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Vintage corner: Finals 2011 tra Mavericks e Heat

Enrico Bussetti by Enrico Bussetti
7 Giugno, 2020
Reading Time: 29 mins read
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Finals 2011 Mavs Heat

Copertina a cura di Edoardo Celli

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“Benvenuti a quelle che sono forse le Finali NBA più elettrizzanti dell’era post Jordan!”

L’introduzione di Federico Buffa nel prepartita di Gara 1 la dice lunga sulle aspettative riposte nelle NBA Finals 2011: oggi, a quasi nove anni di distanza, lo scontro tra Mavericks e Heat è considerato tra i più iconici dell’era moderna. Andiamo a sviscerare i motivi uno ad uno.

Quando si parla di Dallas contro Miami è inevitabile partire dal primo atto della rivalità: le Finals 2006, la più profonda ferita in assoluto nel cuore di qualunque tifoso dei Mavericks. In vantaggio per 2-0 nella serie e sul +13 a metà del quarto periodo di Gara 3, i texani riuscirono nell’incredibile ed ingloriosa impresa di buttare via un titolo sostanzialmente già vinto crollando e perdendo la serie per 4-2. Fino a quel momento, solo i Lakers nel 1969 e i 76ers nel 1977 avevano perso le Finals dopo aver vinto le prime due gare: è facile dunque capire la glorificazione di un Dwyane Wade superlativo e l’etichetta di perdente affibbiata a Dirk Nowitzki. Come si dice, però, la vendetta è un piatto che va servito freddo.

Cinque anni dopo, il fuoriclasse tedesco ha l’occasione di prendersi la sua rivincita, ma gli scenari sono completamente cambiati. I Mavs non sono più una superpotenza della Western Conference, ma una squadra piena zeppa di veterani: a Nowitzki e Jason Terry, unici superstiti della squadra del 2006, si sono aggiunti nel corso degli anni Jason Kidd, Shawn Marion e Caron Butler.

Di fronte a loro? Beh, basta leggere i nomi: Dwyane Wade, LeBron James, Chris Bosh. Flash non è più un giovane prodigio in piena ascesa, bensì un affermato fuoriclasse che in estate è stato raggiunto dai due colleghi per formare i Big Three, una squadra schiacciasassi che punta senza esitazione a conquistare “non uno, non due, non tre…” titoli. Un’impresa disperata? Non esattamente.

 

Il cammino verso le Finals

Dallas Mavericks

I Mavericks si erano resi protagonisti di un’ottima Regular Season, concludendo al terzo posto con un record di 57-25 nonostante il grave infortunio subito da Caron Butler a metà stagione. L’assenza del loro secondo violino offensivo costrinse i texani a riorganizzarsi, mettendo in mostra una versatilità che sarebbe ritornata molto utile più avanti.

Al primo turno di playoff gli avversari sono i Portland Trail Blazers, un accoppiamento in apparenza agibile ma che rischiò di complicarsi non poco: avanti 2-1 nella serie, infatti, dilapidarono un vantaggio di 23 punti in Gara 4 permettendo a Portland di impattare sul 2-2, grazie anche all’ultimo vero sprazzo di quel meraviglioso giocatore chiamato Brandon Roy.

Nonostante la preoccupazione dei tifosi e i favori del pronostico, i Mavericks non perdono la testa, continuando a sfruttare un Nowitzki particolarmente ispirato e facendo valere la propria superiorità vincendo la serie per 4-2 e avanzando al secondo turno. Le sensazioni sono ottime, ma la probabilità che la stagione dei biancoblu sia arrivata al capolinea è notevole: gli avversari sono nientepopodimeno che i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant, Pau Gasol e Phil Jackson, che hanno vinto gli ultimi due titoli e hanno tutte le intenzioni di puntare al three-peat.

I pronostici sono decisamente a tinte gialloviola e l’inizio di Gara 1 non sembra smentirli, con i Lakers che costruiscono un vantaggio di 16 lunghezze nei primi due quarti. I Mavs riportano pian piano la gara in equilibrio e poi sfruttano una gestione del finale scellerata di Bryant e Gasol per vincere sul filo di lana. Sembra un semplice incidente di percorso, ma in realtà è l’inizio della fine per i losangeleni che non riescono a trovare risposte efficaci a Nowitzki e al sempre fluido attacco di Dallas.

Un 2/20 dalla lunga distanza causa la sconfitta in Gara 2; la terza partita è già una virtuale ultima spiaggia, ma il sistema difensivo dei Mavericks regge splendidamente concedendo pochissime scorribande in area a Kobe. Il clamoroso 3-0 suona già come una sentenza, ma è in Gara 4 dove avviene il vero capolavoro, con un 122-86 che macchia l’ultima partita della carriera di coach Jackson.

Andrew Bynum perde letteralmente la testa dopo un’intera partita passata ad inseguire senza successo J.J. Barea, mentre Jason Terry è protagonista di un sontuoso 9 su 10 dalla lunga distanza. Forse il vero vincitore è, però, Peja Stojakovic, che proprio contro i Lakers aveva commesso l’errore più importante della sua carriera tanti anni prima con la maglia dei Kings: il suo immacolato 6 su 6 da tre punti è il perfetto riscatto.

