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La NBA contro il razzismo

Michele Laffranchi by Michele Laffranchi
29 Agosto, 2020
Reading Time: 9 mins read
0
razzismo

Copertina a cura di Sebastiano Barban

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We gotta make a change. It’s time for us as a people to start makin’ some changes. Let’s change the way we eat, let’s change the way we live. And let’s change the way we treat each other

Changes, Tupac

A distanza di quasi ventidue anni dalla pubblicazione, pare non esaurirsi mai l’insegnamento di questa canzone, Changes, uno dei singoli più iconici di Tupac Shakur. La speranza di un miglioramento della condizione esistenziale e del raggiungimento di un trattamento, giuridico e politico, pari a quello dei bianchi per gli afroamericani negli USA rimane, al momento, un’utopia. Quelle meravigliose note, allora, continuano a risuonare come macigni nella coscienza collettiva, perpetuando la necessità di un cambiamento vero e totalizzante.

Necessità di cambiamenti che è ribadita, continuativamente, dai casi di violenza, gratuita ed eccessiva, perpetrati ai danni dei cittadini di colore da parte di forze dell’ordine: il più emblematico, quello che il 25 maggio scorso ha portato all’omicidio di George Floyd, morto per aver forse contraffatto una banconota da venti dollari, soffocato a terra dall’ufficiale di polizia Derek Chauvin. Una vita sottratta al prezzo di una banconota da venti dollari: tale il valore di un afroamericano per alcune branche piuttosto diffuse della polizia statunitense. Le immagini filmate del soffocamento di Floyd, durato qualcosa come 8 minuti e mezzo, hanno suscitato sdegno, indignazione e riprovazione in tutto il globo, dando nuova linfa al movimento Black Lives Matters, impegnato nella lotta al razzismo, e scatenando proteste nelle settimane seguenti a partire dalla città di Minneapolis, dove il fatto avvenne, e successivamente in altre parti degli USA.

In tutto questo, i giocatori di pallacanestro americani hanno ricoperto un ruolo attivo, partecipando alle proteste e impegnandosi dall’alto delle loro posizioni di grande influenza sociale: l’NBA è una lega composta all’80% da persone di colore, difficile fare altrimenti. Un’attenzione alle problematiche sociali rimasta vivida e vibrante da quel 25 maggio, paradossalmente accentuatasi nell’isolamento della Bolla di Orlando, dove stanno svolgendosi i playoff: la protesta risale a mercoledì 26 agosto, in seguito all’ennesimo caso di cronaca violenta ai danni di un cittadino di colore.

Tre giorni prima, infatti, Jacob Blake, cittadino afroamericano, viene ferito da sette colpi di pistola sparati a bruciapelo da un agente di polizia, davanti ai tre figli, attoniti, dell’uomo. Blake rimarrà paralizzato alle gambe.

Nel frattempo, in Wisconsin – dove il fattaccio è avvenuto – riscoppiano le proteste e, in mezzo alla violenza incontrollata, succede perfino che un diciassettenne bianco vada in giro per sparare impunemente ai manifestanti. Fatti che avvengono in quella che dovrebbe essere la miglior democrazia esistente.

Il vaso dei giocatori, nel frattempo, colmato dalla vicenda Floyd, trabocca definitivamente con la paralisi di Blake: a poche ore dalla gara 5 in programma nella Bolla di DisneyWorld a Orlando contro i Magic, i Milwaukee Bucks decidono di non scendere in campo. Quel boicottaggio che, all’indomani dell’omicidio di Martin Luther King nell’aprile del ’68, non era riuscito a Bill Russell e Wilt Chamberlain – in una lega diversissima da quella odierna e con dei canali d’informazione decisamente meno rapidi e diffusi – viene realizzato, in un gesto assolutamente senza precedenti nell’NBA, dalla presa di posizione dei giocatori dei Bucks.

The Bucks players made this decision in the wake of the Jacob Blake shooting in Wisconsin, ultimately deciding that they wouldn’t leave the locker room for the start of Game 5 against Orlando. https://t.co/COJ6E0aJLj

— Adrian Wojnarowski (@wojespn) August 26, 2020

La paralisi del cittadino afroamericano diviene metaforicamente quella di una comunità tutta, rappresentata dai membri della migliore squadra ad Est. In poco tempo, al boicottaggio si uniscono anche le successive formazioni impegnate: Rockets, Thunder – dove gioca il presidente della NBPA, l’associazione dei giocatori, Chris Paul -, Trail Blazers e Lakers. I Bucks recitano un comunicato che scuote al cuore le coscienze e cerca di sensibilizzare tutti gli appassionati sulla gravità del tema razzismo e sul grado di esasperazione raggiunto dalla comunità afroamericana:

Gli ultimi quattro mesi hanno fatto luce sulle ingiustizie che devono affrontare le comunità afroamericane. Tutti i cittadini devono usare le loro voci e le loro piattaforme per denunciare questi crimini.

