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Anatomia di un disastro, 24 mesi (e un po’) di Sixers

Andrea F aka Doc di Nba2face by Andrea F aka Doc di Nba2face
26 Agosto, 2020
Reading Time: 8 mins read
0
Sixers

Copertina a cura di Marco D'Amato

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Maggio 2020, l’altro ieri. L’NBA è in piena organizzazione della Bolla di Orlando, le squadre si stanno ritrovando, si rimette in moto il business as usual. Rumors inclusi.

Uno di questi sussurra che i Knicks siano sulle tracce di Elton Brand – GM Sixers – per portarlo a New York nello stesso ruolo. Gli ineffabili Knicks.

Già allora molti tifosi di Phila pensarono, il biglietto del treno glielo pago io, basta che vada. Oggi, qualsiasi supporter dei 76ers si caricherebbe sulle spalle Elton – un ragazzone di 2 metri e 5 per 120 chili, ad andar bene – per fare a piedi tutte le 100 miglia che dividono le due città e scaricarlo al Madison Square Garden, direttamente nell’ufficio di James Dolan. Sai che li vedrei bene insieme? Ok, ma torniamo a noi.

Sia chiaro, il mitico Elton, l’old-school Chevy, il grande giocatore nel suo prime, l’attento ed esperto mentore della parte finale della sua carriera, non è l’unico colpevole, anzi neppure il primo. Certo, le sue impronte digitali sono un po’ dappertutto sul luogo del delitto. Torniamo però indietro e verifichiamo il suo alibi.

Sembra una vecchia storia di capitalismo, quello familiare, di una volta. Il capostipite – lo chiameremo Sam Hinkie – accumula una fortuna fatta di scelte, giocatori da svezzare, spazio salariale. Insomma il perfetto patrimonio o tesoretto da sperperare. Non è che Sam sia senza peccato, antipatico e a volte spietato, si è fatto pochi amici nel giro, ha commesso alcuni errori, la sua dipartita è stata ben accolta nell’ambiente.

Il figlio – che chiameremo Bryan Colangelo (e che in realtà di padre vero ne ha uno, diciamo, molto ingombrante)  – ha il pranzo apparecchiato, fatto di prime scelte, diritti e tanto ossigeno finanziario. Le sue decisioni, discutibili e aggressive, cominciano ad eroderlo, il tesoretto. La vicenda Fultz ed un’innata predilezione a sprecare scelte avranno risvolti nel lungo termine, ma al di là dell’aspetto sportivo è quello manageriale – che sfora nel personale – a fare acqua da tutte le parti. Emergono inquietanti giudizi, veicolati da account twitter gestiti (forse) dalla moglie, su giocatori e società. Bryan deve dimettersi, arriva la terza generazione, quella dei nipoti – che chiameremo Elton Brand e Brett Brown (ad interim) – i quali continuano ed anzi accelerano l’opera di sperpero. Fino ad arrivare a ipotecare tutti i loro beni e quindi il futuro della propria franchigia. Sic transit gloria mundi. Così finiscono le eredità, spesso. 

La cosa più incredibile, ma non rara, è la velocità con la quale sia stato dissipato il tutto. Poco più di ventiquattro mesi, ad oggi, ma in pratica un solo anno se si parte dal Draft 2018 e si arriva alla Free Agency del 2019. Ma vediamoli i disgraziati passaggi con i quali i due (più il secondo del primo, invero) nipotastri Brett e Elton hanno prosciugato il tesoro – accumulato cent dopo cent – dello Zione Paperone Sam, e già intaccato dallo Zio Paperino Bryan.

Importante, Brett ed Elton non hanno naturalmente fatto tutto da soli, anzi. Quando Bryan Colangelo è costretto alle dimissioni (Giugno 2018), Brett Brown assume ad interim il ruolo di GM. Tutto lo staff di management sportivo, che già comprende Elton Brand, ma anche Ned Cohen, Alex Rucker e Marc Eversley, tre fedelissimi di Colangelo, restano in sella. Brown annuncia con un certo inappropriato orgoglio che, a partire dal suo interim, le decisioni tecnico-sportive sarebbero state prese congiuntamente dal management. Ecco un primo problema, capisco l’interscambio d’idee, il dibattito, i diversi punti di vista, ma alla fine – nello sport, come nel business, come nella vita – la decisione la deve prendere uno solo, o comunque devono essere chiari ruoli e responsabilità, altrimenti si rischia il “tutti coinvolti, nessun responsabile”. Non proprio da manuale di buona amministrazione. È chiaro che tale impostazione debba essere stata avallata, se non imposta, dalla proprietà della franchigia. In ultima istanza, Joshua Harris e David Blitzer, gli azionisti di maggioranza, i veri responsabili del tutto. Disastro incluso.