Il 4-0 inflitto ai Lakers ha un valore paragonabile al 3-2 dell’Italia sul Brasile ai Mondiali del 1982: per la prima volta si profila all’orizzonte una possibilità di andare fino in fondo. Gli avversari alle Finali di Conference sono i giovani Oklahoma City Thunder del trio Westbrook-Harden-Durant. Gara 1, nonostante gli sforzi di Durant che chiuderà con 40 punti, è semplicemente il Dirk Nowitzki Show: il tedesco fa impazzire Serge Ibaka segnando 48 punti con un perfetto 24 su 24 ai tiri liberi.

Dallas e OKC si spartiscono le successive due partite e in Gara 4 i Thunder hanno una nitida occasione per pareggiare trovandosi sul +7 a 2:11 dalla fine, ma il solito Nowitzki porta la gara fino ai supplementari prima della tripla decisiva di Jason Kidd. Si torna in Texas sul 3-1 e i Mavericks devono semplicemente gestire una tirata Gara 5 risolta ancora una volta nel finale da Dirk: 4-1 e Finals riconquistate cinque anni dopo.

 

Miami Heat

La prima Regular Season dei cosiddetti Heatles non inizia in maniera trionfale (9-8 nelle prime 17), ma da dicembre in poi la squadra inizia a carburare e il record finale è un 58-24 che vale il secondo posto ad Est, dietro solo ai Chicago Bulls dell’MVP Derrick Rose.

L’opinione pubblica vede, però, gli Heat come i favoriti in postseason e Miami non delude le aspettative: al primo turno Wade, James e Bosh girano tutti ad alto livello e lasciano le briciole a dei solidi ma nettamente inferiori Philadelphia 76ers vincendo per 4-1.

Al turno successivo gli avversari sono i Boston Celtics, finalisti nel 2010 e autentica nemesi di LeBron nel suo periodo ai Cavaliers. La cessione di Perkins ha però indebolito i biancoverdi sotto canestro, anche perché Shaquille O’Neal, il teorico sostituto, scenderà in campo solamente in due occasioni in quella serie a causa di continui problemi fisici. Il fattore campo viene sempre rispettato nelle prime tre partite: in Gara 1 si segnalano i 38 di Wade ma anche i 25 con 5/7 da 3 di James Jones dalla panchina, mentre in Gara 2 sale in cattedra James con 35 e 14/25 dal campo.

La serie si sposta in Massachussets e la doppia doppia di Garnett (28 punti + 18 rimbalzi) permette ai Celtics di respirare prima di Gara 4, che è una vera e propria battaglia. Non bastano infatti i 48 minuti a risolvere la disputa, dato che il buzzer beater di Pierce si spegne sul ferro: ai supplementari è Miami ad avere i nervi più saldi e a portarsi sul 3-1. Nonostante abbiano le spalle al muro, i Celtics approcciano al meglio Gara 5 conducendo sostanzialmente la partita per tre quarti e mezzo. L’unico problema? I quattro minuti finali dei Miami Heat, una clamorosa prova di forza.

La Finale di Conference vede lo scontro, come da pronostico, tra Heat e Bulls, con il fattore di campo a favore di Chicago. I Tori partono in quarta con un trionfale +21 in Gara 1, ma nessuno pensa ad una serie in discesa. Miami, infatti, si riscatta subito rubando il fattore campo in Gara 2 e vincendo Gara 3 con il solito copione: tre quarti di “gestione” e la fiammata decisiva nel finale.

La quarta partita è ancor più equilibrata e servono i supplementari a deciderla: proprio come accaduto contro Boston, gli Heat si dimostrano spietati e riescono ad imporsi, guidati dal solito LeBron ma anche da un Chris Bosh in grande spolvero. E proprio come contro Boston, Miami arriva ai minuti finali di Gara 5 con parecchie lunghezze da recuperare, fino a quando il Prescelto decide che può bastare così.

https://youtu.be/KgLMI784M4E

 

Pronostici

Inutile prendersi in giro, il pronostico dell’opinione pubblica è decisamente a favore degli Heat. Le quote, a fine maggio, parlano chiaro: la vittoria di Miami paga 1.5 volte la posta, mentre per quella dei Mavericks si sale a 2.6 volte la posta. Anche chi non mastica quotidianamente le scommesse sportive capisce che non si tratta di un Davide contro Golia, com’è stata spesso dipinta negli anni successivi, ma comunque di una sfida che parte con un chiaro favorito.

Tutta la pressione del mondo è dunque sugli Heat, ed in particolare sulle spalle di LeBron: il Prescelto, molto criticato durante l’estate per la sua scelta di lasciare Cleveland, è riuscito a tornare in Finale dopo quattro anni, e questa volta sembrerebbe avere tutte le carte in regola per scrollarsi di dosso la fastidiosa etichetta di “re senza corona”.

Dall’altra parte della barricata i Mavericks hanno ricevuto più di un elogio per la loro splendida cavalcata, ma l’ultimo ostacolo sembra davvero troppo arduo da superare: anche se pure Dirk Nowitzki deve fare i conti con qualche nomea negativa di troppo, la pressione che gravita intorno al tedesco assetato di vendetta non è paragonabile a quella di cui è circondato James.

WunderDirk non è però l’unico ad essere rimasto scottato più volte in carriera al momento del dunque: oltre a Jason Terry, suo compagno nel 2006 che pagò a carissimo prezzo quell’attitudine un po’ arrogante, ci sono anche Jason Kidd, finalista perdente nel 2002 e 2003, e Shawn Marion, che ai tempi dei Phoenix Suns dei 7 seconds or less non è mai riuscito ad alzare il famigerato Larry O’Brien Trophy nonostante la competitività della squadra. Tante storie, tanti temi e tanti giocatori, da una parte e dall’altra, che non possono permettersi di perdere: è tutto apparecchiato per un’epica serie di Finale.

