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Black Lives Matter

Davide Torelli by Davide Torelli
19 Giugno, 2020
Reading Time: 9 mins read
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Black lives matter

Copertina a cura di Alessandro Cardona

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Le immagini dell’omicidio di George Floyd hanno fatto il giro del mondo, canalizzando
l’attenzione su ciò che si nasconde dietro al gesto in sé e per sé. Perché le riprese che immortalano 4 agenti della polizia di Minneapolis applicare violenza gratuita su un uomo fermo rivelano qualcosa di più del “semplice” abuso di potere o dell’eventuale “farsi prendere la mano”. E, non a caso, George Floyd era afroamericano.

C’è qualcosa di sadico nell’espressione di Derek Chauvin, l’uomo che preme il ginocchio sul collo di Floyd per oltre 8 minuti causandone il soffocamento. Lo ha sottolineato anche Gregg Popovich, head coach dei San Antonio Spurs, e riguarda l’espressione sul volto dell’agente. Un momento che racconta qualcosa di più della lista deplorevole dei suoi precedenti violenti, immediatamente diffusa nelle ore seguenti al fatto.

Si tratta della disinvoltura con cui svolge un’apparente routine, “come se fosse una cosa che compie tutti i giorni” considera Pop. “Tanto da potersi mettere la mano in tasca (…) come se dovesse dargli chissà quale lezione. Come se sentisse essere suo diritto e dovere farlo, nella sua testa”.

I fatti risalgono a lunedì 25 maggio, ed al presunto tentativo di Floyd di acquistare un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari, ritenuta falsa dall’impiegato di Cup Foods. La segnalazione al 911 si risolve con l’arrivo degli agenti Thomas Lane e Alexander Kueng, i due che arresteranno il malcapitato. Il sopraggiungere dei rinforzi, sotto forma di Chauvin e Tou Thao (l’uomo che farà “da palo”, evitando l’intervento dei passanti durante l’agonia dell’arrestato), causa il rapido precipitare della situazione.

Solo le sequenze video riprese dalle persone presenti – e le telecamere di sorveglianza circostanti – permetteranno la definitiva ricostruzione degli eventi, altrimenti destinati a passare alla storia come l’ennesima fatalità: l’uomo di colore che oppone resistenza, aggredisce le forze dell’ordine costrette a difendersi legittimamente, fino ad un epilogo non voluto ma inevitabile.

Una storia già sentita troppe volte, volendo da centinaia di anni negli Stati Uniti d’America, la
cosiddetta “land of the free”.

L’indignazione delle cosiddette “minoranze” esplode di conseguenza, e le proteste si diffondono a macchia d’olio in un paese già provato dalle conseguenze dell’epidemia di COVID-19, nonostante le restrizioni, i distanziamenti sociali e talvolta i lockdown cittadini.
Del resto, rispetto alla piaga del virus sono nativi, latini e afroamericani a pagare il prezzo più alto, a testimonianza di una società classista e razzista molto più che nelle semplici sfumature.

Attraverso una serie di comunicazioni al solito non unificanti, il presidente Donald Trump non pare intenzionato a gettare acqua su un fuoco che divampa, e le marce si trasformano presto in scontri, laddove la rabbia incontra spesso il muro della repressione. Nelle più grandi metropoli d’America viene addirittura introdotto il coprifuoco serale.

Il dibattito si sposta così sui metodi giusti o sbagliati della protesta, per quanto la stessa varchi anche i confini naturali, raggiungendo le principali città europee e spostando l’attenzione su un problema più sistemico che episodico.

Il movimento Black Lives Matter – nato nel 2013 proprio per protestare contro gli omicidi degli afroamericani per mano della polizia – ritorna nuovamente protagonista, per una questione che coinvolge un numero di persone che supera quello della comunità nera statunitense.

Del resto, lo stesso Popovich appare esemplificativo nel considerare quanto “da bianco, mi vergogni che una cosa del genere possa succedere. Lo abbiamo studiato nei libri di storia con le immagini delle persone di colore appese agli alberi, sentendoci in imbarazzo. Ma lo abbiamo visto di nuovo, ripreso in diretta. Non avrei mai immaginato di osservarlo con i miei occhi, in vita mia”.

Una sensazione comune, che porta migliaia di persone in strada al grido di “no justice, no peace” e dello slogan “i can’t breathe”, tristemente tornato d’attualità. La risposta del Presidente è riassumibile in un ridondante “law and order”, un mantra che in passato ha significato incarcerazioni sommarie e morte, soprattutto per la comunità afroamericana d’America.