Si scopre che, nello spogliatoio, i Bucks hanno avuto un confronto, tramite Zoom, con il vice governatore del Wisconsin, Mandela Barnes, e con il procuratore generale dello stato, Josh Kaul. Barnes ha poi raccontato che i giocatori di Milwaukee volevano sapere cosa potessero fare, di tangibile, nel breve o lungo periodo. E soprattutto, volevano capire perché il poliziotto che ha sparato i sette colpi a Blake fosse ancora a piede libero, senza un mandato d’arresto nei suoi confronti. Dopo tre ore, concitatissime, mentre i Magic stavano ancora riscaldandosi, ecco la decisione shock: gara boicottata, non si gioca. E, dopo poche ore, a cascata, pure le altre due gare in programma sono state posticipate. In un clima surreale, il parquet rimane vuoto, avvolto in una penombra che sa di accadimento generazionale:

L’effetto domino è dirompente: i giocatori hanno convocato un meeting nel tardo pomeriggio – apertosi, emblematicamente, con una videocall con la famiglia di Jacob Blake: al centro della discussione la ripresa stessa dell’NBA che, forse anche per la concitazione del momento e la grossa tensione aleggiante nella Bolla, rischiava di veder interrompere definitivamente i playoff. Qualcuno ha perfino criticato i Bucks per la decisione di boicottare la gara senza alcun confronto con le altre franchigie: Jaylen Brown, ala dei Celtics, ha dimostrato ancora una volta la sua immensa empatia, difendendo a spada tratta la decisione dei suoi potenziali rivali ad Est.

A mostrare la serietà della situazione e ad affrescare la consapevolezza di quanto il problema fosse ormai giunto a un punto di non ritorno c’è il fatto che le due franchigie più restie a ricominciare fossero quelle, almeno sulla carta, maggiormente favorite per il titolo: le due losangeline, infatti, capitanate dai leader LeBron James e Kawhi Leonard, sono state le uniche a votare contro la ripresa dei playoff. Anello, titolo, gloria: tutto passa in secondo piano di fronte a una problematica, sociale e politica, tanto accesa. Lo stesso King James, forse insoddisfatto di come stessero evolvendo le discussioni, ha deciso di abbandonare la riunione con gli altri giocatori anticipatamente, seguito a ruota dai compagni di squadra e dai cugini di Doc Rivers. Un suo tweet riassume sostanziamente l’esasperazione dell’intera comunità afroamericana:

FUCK THIS MAN!!!! WE DEMAND CHANGE. SICK OF IT

— LeBron James (@KingJames) August 26, 2020

Oltre alla decisione radicale dei membri delle compagini losangeline, vi sono state tante sfaccettature, proposte e opinioni messe in risalto dal meeting dello scorso mercoledì: McCollum ha suggerito, a chi volesse terminare in anticipo la stagione, di tornare a casa silenziosamente. Iguodala, addirittura, ha sottolineato come, se i giocatori avessero deciso di interrompere la stagione, sarebbero poi dovuti scendere in prima linea per protestare. E, forse provocatoriamente, ha domandato ai colleghi se fossero a conoscenza della storica legge sulla riforma della polizia in California del venerdì susseguente: insomma, l’MVP delle Finals 2015 pretende una maggiore consapevolezza di ciò che accade intorno alla Bolla di Orlando.

Chris Paul ha posto invece l’attenzione sulle conseguenze dell’eventuale scelta radicale di abbandonare Bolla e stagione, con il rischio di pagare dazio a livello economico: si rischerebbe un taglio dei salari del 25-30% per l’anno prossimo. Insomma, CP3 – dall’alto del suo ruolo di presidente dell’NBPA – ha evidenziato la necessità di ponderare bene un gesto che, se preso di petto, avrebbe potuto condurre a decisioni cataclismatiche. Sta di fatto che, giunti al voto, solo Clippers e Lakers – favorite numero uno al titolo – hanno votato a sfavore della ripresa della stagione.

The Clippers and Lakers voting on perhaps not continuing with the season was considered more of a polling, than a final vote, sources tell ESPN. The resumption of the playoffs remains still up in the air.

— Adrian Wojnarowski (@wojespn) August 27, 2020

Il momento della decisione definitiva, dunque, è stato posticipato alla mattinata di ieri – le 17 italiane – con una seconda riunione a bocce ferme e animi, quanto meno, un po’ rasserenati. La decisione è arrivata quasi subito e, per i tifosi di tutto il mondo, è stata una ventata d’aria fresca, almeno sportivamente: i playoff riprendono. Non già nella serata di ieri, più probabilmente stanotte o nel weekend. I giocatori maggiormente propensi a fermarsi nella giornata di mercoledì, ieri hanno espresso pareri meno radicali, LeBron James su tutti: evidentemente, i tanti sacrifici fatti per imbastire la Bolla di Orlando – lontananza dalle famiglie innanzitutto – hanno avuto la meglio sull’idea di cancellare definitivamente la stagione.