 

It’s game time!

Gara 1

Si alza la prima palla a due con questi quintetti: Bibby-Wade-James-Bosh-Anthony per gli Heat, Kidd-Stevenson-Marion-Nowitzki-Chandler per i Mavericks. L’impressione immediata, fin dalle prime battute, è quella di uno scontro tra due squadre prettamente difensive. In particolare, i padroni di casa mettono subito in mostra l’impronta à la Pat Riley che possiedono nella loro metà campo: area congestionata, maglie strettissime e nessun canestro facile concesso.

Dall’altra parte, invece, i tiri sono divisi piuttosto equamente tra i Big Three: Wade chiuderà con 19 tiri tentati, James con 16 e Bosh con 18, con tanti isolamenti e l’ex giocatore dei Raptors cercato spesso e volentieri in post basso.

I Mavericks propongono inizialmente una pallacanestro piuttosto tradizionale, con Kidd a tenere molto il pallone in mano attendendo di servire il compagno una volta smarcato. In ogni caso, la prima idea è sempre quella di servire Nowitzki in post alto e Miami fa di tutto per disturbare il tedesco fin dalla ricezione, aggredendolo anche con qualche raddoppio.

Entrambi gli attacchi sono comunque poco fluidi e faticano ad ingranare, ma l’ingresso di J.J. Barea a fine primo quarto dà la prima scossa ai Mavs. Con il portoricano in campo il ritmo dell’attacco di Dallas si alza, con più pick and roll che coinvolgono sia Nowitzki che Chandler e più occasioni per scarichi e ribaltamenti di gioco: insomma, un basket più simile a quello che si gioca oggi. Sembra solamente un dettaglio, ma sarà una delle chiavi tattiche più importanti nel corso della serie.

I primi due quarti sono all’insegna dell’equilibrio e con il passare dei minuti l’attenzione difensiva cala progressivamente e le due squadre iniziano a spingere più in transizione e a cercare più conclusioni dalla lunga distanza. Una folata ad inizio terzo quarto porta i Mavericks sul +8 ma è solamente un fuoco di paglia, dato che Miami ricuce immediatamente lo svantaggio ed inizia a prendere il comando della gara grazie anche ad un buon apporto dalla sua panchina.

L’ingresso di tiratori come Chalmers e, soprattutto, Mike Miller è un toccasana per lo spacing e l’attacco ne risente positivamente; Dallas prova a rispondere servendo più volte Marion in post, ma fatica sempre di più a reggere la grandissima intensità messa sul parquet dagli avversari. L’attacco perde efficacia ed in difesa cominciano a sommarsi le distrazioni, e in una partita dalle basse percentuali da ambo le parti (37.3% per i Mavericks, 38.8% per gli Heat) è Miami a mantenere i nervi più saldi nei minuti finali e a portare a casa la vittoria. Ancora una volta alla squadra della Florida basta che uno dei suoi fuoriclasse decida di salire in cattedra e chiudere i conti: stavolta il nome è quello di Dwyane Wade.

 

Gara 2

Entrambe le squadre entrano in campo con propositi bellicosi nella metà campo offensiva, quasi a voler smentire le impressioni della prima partita. Gli attacchi sono più rapidi, aumentano i pick and roll e soprattutto i tentativi di attaccare la difesa dal palleggio fin dai primi secondi dell’azione.

Il protagonista principale è di nuovo Wade, davvero molto aggressivo palla in mano, al contrario di un James guardingo e con un ruolo più da facilitatore che ha comunque ottima efficacia. Di contro i Mavericks mettono in mostra tutto il loro passing game cercando sempre di anticipare la puntuale difesa degli Heat, alzando nuovamente il ritmo con l’ingresso di Barea e tentando sempre di coinvolgere Nowitzki.

Sia Spoelstra che Carlisle adottano una tattica difensiva più rischiosa, utilizzando più frequentemente i raddoppi e cercando spesso la palla rubata: tutto ciò tende ovviamente a lasciare qualche buco in più, ma nonostante qualche mini-break da una parte e dall’altra si arriva di nuovo all’intervallo in parità.

Al rientro dagli spogliatoi, però, la musica cambia e le difficoltà di Dallas tornano a palesarsi. I numerosi passaggi per eludere l’anticipo iniziano a trasformarsi in palle perse sempre più sanguinose, data l’efficacia in transizione di Miami, e il terzo quarto dei Mavericks si può facilmente riassumere con la parola resilienza. Per parecchie volte si assiste ad un tentativo di fuga da parte degli Heat e ogni volta i texani trovano il modo di metterci una pezza, concludendo il periodo in svantaggio di sole quattro lunghezze.

All’inizio del quarto periodo, però, ecco quello che sembra lo strappo decisivo: Dallas è molle, senza idee in attacco e continua a perdere caterve di palloni, così Miami, dopo qualche possesso di studio, riesce a portarsi sull’88-73 a 7 minuti dal termine grazie ad un perfetto 13-0 di parziale chiuso con un’iconica tripla dall’angolo di Wade, che festeggia fissando la sua mano destra in un’immagine che sembra il definitivo sigillo della partita.