Andiamo alle mosse cruciali, da quel momento in poi. Premettiamo che – nel Giugno 2018 – i Sixers sono reduci da una buonissima stagione regolare, conclusa con un record di 50-32. Raggiunti i playoff, escono contro Boston nelle semifinali di conference (4-1), mettendo in evidenza soprattutto la carenza di creatori e tiratori dal palleggio e l’esposizione difensiva dei perimetrali.

N. 1 – draft 2018 – con la scelta numero 10, i Sixers chiamano Mikal Bridges, ala piccola. Profeta in patria. Nativo della Pennsylvania, viene dal college cittadino di Villanova, dove per due volte è stato campione NCAA. La madre è perfino un’impiegata dei Sixers. La chiamata, tanta emozione, tanta felicità. Durerà poco. Alla 16 infatti, Phila si è accordata con Phoenix, che sceglierà per conto loro Zhaire Smith, guardia (che giocava ala forte) da Texas Tech. Smith e la prima scelta non protetta di Miami del 2021 vengono scambiati per Bridges. 

Questa mossa sembra avere un senso. Zhaire è più giovane di Mikal e apparentemente con più potenziale di crescita, mentre la scelta di Miami è interessantissima in prospettiva. A due anni di distanza la trade si è rivelata un pessimo affare. Innanzitutto Mikal Bridges si sta confermando quel prototipo di 3-and-D che si intravedeva all’università, mentre il povero Zhaire Smith ha saltato in pratica tutta la prima stagione dopo essersi rotto un piede prima del training camp e dopo essere rimasto vittima di una bruttissima reazione allergica. Da queste botte,  fisiche e mentali, il giocatore non sembra essersi più ripreso, tanto da aver trascorso quasi tutta la sua esperienza di giocatore professionista in G-League. Missing in action.

Il bilancio di quel draft, invero, non finisce qui, visto che alla 26 i Sixers pescano Landry Shamet – poi scambiato ai Clippers nel pacchetto per Tobias Harris – mentre al secondo giro scambiano due scelte per prendersi Shake Milton, a sua volta chiamato alla 54. Rimpianto e speranza finiscono in pareggio. Quindi.

N. 2 – trade per Jimmy Butler (+Justin Patton) . È il Novembre 2018 – da Settembre Elton Brand è il nuovo GM – è i Sixers cercano di cogliere l’opportunità di rafforzarsi, spedendo a Minnesota, per l’insoddisfatto Jimmy Butler, Robert Covington, Dario Saric, Jerryd Bayless e una seconda scelta 2022. Ad onor del vero, di per sé, questo è un gran colpo. Da tempo immemore a Philly mancava un esterno in grado di crearsi il tiro, tosto, leader, alpha-dog, con le stigmate della stella. 

Potrebbe essere l’inizio di un grande sodalizio, anche con la città, propensa ad innamorarsi di uno come lui. Un duro. Potrebbe, ma non sarà. Jimmy litiga con Brett Brown, sembra non andargli a genio Simmons, mentre lega apparentemente con Embiid. Trascina i Sixers fino a gara 7 nell’incrocio fatale contro i Raptors. Questo non basta a trattenerlo, in free-agency si accorda con Miami. Grazie ad un sign-and-trade, Phila ottiene Josh Richardson. Alla fine, sarà questo il risultato netto dello scambio di nove mesi prima.

N. 3 – trade per Tobias Harris (+Boban Marjanovic e Mike Scott) – Febbraio 2019, trade deadline, Elton preme ancora il grilletto impacchettando Landry Shamet, Wilson Chandler, Mike Muscala, la propria prima scelta 2020, la prima scelta Miami 2021 (di cui allo scambio Bridges-Smith) e due seconde scelte per l’ala Clippers, già Milwaukee, Orlando e Detroit. Philadelphia è in cerca di star power, è in modalità all-in. Harris è un buon giocatore, in piena maturazione, ma si capisce subito che il prezzo pagato è alto, per un giocatore peraltro in scadenza, i cui servigi diventano quindi un affitto a breve. L’all-in, come sappiamo, rimbalzò quattro volte sul ferro per poi sancire l’eliminazione Phila contro Toronto. L’ansia di rimanere con un pugno di mosche giocherà invece un brutto scherzo. Come vedremo sotto.