The resumption of playoff games could come as soon as Friday, but there is expected to be a return to this season by the weekend, sources tell ESPN. https://t.co/A2PazNKDhy

— Adrian Wojnarowski (@wojespn) August 27, 2020

Oltre al buon senso, è però evidente che i giocatori hanno ottenuto, almeno in parte, la soddisfazione delle richieste portate alla lega: in primis, la pretesa di un maggior coinvolgimento nel sociale dell’NBA e dei suoi dirigenti. I proprietari delle franchigie – in primis His Airness Michael Jordan – hanno espresso assoluta vicinanza ai giocatori, sostenendo la loro decisione.

Si attende un comunicato ufficiale che esponga ufficialmente i punti a cuore della protesta dei giocatori. Qualcosa, comunque, dev’essere stato promesso ai cestisti nella Bolla, altrimenti difficilmente la stagione sarebbe ripartita. L’ennesimo tweet di LeBron James testimonia come, dalla frustrazione, l’NBPA sia passata ad una maggiormente produttiva azione. Insomma, dalle parole ai fatti:

Change doesn’t happen with just talk!! It happens with action and needs to happen NOW! For my @IPROMISESchool kids, kids and communities across the country, it’s on US to make a difference. Together. That’s why your vote is @morethanavote ✊? #BlackLivesMatter

— LeBron James (@KingJames) August 27, 2020

Scongiurato il pericolo di una cancellazione radicale di questa disastrata stagione, rimane la consapevolezza di essere di fronte, potenzialmente, ad una svolta epocale. Lo sport ha dimostrato a più riprese di essere uno straordinario veicolo di coesione sociale e di trasmissione di idee e sentimenti: per la prima volta i giocatori NBA hanno messo in campo tutto il loro peso politico e civile per una causa che, da qualunque punto di vista sia osservata, appare portatrice di uguaglianza e rispetto. Quei medesimi valori che, del resto, sono insiti nel significato stesso dello sport e nella logica di una lega come l’NBA, intrinsecamente orientata a dare a tutti la stessa possibilità di vincere.

La ventata rivoluzionaria del gesto è dimostrata anche dalle conseguenze scaturite nel resto dell’universo sportivo, dove tantissime altre discipline si sono accodate, nella lunga giornata di giovedì, alla scia della protesta dell’NBA: dalle colleghe della WNBA alla Major League Soccer e alla Major League Baseball, le massime organizzazioni sportive professionistiche degli USA hanno dimostrato incondizionato sostegno alla scelta dei cestisti. A Cincinnati, ieri, per il Masters 1000 tennistico non si è disputato alcun incontro, per solidarietà verso la protesta e in opposizione alla piaga dell’ingiustizia razziale. La stessa Naomi Osaka, giocatrice di colore, ha espresso la decisione di saltare le semifinali del torneo (prima che tutto il blocco degli incontri venisse spostato da ieri ad oggi, ndr): il genocidio della popolazione afroamericana – si legge in un lungo post su Instagram dell’atleta giapponese – ha raggiunto livelli nauseanti. Cameron Champ – giocatore professionista di golf – ha indossato invece durante BMW Champs delle scarpe bicolori: una bianca ed una nera, simboli vibranti di un desiderio di uguaglianza razziale troppe volte rimandato.

pic.twitter.com/S4B3FkUw6z

— Western & Southern Open (@CincyTennis) August 27, 2020

Il grido di dolore, stavolta, sembra essersi trasformato nell’orgoglio di una sacrosanta rivendicazione. Il primo segno – si spera fortemente – di una guarigione che deve necessariamente arrivare. Un avvertimento forte, ad una certa classe politica che sul razzismo ha costruito le fondamenta della sua campagna elettorale e ad una certa fascia della polizia, che si crede forse impunibile e sicuramente, ad oggi, è impunita nel drammatico ripetersi di una violenza inaudita e inconcepibile.

L’NBA, nella sua totalità, ha gettato un seme di cambiamento. I see no changes – cantava Tupac in quel capolavoro di fine anni ’90. Più di vent’anni sono trascorsi, e quel cambiamento culturale ancora non è ancora avvenuto. Se non ora, quando?

Tags: Black Lives Matter
Michele Laffranchi

Michele Laffranchi

Fagocita sport fin dalla nascita. Da anni la notte si confonde con le gare NBA, per fortuna. L’altra sua passione è la scrittura: le fonde qui per raccontare sport, la cosa più meravigliosa che ci sia. Dopo il “quick release” di Stephen Curry, ovviamente.

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