E poi? E poi avviene una dinamica tipica dello sport, ed in particolare delle NBA Finals: un evento apparentemente insignificante che cambia completamente l’inerzia della partita. Gli Heat sono sul +15 e hanno la partita in mano, probabilmente pensano di averla già vinta per qualche secondo di troppo e concedono due canestri rapidi ai Mavs. Spoelstra chiama immediatamente timeout, ma qualcosa sembra essere scattato nella mente dei texani, che tante volte si sono trovati sotto in quella stagione e spesso e volentieri hanno trovato il modo di sbrogliare situazioni apparentemente compromesse.

Come sempre avviene in questi casi, il contributo deve arrivare da entrambe le parti: gli Heat decidono di giocare con il cronometro tentando di addormentare la partita e giocarsela a metà campo, ma il risultato è una serie infinita di isolamenti, soprattutto per LeBron, che non produce alcunché. Di contro Nowitzki e soci ne approfittano per ritrovare coesione in difesa e spingere il più possibile in attacco, costruendo una delle rimonte più incredibili della storia delle Finali che viene completata proprio dal tedesco: prima chiude un contropiede in situazione di tre contro uno che vale il pareggio con un elegante sottomano, poi segna una pesantissima tripla in uscita dai blocchi portando i suoi sul 93-90 a 26 secondi dal termine.

Sembra tutto pronto per celebrare l’upset, ma sono proprio i momenti più inaspettati a regalare più emozioni. Gli Heat spendono il loro ultimo timeout per guadagnare una rimessa nella metà campo offensiva, battuta da James, e tutta Dallas è concentratissima nel non far ricevere Wade in uscita da un blocco. L’unico inconveniente è che Jason Terry si dimentica completamente di Mario Chalmers, che si posiziona nell’angolo opposto solo soletto e viene pescato da LeBron con un preciso passaggio di oltre quindici metri; Rio riceve e scaglia una tripla così precisa da muovere appena la retina.

Non sono passati nemmeno tre secondi e la partita è di nuovo in parità. Nonostante lo shock, i Mavericks non possono far altro che riorganizzarsi durante il timeout e andare di là con un’unica idea in testa: mettere il pallone nelle mani di Nowitzki. Tutta Miami lo sa, ma Dirk sta aspettando da troppi anni questo momento: si libera di Bosh con la sua classica virata e appoggia al tabellone una frazione di secondo prima che arrivi l’aiuto di Wade, il quale avrà nelle mani anche il disperatissimo ultimo tiro della gara che non andrà a bersaglio.

Dallas vince una partita unica per emozioni e tensione, probabilmente la più bella di tutta la serie, infliggendo a Miami la prima sconfitta casalinga nei playoff. Qui sotto potete godervi tutta l’incredibile sequenza finale, prima di volare insieme a noi in Texas sull’1-1.

 

Gara 3

L’iniezione di fiducia data dall’insperata vittoria in Gara 2 si nota fin dai primissimi minuti, con i ragazzi di Carlisle che spingono fin da subito sull’acceleratore in un American Airlines Center molto rumoroso. Si nota in particolare un Jason Kidd quasi trasfigurato, che cerca di bucare la difesa alla prima occasione mostrandosi molto più aggressivo rispetto alle prime due uscite.

Una volta esaurita l’onda emotiva, però, sono gli ospiti a prendere lentamente in mano la gara e neanche l’ingresso del solito Barea, un po’ più confusionario, riesce ad invertire la tendenza. Wade rimane sempre molto più avvezzo di James ad attaccare l’area, ma il contributo del nativo di Akron si nota soprattutto quando attira la difesa su di sé prima di scaricare sul lato debole a Bibby e soprattutto all’ispiratissimo Chalmers, che chiuderà con 4/6 da tre.

Dopo due quarti terminati sul -5, nonostante gli Heat avessero raggiunto anche un vantaggio in doppia cifra, i Mavericks iniziano il terzo quarto cercando più isolamenti per la loro stella. Per la prima volta nella serie Nowitzki ha cominciato fin da subito a portare a scuola la difesa di Miami e chiuderà infatti con 34 punti finali; lui ed un Kidd sempre pronto a far partire il contropiede con passaggi a tutto campo sono i principali motivi per cui Dallas riesce a stare aggrappata alla partita, vivendo principalmente di folate.

In un modo o in un altro, comunque, si arriva di nuovo al finale di partita con il punteggio in equilibrio, tra un tiro da fuori dei Mavericks e una soluzione interna per Miami. Sono successe davvero molte cose, ma ancora una volta manca meno di un minuto e la partita non ha ancora un padrone: 86-86 e palla in mano agli Heat. Wade viene raddoppiato e scarica a LeBron, che si trova anch’egli con due uomini addosso prima di girarsi e trovare con un preciso passaggio Chris Bosh libero dalla media. Il meno considerato dei Big Three mette due punti fondamentali e, sorpresa delle sorprese, è la mano di Nowitzki a tremare nel possesso successivo.

Il tedesco sta per effettuare il suo classico fadeaway ma all’ultimo momento cambia idea, tentando un impossibile scarico per Marion che si tramuta in una palla persa letale. In realtà i Mavericks avrebbero ancora un’ultima occasione, dato che la complessa tripla in step back di James trova solo il ferro e sul cronometro ci sono ancora 4.4 secondi, ma il buzzer beater di Nowitzki ha lo stesso esito. Finisce così, con la vittoria di Miami che si riprende il fattore campo e torna in vantaggio nella serie.