N. 4 – free agency Butler-Harris – il momento dei nodi e delle decisioni. A Philadelphia da settimane il mantra dice “run it back”. Teniamoci tutto il gruppo e riproviamoci. Ragionevole, ma costoso. Molto costoso. Se ne va subito J.J. Redick, che preferisce un accordo con NOLA. Poi è Jimmy, apparentemente, a non volerne sapere. Cerca aria nuova. Anche lui vuol portare i propri talenti a South Beach. Tira più un granello di sabbia, come si dice. In realtà, voci maligne, ma ben informate, sussurrano che la scelta era tra il max a Butler o l’extension a Simmons. Qualcuno sceglie la seconda opzione. Magari è tutta una questione di Australian feeling. Vai a sapere.

Perso Butler, a Phila non ci si pensa sopra neanche un istante. Tobias a tutti i costi, costi quel che costi. E i costi, per l’appunto, dicono 180 milioni di dollari per 5 anni. Boom. Ora, per me Harris è una brava persona, un uomo coscienzioso impegnato nel sociale, un compagno di squadra ideale, il genero ideale, forse. A dirla tutta, è pure un discreto giocatore, ma poco più. Non un leader, non uno spaziatore, non un risolutore. Un discreto giocatore che difficilmente vale il 50% di quello che i Sixers sborsano per lui. Mossa che già allora in molti – sottoscritto compreso – giudicano la pietra tombale del Process. Anzi di più, una decisione destinata a ipotecare il futuro dei 76ers. 

N. 5 – il contratto di Al Horford. Ai Sixers serve un’assicurazione sulla vita, sportivamente parlando, un piano B per Embiid. Ragionevole, indubbiamente. Brand non bada a spese, vuole il meglio – secondo lui – e punta su colui che da due anni a questa parte è la nemesi di Joel, nei matchup con Boston. Il ragionevole diventa però irrazionale, nel momento in cui ad un giocatore di 33 anni si offre un quadriennale da 109 milioni (“solo” 97 garantiti, capirai). Così va a finire che invece di provare a tenersi J.J. Redick, invece di regalarsi uno spaziatore, Elton prenda il secondo albatross in pochi giorni, perdipiù con l’intenzione di farlo giocare fuori ruolo e con la convinzione di aver collezionato una delle lineup più temibili dell’NBA. Degli anni ’90, forse. Non certo quella di oggi.

Questo l’elenco, queste le tappe principali di un viaggio che, per tanti motivi, tra i quali l’inesperienza, la fretta eccessiva, una visione un datata sull’evoluzione del gioco, ha condotto la franchigia simbolo di un approccio strategico e sistematico, in una situazione di stallo pericoloso e apparentemente senza evidenti soluzioni, dove il futuro – pesantemente ipotecato – potrebbe trasformarsi in una lunga marcia nel deserto.

Mentre lavoro a questo pezzo, apprendo dell’esonero di Brett Brown, dopo 7 lunghi anni come Head Coach e – come detto, per un periodo – anche GM ad interim. Brett lascia sicuramente tanti bei ricordi, legati soprattutto alla pazienza nel continuare a motivare la truppa durante gli anni difficili dell’hard-process e per aver riportato la franchigia per due anni consecutivi (quasi tre) sopra le 50 vittorie, non accadeva dagli anni ’80. Lascia dei dubbi se la sua gestione delle stelle, di Joel e Ben in primis, ma anche di Jimmy Butler sia stata la più appropriata e se la gestione tattica delle partite fosse una sua forza. Per cui, tutto sommato, dopo una stagione come quella appena conclusa, è giusto così. Resta un allenatore che sa di basket e un uomo di ancor più notevoli qualità, come spesso riconosciuto dai suoi giocatori. Probabilmente sarà solo la prima pedina di un lungo domino che toccherà sia la dirigenza che i giocatori.

Saranno necessari dei cambiamenti, delle scelte coraggiose, un supplemento di inventiva e naturalmente tanta fortuna, se non si vuole che i Sixers si arenino in una aurea mediocritas o, ancora peggio, si condannino ad anni di irrilevanza.

Sì, perché non meriterebbe questo destino il tifoso che tanto ha penato e sperato negli anni bui. Non era veramente questo lo scopo finale per cui avevano lavorato e, metaforicamente, sacrificato loro stessi, gli antenati del Processo. 

L’unica fiammella di speranza è trovare qualcuno o qualcosa che possa innescare il #RestartTheProcess, sempre che sia ancora possibile. 

Tags: Al HorfordBen Simmonsbrett brownBryan ColangeloJimmy ButlerJoel EmbiidPhiladelphia 76erssam hinkieTobias Harris
Andrea F aka Doc di Nba2face

Andrea F aka Doc di Nba2face

Dopo Wilt, prima di Joel. In mezzo tutti gli altri. Decenni di amore per Phila e per l'NBA

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