 

La reazione del mondo NBA

La reazione del mondo NBA non si è fatta attendere e, oltre alle centinaia di tweet, molti giocatori hanno partecipato attivamente alle proteste, sfilando nelle marce pacifiche che si sono tenute nelle varie città. Tra i tantissimi trovo particolarmente significativo ricordare la presenza di Karl-Anthony Towns a Minneapolis, la città dove questo triste capitolo ha avuto origine, in compagnia di Stephen Jackson, amico personale di Floyd; quella di Russell Westbrook, vittima di uno dei più recenti episodi di razzismo sul parquet NBA durante una partita contro i Jazz, ha invece marciato a Compton in compagnia di DeMar DeRozan e Kendrick Lamar; infine quella dell’intero roster dei Milwaukee Bucks che ha marciato, ovviamente nella medesima città, guidato da Sterling Brown, anch’egli vittima pochi anni fa della brutalità delle forze dell’ordine americane.

Alcuni giocatori NBA, sull’onda delle proteste, stanno creando un dibattito attorno alla possibilità di slittare ulteriormente la ripresa della NBA per non distrarre l’opinione pubblica dal dibattito sul razzismo, oltre ai dubbi sull’effettiva validità della bolla (i dipendenti di Disney World potranno entrare ed uscire da essa, a differenza dei giocatori NBA, e verranno sottoposti a meno tamponi) e al rischio d’infortuni. L’ideatore del movimento è Kyrie Irving, seguito da colleghi come Dwight Howard e Avery Bradley.

Ora, il fatto che si tratti di un’idea di Irving, noto sostenitore del terrapiattismo e in generale non ritenuto particolarmente intelligente, ha probabilmente aiutato l’opinione pubblica a bollare il tutto come qualcosa di strampalato, senza soffermarsi più di tanto a pensare quanto possa essere valida o meno quest’ipotesi; Irving inoltre è ancora infortunato e non potrebbe quindi giocare le ultime otto partite di Regular Season ed i Playoff, per cui si è pensato che possa esserci anche una sorta d’interesse personale, anche perché proprio a causa dell’infortunio non perderebbe neanche un centesimo del suo stipendio.

Io stesso ho trovato molto più ragionevoli le parole di Austin Rivers, secondo cui riprendere la NBA darebbe anzi più popolarità al movimento perché ci sarebbero più riflettori puntati, concludendo che non tutti i giocatori NBA guadagnano quanto Kyrie e non potrebbero quindi permettersi di subire ulteriori tagli allo stipendio. Dwight Howard ha invece detto qualcosa che ha generato una crepa nel mio pensiero, dichiarando che rinuncerebbe volentieri alla possibilità di vincere il suo primo anello se questo portasse ad una vittoria per la sua gente. Dopo aver letto queste dichiarazioni, mi sono chiesto semplicemente se io appoggiassi l’idea di Rivers solo perché non vedo l’ora che la NBA torni in campo.

Ho molteplici motivi per volerlo: avrei più materiale per il sito e per il canale YouTube, oltre alla possibilità di vedere i miei Bucks giocare per l’anello e guardare semplicemente la competizione sportiva che più mi emoziona in assoluto. Rivers parla di finanziare le associazioni che lottano per l’equità e di attirare sempre di più i riflettori su di sè, idee valide e rispettabili come lo è la paura di Irving e Howard, ossia quella sensazione di déjà vu per cui da questa strada ci siamo passati tante volte e siamo sempre tornati al punto di partenza: chi ci dice che questa volta arriveremo invece a destinazione? Perché dovrebbe essere diverso dalle altre volte?

 

I rischi e le ragioni della protesta

A distanza di settimane le proteste faticano a placarsi, seguendo un iter spontaneo che sta portando una serie di risultati che possono creare un precedente. Anzi, devono farlo, perché oggi come mai la situazione è decisiva per spingere la società statunitense ad un cambiamento, a pochi mesi dalle elezioni per la Casa Bianca.

Se i quattro agenti coinvolti nell’omicidio sono stati tutti arrestati dopo la sospensione (con una cauzione fissata sul milione di dollari), si inizia a discutere su un sistema di riforma dei dipartimenti di polizia, partendo proprio da Minneapolis. Infatti, seguendo una delle richieste emerse dalle numerose marce per i diritti, quattro membri del consiglio comunale hanno chiesto lo smantellamento della polizia cittadina. “Non ci limiteremo poi a rimetterla insieme” ha dichiarato uno di loro “ma ripenseremo totalmente a come garantire la sicurezza pubblica e rispondere alle emergenze”.