 

Gara 4

Si riparte con una novità in casa Dallas: J.J. Barea promosso in quintetto al posto di Deshawn Stevenson. I Mavericks hanno dimostrato di potersela giocare alla pari con gli avversari, ma sanno bene che un’eventuale sconfitta li metterebbe su un 3-1 difficilmente recuperabile e quindi decidono di partire di nuovo a mille sfruttando un Nowitzki subito ispirato.

Il ritmo è altissimo, con tanti tiri e tanti errori da ambo le parti. Miami continua ad avere poco da LeBron al tiro da fuori, mentre Bosh è piuttosto efficace dalla media; Dallas, dopo un breve passaggio a vuoto ad inizio secondo quarto, riesce a mettere in mostra un’ottima circolazione di palla che genera tiri aperti. Da sottolineare l’aumento di minuti per Terry: il Jet, già messosi in mostra per la pulizia dei suoi passaggi in Gara 3, fa sì che i Mavericks, per la prima volta, riescano a produrre attacchi di buon livello anche quando Nowitzki si riposa.

Sembra incredibile a dirsi visto quanto accaduto fino a questo momento, ma Gara 4 è probabilmente la partita più equilibrata in assoluto, con nessuna delle due squadre che sembra essere realmente in grado di vincerla. L’attacco degli Heat continua ad essere piuttosto statico, con tanti isolamenti su un quarto di campo e un LeBron che, incredibilmente, sembra voler lasciare ogni responsabilità a Wade e Bosh; dall’altra parte i Mavericks riescono a costruire tiri più aperti che però non sempre trovano il fondo della retina.

Durante uno dei periodi più gravi di siccità offensiva, soprattutto per Nowitzki, Dallas scivola fino al -9, ma a quel punto Chalmers commette l’errore di sfidare con il trash talking un maestro della disciplina come Jason Terry. Il numero 31, famoso tanto per l’ingombrante ego quanto per la capacità di segnare tiri a bassa percentuale, si riaccende improvvisamente e riporta a contatto i suoi.

Il quarto quarto è un continuo susseguirsi di parziali e contro-parziali e mette in mostra tutta la solidità mentale acquisita dai Mavericks, che ribattono colpo su colpo agli avversari. A questo punto avrete capito che il destino di questa serie è di arrivare in equilibrio fino all’ultimo minuto: sul +2 Dallas non riesce a trovare il colpo del KO dato che prima Terry e poi Stevenson sbagliano da dietro l’arco, ma questa volta tocca a Wade commettere gli errori decisivi.

Prima, imbeccato in contropiede da LeBron e abbattuto da Kidd, fa solo 1 su 2 ai liberi, poi, dopo aver risposto al solito Dirk con una schiacciata e aver visto Terry segnare i due liberi che valgono il +3 Mavericks, si fa scivolare il pallone dalle mani sull’ultima rimessa, riuscendo a passare a Miller solo quando il tempo è praticamente scaduto. La conclusione del numero 13 è poco più di una preghiera e gli ultimi punti messi a referto, simbolicamente, rimangono quelli di Terry.

Finisce così, ma tutte le critiche hanno un solo bersaglio: LeBron James, che per la prima volta in carriera non raggiunge la doppia cifra nei punti in una partita di playoff. Si ferma a 8, con soli 11 tiri tentati e l’accusa di essere crollato mentalmente nel momento decisivo.

 

Gara 5

Arrivati a questo punto sembra davvero impossibile fare un pronostico: il 2-2 complessivo simboleggia come l’equilibrio abbia regnato sovrano in quattro partite in cui è successo tutto ed il contrario di tutto. Ora ogni errore può potenzialmente essere decisivo nel far scivolare il titolo nelle mani di Mark Cuban o in quelle di Pat Riley, i due uomini simbolo delle due organizzazioni.

A rendersene conto per primi sono i Mavericks, il cui approccio alla partita è al limite della perfezione. La palla gira vorticosamente in attacco tra i giocatori che sfruttano bene ogni blocco, mentre in difesa viene chiusa ogni linea di passaggio. Gli Heat insistono con le loro strategie offensive più lente e statiche, ma sembrano avere le polveri piuttosto bagnate.

Jason Terry riparte da dove ha iniziato continuando a seminare il panico nella difesa avversaria quando gioca il pick and roll, mentre Carlisle, per i minuti in cui Nowitzki si siede in panchina, pesca dal fondo del suo mazzo quella che forse è la carta più improbabile: Brian Cardinal. No, non avete letto male: il pittoresco veterano è sorprendentemente a suo agio nel frontcourt con Marion e Chandler e riesce a mantenere in linea di galleggiamento la squadra anche senza il tedesco.

Siamo però solo agli inizi, e Miami riesce a cavare fuori qualcosa anche dalle forzature e dalle sue risicate rotazioni, come i due jumper dalla media consecutivi del trentottenne Juwan Howard. Nella sfida tra i due allenatori è Carlisle a sperimentare di più, proponendo all’inizio del secondo quarto un inedito quintetto Barea-Terry-Stevenson-Nowitzki-Mahinmi e facendo vedere qualche accenno di difesa a zona 2-3, mentre Spoelstra appare più fermo sulle sue idee.

