Davis e LeBron James è quello di giocare insieme ai Los Angeles Lakers, con il primo che fa pressioni costanti al GM dei Pelicans David Griffin (chiede la trade e rifiuta di giocare per preservarsi per un possibile approdo in California), il secondo fa pressioni tramite il suo agente (e di Davis), Rich Paul, affinché il loro desiderio diventi realtà. 

Passata la trade deadline e comminata una multa di cinquantamila dollari a Davis per aver chiesto pubblicamente la trade, si arriva al 16 giugno. Lo “Young Core” viene smantellato: Lonzo Ball, Brandon Ingram, Josh Hart ed una (lunga) serie di scelte vanno in Louisiana, Anthony Davis fa il percorso inverso. 

https://www.youtube.com/watch?v=bXEcAkQ1L4s

Quindi, a Los Angeles, chi rimane? Kuz e The Bald Mamba. 

Caruso diviene centrale nel progetto dei Lakers di Bron&Davis, è il cambio di Caldwell-Pope e si conquista il rispetto dei compagni prestazione dopo prestazione, tanto da diventare starter in Gara 6 contro gli Heat.

Kuzma, dopo una regular season sottotono, sale di livello nella bolla di Orlando, diventando una delle bocche da fuoco a disposizione di Vogel in panchina, nonostante continui ad avere i suoi passaggi a vuoto in difesa. 

E, con i ragazzi più talentuosi mandati da Zion Williamson a sperare di vincere un anello nel prossimo futuro, dopo la serie con Miami, a godere sono stati i due ragazzi meno talentuosi, Alex e Kyle: “La classe operaia va in paradiso”. 

 

Jared Dudley

La storia di Dudley è tanto breve quanto pregna di significato, racconta quanto il fattore umano sia fondamentale all’interno di uno spogliatoio. 

Per spiegare quanto sia importante Dudley per i Lakers non bisogna guardare le statistiche. Bisogna osservare che è il primo giocatore, quando viene chiamato un time-out, ad andare a complimentarsi con i compagni quando le cose vanno bene ed il primo a consolarli quando vanno male. Bisogna vedere che è sempre pronto ad entrare in campo, anche per una manciata di secondi, se questo può portare beneficio ai propri compagni ed è pronto a passare cinquanta partite seduto in panchina perché conosce il suo ruolo. 
Ma, soprattutto, bisogna ascoltare le cose che dice, come questa dichiarazione rilasciata durante il Media Day: 

“Qualsiasi flagrant foul su LeBron James, datemi in anticipo una multa di ventimila dollari.  Chiunque pensa di toccare Anthony Davis o LeBron James, sappia che fa parte del mio lavoro qui difenderli.  Ho fatto i miei soldi, questo è il minimo che posso fare… No, non possono toccarli.”. 

Così, dopo aver giocato a Charlotte, a Phoenix due volte, a Los Angeles sponda Clippers, a Milwaukee, a Washington ed a New York sponda Nets, “Duds” è tornato a Los Angeles, ha giocato un minuto e mezzo nella decisiva Gara 6 contro gli Heat e si è preso l’anello. 

 

JaVale McGee, Dion Waiters, Avery Bradley, Quinn Cook, DeMarcus Cousins

Cinque giocatori, cinque brevi e diverse storie. 

La storia di JaVale McGee parla di un ragazzo che, qualsiasi cosa faccia, qualsiasi cosa vinca, rimarrà sempre “quello di Shaqtin’ A Fool”. 

Quello che in pochi sanno – o che in tanti ignorano, dovendo essere sinceri ed onesti – è che McGee è un onesto giocatore di rotazione, un centro che ai playoff ha fatto fatica ma che non ha mai fatto mancare la propria energia, un ragazzo serio e molto impegnato nel sociale…e, da quest’anno, un tre volte campione NBA. 

La storia di Dion Waiters parte da LeBron James e finisce con LeBron James. 

Waiters – “KobeWade”, come si faceva chiamare al college – è la quarta scelta assoluta del Draft del 2012 ed incrocia la sua strada con quella di James quando quest’ultimo, nel 2015, decide di tornare a casa, decide di tornare a Cleveland. 

Quello che trova è un ragazzo sicuramente talentuoso quanto altrettanto acerbo. 
LeBron, come ha affermato lo stesso Waiters, ha provato ad instradarlo, l’ha preso sotto la sua ala protettrice ma, dopo quattro mesi di convivenza e di continui errori, gli è stato regalato un biglietto aereo con destinazione Oklahoma City. 