Metaforicamente però, le manifestazioni al centro delle cronache nelle ultime settimane hanno regalato all’America qualcosa di più, come racconta Kareem Abdul-Jabbar in una recente intervista rilasciata al Manifesto.

Se l’omicidio Floyd può rappresentare uno spartiacque rispetto ad una misura ormai colma, la
collettivizzazione della protesta restituisce una porzione di popolazione unita contro i soprusi, cosciente che gli abusi a sfondo razziale non riguardino solo le minoranze, ma che la libertà di tutti sia conseguente ad un’applicazione della giustizia equa, indipendentemente dalle differenze.

Anche e soprattutto per questo è stato giusto marciare, così come gli sportivi afroamericani hanno indicato direzioni sociali superanti gli ambiti di appartenenza, svolgendo il ruolo di modelli da seguire.

A proposito di modelli da seguire, vi consiglio di leggere fino in fondo la lettera scritta da Kyle Korver per The Players’ Tribune (che trovate cliccando questo link), vi assicuro che ne vale la pena. Qui Korver racconta la sua superficialità nel commentare notizie come l’infortunio del suo compagno ed amico Sefolosha, occorso durante un arresto da parte della polizia di New York, e la vicenda già citata di Westbrook col tifoso Jazz.

La cosa che più mi piace di questo testo è il profondo senso di vergogna di cui è intriso: Korver non cerca giustificazioni per se stesso, ammette semplicemente di essere stato stupido, utilizza la sua vergogna come esempio negativo da non imitare e, altro tratto ammirevole, non cerca di riabilitarsi, di dire “ma ora sono cambiato“, cerca di fare ammenda per una colpa che non può e non vuole cancellare e di costruire su di essa una persona consapevole del suo ruolo, non solo come personaggio pubblico ma anche come essere umano.

Una delle riflessioni che più mi sono piaciute è quella sulla possibilità dei bianchi, definiti privilegiati, di fare “opt in” ed “opt out”, ossia di poter gestire la propria partecipazione alla causa antirazzista a seconda della propria volontà, a differenza di chi non ha scelta perché viene discriminato. Questa distinzione fa capire quanto fare “opt in” sia importante, chiedersi come si possa contribuire attivamente ad una causa che ha lacerato, e continua a farlo, gli USA ed il mondo intero; che necessita una risposta forte, vibrante.

E dire che, dalle colonne del Los Angeles Times, lo stesso Kareem aveva spiegato quanto
l’indignazione verso la piega violenta di certe dimostrazioni, fosse in gran parte frutto di difficoltà di comprensione. Quasi che i bianchi non potessero capire a fondo le radici di una rabbia ancestrale, figlia di schiavismo, soprusi ed ingiustizia. Per la quale la proposta di una “terza via” nella protesta, apparisse quasi svalutante la voglia di un cambiamento definitivo.

Certo, guardando alle partecipazioni attive delle stelle NBA nelle ultime settimane, i pericoli rispetto all’imminente ripartenza della stagione, vengono subito in mente. Nella loro vastità, gli Stati Uniti non sono certamente “Covid free”, a maggior ragione rispetto ad una comunità afroamericana tanto colpita, come già citato in precedenza.

Attivarsi in manifestazioni dove è complesso mantenere un distanziamento – in particolare nelle proprie comunità di appartenenza – potrebbe complicare notevolmente la ripresa di certe operazioni, se emergessero test positivi in precedenza ai prossimi training camp. Tuttavia, il ruolo di autentici amplificatori ricoperto da alcuni giocatori, potrebbe valere l’azzardo.

Il fatto che sportivi come Kareem Abdul-Jabbar, Bill Russell e Mohamed Alì rappresentino un modello da seguire – più per il loro impegno che per l’applicazione leggendaria nelle loro discipline – non è altro che un’ottima notizia in un periodo cupo, e non solo per l’America.
Adesso tocca a noi recepire ed applicare, ognuno secondo il proprio ambito e la propria coscienza.


Articolo a cura di Davide Torelli e Riccardo Olivieri.

Tags: Black Lives MatterDeMar DeRozanKarl-Anthony TownsKyle KorverMilwaukee BucksRussell WestbrookStephen JacksonSterling Brown
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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