In ogni caso, nonostante Dirk continui a segnare canestri pesanti, Dallas si raffredda col passare dei minuti e non riesce ad andare in fuga. Si va all’intervallo con i texani in vantaggio 60-57 e una prima frazione ben riassunta dalle emblematiche parole di Mike Breen, telecronista di ESPN:

A lot of defence in the previous four games, now an offensive explosion in this first half!

All’inizio del terzo quarto Dwyane Wade trascorre parecchi minuti in panchina, a causa di un infortunio all’anca avvenuto nel primo quarto che lo costringerà a giocare un po’ a singhiozzo per tutta la gara. Per la prima volta, dunque, il mondo ammira con continuità una soluzione che gli Heat adotteranno sempre più spesso negli anni successivi: LeBron James da playmaker occulto coadiuvato da tiratori, in questo caso Bibby e Miller. I risultati sono buoni, ma Dallas continua ad avere percentuali clamorose soprattutto al tiro da tre punti.

Nowitzki sta di nuovo giocando come il fuoriclasse che è, Barea è davvero ispirato e Terry continua il suo clinic sul passaggio: per la prima volta nella serie si ha la netta sensazione che siano i Mavs a condurre le operazioni e che James e compagni siano quasi intimiditi e incapaci di ritrovare il bandolo della matassa.

In ogni caso il vantaggio dei ragazzi di Carlisle non raggiunge mai la doppia cifra ed il rientro in campo di Wade riaccende un po’ gli Heat soprattutto dal punto di vista emotivo. Miami riesce a riportarsi davanti nel punteggio, ma ad uscire fuori nel clutch time sono ancora una volta i veterani in maglia bianca.

https://youtu.be/7qPcoId3q00

Tripla di Terry, schiacciata di Nowitzki, tripla di Kidd e altra tripla di Terry per chiudere il conto, con in mezzo due splendide difese di Tyson Chandler. Tutta l’esperienza dei Mavericks viene fuori in maniera prorompente nel finale, e per la prima volta Dallas è avanti nella serie. Gli equilibri sembrano essersi spostati, e nonostante le due successive gare si disputino a Miami ora i tifosi di Dallas iniziano a credere per davvero che il sogno possa trasformarsi in realtà.

 

Gara 6

I Miami Heat sono consapevoli di avere le spalle al muro, ed esattamente come fatto dai loro avversari in Gara 4 partono subito a mille consci dell’importanza della gara. LeBron James, in particolare, sembra determinato a riscattarsi ed inizia con perfetto 4 su 4 al tiro. Spoelstra si è reso conto che è ora di cambiare qualcosa e tenta di rimescolare le carte promuovendo Chalmers in quintetto al posto di Bibby, il quale non giocherà nemmeno un minuto e verrà sostituito da un Eddie House rimasto sostanzialmente in naftalina fino a quel momento.

In un modo o nell’altro gli Heat riescono a portarsi quasi subito sul +9, ma il primo quarto è in realtà indicativo della forza mentale dei Mavericks, che rimangono a contatto nonostante Nowitzki commetta subito due falli e sbagli parecchi tiri. Il migliore nelle fila di Dallas è ancora una volta Jason Terry, che esce dalla panchina con il sangue agli occhi portando punti a raffica, ma quello dei texani è ormai un collaudato gioco di squadra che coinvolge anche i comprimari: Deshawn Stevenson è mortifero dall’arco e Brian Cardinal partecipa nuovamente alla festa con difesa, energia e anche un tiro da tre punti.

Come se non bastasse, coach Carlisle propone con continuità una zona 2-3 che lascia perplessi gli Heat, i quali esauriscono in fretta la loro produzione offensiva a causa dell’area intasata. Nonostante tutto, all’intervallo il distacco è di nuovo minimo, principalmente a causa della serataccia al tiro di Nowitzki (1/12 all’intervallo) e di un Wade che è ancora una volta l’ultimo ad arrendersi.

Strano ma vero, gli ultimi 24 minuti della serie sono in realtà i meno interessanti. Miami si intestardisce a cercare la penetrazione rinunciando talvolta persino a tiri aperti da fuori: LeBron in particolare fatica ad effettuare le giuste letture ed il risultato è un attacco statico, senza idee e ormai completamente inefficace.

Nell’altra metà campo si assiste invece ad una pioggia di triple da parte di Dallas, alla seconda partita consecutiva dalle percentuali stellari. Nowitzki si riprende un po’ dal disastroso primo tempo ma disputa una partita complessivamente mediocre, ma la squadra non ne risente più di tanto: ormai la fiducia è ai massimi storici. Finisce 105-95 e i Dallas Mavericks, cinque anni dopo la bruciante sconfitta del 2006, possono finalmente alzare il primo Larry O’Brien Trophy della loro storia!

 

Analisi e punti chiave

Il risultato delle Finals 2011 è oggi considerato dai più una grandissima sorpresa, e spesso viene visto più come un suicidio sportivo dei Big Three di Miami.

 

Pronostici e problemi di spacing

Sarebbe una grossa bugia definire i Mavericks come favoriti: il loro roster era sicuramente di ottimo livello, ma ad inizio anno il loro nome non veniva nemmeno considerato tra le contender al titolo. Dirk Nowitzki rimaneva uno dei primi 10-15 giocatori NBA, ma a 33 anni sembrava essersi già giocato senza successo le sue migliori chance di titolo e intorno a lui non si trovava nessun altro All-Star, ma una batteria di ottimi veterani.