Prima ai Thunder e poi agli Heat dà il meglio e il peggio di sé, conosce la depressione, convive con gli infortuni e, poi, alla soglia della trade deadline di quest’anno, ricade in uno stupido errore: durante un volo con la squadra, mangia degli orsetti gommosi alla marijuana che lo fanno collassare.  Dion se ne assume la completa responsabilità: “Colpa mia, sono stato un idiota. Non ho mai fatto uso di droghe, ma quando sei depresso puoi cadere in qualche trappola.”. 

Pat Riley prima lo sospende e, poi, lo scambia, mandandolo a Memphis. I Grizzlies lo tagliano immediatamente e qui, il 6 marzo 2020, le strade dei Waiters e James si incrociano nuovamente. 

I Lakers, incassati i “no” di Collison e Jackson, necessitano di una combo-guard che possa dare minuti di riposo a Caldwell-Pope, Rondo e LeBron, così – dopo aver tagliato Troy Daniels – firmano al minimo salariale Waiters. 

Waiters, in giallo-viola, nella bolla ci ha giocato poco per via di un infortunio, però avrebbe vinto in ogni caso l’anello in quanto ha giocato almeno una partita in stagione sia in maglia Heat sia in maglia Lakers. 

La storia di Avery Bradley parla, invece, di un ragazzo coraggioso che si è rimesso in gioco dopo annate non particolarmente positive e che è stato capace di anteporre la salute della famiglia alla gloria personale. 

Infatti, Bradley nella bolla di Orlando non ci ha mai messo piede. Per via dei rischi collegati al COVID-19, ha preferito stare vicino al figlio di sei anni, affetto da problemi respiratori cronici, rinunciando alla parte di stipendio che ancora gli spettava (circa seicentocinquantamila dollari) e, soprattutto, all’emozione di poter alzare il trofeo dei campioni NBA insieme ai compagni. Questo titolo è anche suo, a livello umano è stato un MVP.

La storia di Quinn Cook ruota attorno ad un fatto particolare, tanto semplice quanto struggente. Cook, con il titolo di quest’anno, è un due volte campione NBA. La cosa più importante, però, è che Cook è sempre stato un tifoso dei Lakers e il suo idolo è sempre stato Kobe Bryant. 

Il fatto particolare, sul quale dovremmo porre l’accento, avviene dopo la morte di Kobe, durante una celebrazione all’esterno dello Staples Center. Cook ci ha dimostrato che non c’è molta differenza tra un giocatore NBA e dei semplici appassionati come noi: la foto Quinn, in mezzo agli altri tifosi, con la canotta di Bryant, che piange piegato su una transenna, è bella e struggente allo stesso tempo e – a livello personale – vale quanto un titolo NBA. 

A fare da contraltare a questo fatto commovente, uno divertente: dopo i festeggiamenti per la vittoria contro Miami, Cook è stato dimenticato dai compagni e dallo staff all’interno dell’arena e, per farsi venire a prendere, ha scritto un commento sulla live Instagram di J.R. Smith.

L’ultima breve storia riguarda DeMarcus Cousins. Il 26 gennaio 2018, Cousins si rompe il tendine d’achille sinistro contro i Rockets e, di fatto, chiude così la sua carriera a New Orleans. 

Durante la free agency, si accorda per un annuale con i Golden State Warriors, andando a formare con Curry, Thompson, Durant e Green un quintetto di NBA All Stars. Sulla carta, i Warriors avrebbero dovuto vincere l’anello agevolmente. Tuttavia, la scorsa stagione a vincere sono stati i Toronto Raptors. 

“DMC” non demorde, vuole il tanto agognato anello e firma un annuale con i Lakers di LeBron e Davis. Però, come si suol dire, “La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo”: durante uno dei primissimi allenamenti con i nuovi compagni, Cousins si rompe un legamento crociato del ginocchio. 

Il fisico di Cousins è devastato dagli infortuni, i Lakers lo tagliano e lui dovrà cominciare nuovamente tutto da capo. Però, dopo la vittoria delle Finals, potrà ricominciare con un anello scintillante al dito. 

 

Talen Horton-Tucker, Kostas Antetokounmpo, Devontae Cacok 

Più che una storia, questi tre ragazzi possono raccontare una favola. 

Poco più di cento minuti giocati in tre in tutta la stagione e con il solo “THT” a giocare uno sprazzo di match nella serie contro Houston. 

La favola racconta di questi tre ragazzi che, ad inizio stagione, erano consapevoli del loro ruolo e del loro minutaggio e si conclude con il titolo NBA. 

Tags: Alex CarusoAntetokounmpoAnthony DavisAvery BradleyDeMarcus CousinsDion WaitersDwight HowardJ.R. SmithJared DudleyJaVale McGeeKyle KuzmaLeBron JamesLos Angeles LakersMarkieff MorrisNBA FinalsQuinn CookRajon Rondotalen horton-tucker
Davide Quadrelli

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