Eppure, come già dimostrato nella serie contro i Lakers, i Mavericks avevano le caratteristiche necessarie per esporre le debolezze di squadre più quotate di loro sulla carta. La pallacanestro di Dallas era decisamente avanti rispetto ai tempi a livello di spacing, potendo schierare quintetti con quattro giocatori pericolosi da oltre l’arco; di contro, le lineup degli Heat causavano spesso un intasamento dell’area.

Dwyane Wade e LeBron James erano sì due futuri Hall of Famers all’apice della carriera, ma le loro caratteristiche rendevano complessa la convivenza tra i due sul parquet. Entrambi necessitavano infatti di avere la palla in mano per rendere al meglio e nessuno dei due possedeva un tiro da fuori mortifero, per cui il rischio di pestarsi i piedi era piuttosto elevato. Schierarli insieme ad un centro come Joel Anthony, sostanzialmente nullo fuori dall’area in attacco, non facilitava certo le loro scorribande in area: i Mavericks sono stati gli unici a riuscire a mettere in luce queste debolezze strutturali.

 

Le panchine

Un altro punto focale è il confronto tra le due panchine, sia riferendosi ai comprimari che al coaching staff. Una caratteristica ricorrente negli anni di Rick Carlisle è una profonda conoscenza delle qualità di ogni componente del roster, che ha consentito al coach di avere sempre una carta diversa da giocarsi a seconda delle necessità.

Sia J.J. Barea che Jason Terry hanno contribuito a mettere in crisi la difesa degli Heat con la loro abilità nel giocare il pick and roll, acquisendo via via un’importanza sostanzialmente pari a quella di Kidd e Stevenson. L’assenza di Brendan Haywood per tre partite su sei causata da vari acciacchi è stata efficacemente coperta da Ian Mahinmi, mentre le difficoltà a reggere il ritmo di Peja Stojakovic hanno fatto sì che Brian Cardinal fosse il sostituto designato delle ali titolari Marion e Nowitzki.

Dall’altra parte della barricata lo scenario era ben diverso: al di là dei Big Three, il resto del roster era composto da tiratori sugli scarichi come Bibby, Chalmers, Miller e House e specialisti difensivi come Haslem ed Anthony. Nessun giocatore, dunque, in grado di cambiare gli scenari creando occasioni con la palla in mano.

Il confronto Carlisle-Spoelstra, inizialmente equilibrato, ha visto man mano prevalere il primo, più duttile del collega e disposto a cambiare parzialmente i suoi principi offensivi quando necessario. Lo spostamento in quintetto di Barea, la scelta di giocare più pick and roll e la zona 2-3 per mettere in risalto le carenze degli Heat sono solo alcuni esempi di un allenatore sempre pronto a cambiare i quintetti e definito, ancora oggi, il migliore quando si parla di aggiustamenti in corso d’opera.

Spoelstra, nonostante la giovane età, si è dimostrato più restio a fare cambiamenti, probabilmente convinto (come la stragrande maggioranza degli appassionati) che la sola presenza di Wade, James e Bosh nella stessa squadra fosse garanzia di un potenziale offensivo sufficiente a coprire ogni crepa. I suoi tempi di reazione alle mosse dell’avversario sono stati più lenti del dovuto e si è ritrovato rapidamente a dover inseguire sul piano tattico, accorgendosi troppo in ritardo del fatto che la nave stesse imbarcando acqua già da qualche tempo.

 

La componente psicologica

La componente psicologica ha giocato un ruolo fondamentale durante tutto l’arco di una serie, a conti fatti, equilibratissima, con ben tre partite arrivate all’ultimissimo tiro. La rimonta di Gara 2 deve aver lasciato un segno più profondo del previsto nella psiche degli Heat, che hanno sì dilapidato un’importante occasione di portarsi sul 2-0 ed indirizzare in maniera decisa la serie, ma che alla fine di Gara 3 erano comunque riusciti a ritornare al comando di una serie in cui rimanevano, fino a quel punto, la squadra che aveva giocato complessivamente meglio.

A prendere fiducia, al contrario, sono stati i Mavericks, che nonostante le sconfitte si sono resi conto di potersela giocare contro una squadra non così invincibile come suggerivano le apparenze. Sembrava impossibile affrontare a viso aperto e in contropiede i maestri della transizione, ma Dallas ha messo a nudo le difficoltà incontrate da Miami nel difendere nei primissimi secondi dell’azione facendo saltare gradualmente il banco. A completare l’opera ci sono le mani dei veterani che mai, almeno da Gara 4 in poi, hanno tremato e, perché in questo sport c’è bisogno anche di questo, due serate particolarmente fortunate al tiro in Gara 5 e Gara 6.

 

L’Mvp Dirk Nowitzki e la rivincita dei veterani

Il premio di MVP delle Finali non poteva che finire nelle mani di Dirk Nowitzki, che ha totalizzato più di 10 punti di media nel solo quarto periodo nell’arco della serie. Il tedesco, autore di una straordinaria run di playoff, ha in realtà visto le sue percentuali sporcarsi contro gli Heat rispetto alle serie precedenti. Oltre alla febbre di Gara 4 è importante sottolineare come Miami potesse alternare in marcatura su di lui Bosh, Anthony e Haslem, ovvero tre difensori con le giuste caratteristiche per provare a stare con lui.

In particolare la rapidità di piedi di Haslem era preziosissima nelle situazioni in cui il tedesco fungeva da bloccante, consentendo al numero 40 di negare spesso la ricezione al suo avversario sul pick and pop: la famosa tripla di Terry in Gara 5 è emblematica, poiché il Jet è costretto ad una forzatura (poi ugualmente realizzata) causata dal magistrale posizionamento difensivo di Haslem.

https://youtu.be/VXjHOELwMkE?t=156

Gara 3 e Gara 5 rimangono comunque un manifesto di tutta l’abilità di Nowitzki, che ha anche chiuso la serie con un indescrivibile 45/46 ai tiri liberi. Laddove Dirk non è arrivato, comunque, ci hanno pensato i suoi compagni: di Terry si è già parlato in lungo e in largo, ma anche giocatori meno appariscenti come Shawn Marion e Tyson Chandler sono stati fondamentali.

L’ex Suns, oltre al consueto contributo difensivo, ha fornito anche qualche sporadica soluzione offensiva di post basso, mentre il centro è stato l’architrave di un sistema difensivo che, dopo aver impedito l’accesso in area per larghi tratti a Kobe Bryant, si è ripetuto con LeBron James. Tra i tanti dati significativi ce n’è uno emblematico: in tutte le serie precedenti James si è guadagnato tra gli 8 e i 10 tiri liberi di media a partita, ma in finale si è fermato poco sopra ai 3.

L’anello del 2011 è, però, anche l’anello di Jason Kidd, che nonostante i 37 anni ed un ruolo non di primo piano corona una carriera di altissimo livello, o quello di Stojakovic, che è riuscito dove aveva fallito con i Kings tanti anni prima. Una squadra di veterani ben cosciente di essere probabilmente all’ultima occasione in carriera che necessitava di una cavalcata simile, probabilmente irripetibile: la squadra verrà infatti parzialmente ricostruita già nell’estate successiva e Cuban non sarà più in grado di fornire a Nowitzki un supporting cast in grado di farlo competere ancora ad alti livelli. Ma tutto ciò importa relativamente, poiché è venuto dopo un anello storico ed indimenticabile.

 

I deludenti Miami Heat

Non ci siamo dimenticati degli sconfitti, che sono stati lasciati volutamente per ultimi. Inutile girarci ulteriormente intorno: le Finals 2011 sono spesso ricordate come una bruciante sconfitta dei Miami Heat ed in primis di LeBron James.

Trovo doveroso però ricordare innanzitutto la grande serie disputata da Dwyane Wade: 26.5 punti, 7 rimbalzi, 5.2 assist, 1.5 rubate e 1.5 stoppate, il tutto condito da una True Shooting Percentage del 61%. Il nativo di Chicago è stato probabilmente, considerando tutte le 6 partite, il miglior giocatore in campo in quelle Finals, dimostrandosi un leader emotivo capace di dare la scossa alla sua squadra almeno fino a Gara 5, prima di essere anch’egli costretto a deporre le armi.

Per quanto riguarda Chris Bosh, le sue prestazioni non hanno certo fatto gridare al miracolo, ma a tratti ha dimostrato di saper stare in campo anche al livello più alto, ponendo le basi per un futuro purtroppo troppo breve di ottimo e funzionale terzo violino. Menzione d’onore anche per Mario Chalmers, unico componente del supporting cast degli Heat meritevole di prendersi tiri a causa della sua pericolosità costante da oltre l’arco anche quando il pallone scottava, nonostante l’assoluta inesperienza ad altissimi livelli.

Sarebbe troppo facile ed intellettualmente disonesto concludere l’articolo addossando a LeBron James tutte le colpe di questa sconfitta. Nella NBA si vince e si perde in dodici, e le ragioni di una sconfitta non sono mai limitabili al rendimento del singolo, neanche quando si parla di un giocatore così polarizzante. È però un dato di fatto che James, dopo dei playoff di alto livello, non sia mai riuscito ad entrare davvero nella serie contro i Mavericks.

Se si esclude Gara 1, giocata sostanzialmente sui livelli abituali, LeBron è sembrato limitato ad un ruolo di facilitatore per l’attacco, rinunciando ad un buon numero di tiri rispetto ai turni precedenti. I Mavericks hanno lavorato sodo per impedirgli l’entrata in penetrazione e mettere in mostra i suoi limiti al tiro da fuori: il già citato dato sui pochissimi liberi guadagnati ed il 5/23 da dietro l’arco collezionato tra Gara 2 e Gara 6 sono numeri emblematici.

Grafiche riguardanti dati di questo tipo erano proposte continuamente dalla ESPN durante le partite, a testimonianza dell’inaudita pressione che poggiava sulla schiena di James, già bersagliato di critiche dopo la Decision del 2010 e ulteriormente attaccato per la sua presunta mancanza di freddezza nei momenti decisivi al termine delle Finali. La serie infinita di giocate fondamentali nel clutch time del nativo di Akron prima e dopo il 2011 basta a smentire l’ultima osservazione, ma è normale che un crollo come quello di Gara 4 lasci più di qualche perplessità vista la caratura del giocatore in questione.

Se poi, nel prepartita di Gara 5, viene pescato dalle telecamere mentre prende in giro la tosse di Dirk Nowitzki insieme a Wade prima che il tedesco vinca la partita con 29 punti, non fa altro che gettare ulteriormente benzina sul fuoco…

Come sempre in questo sport la soluzione non è puntare il dito alla ricerca di un colpevole, ma cercare di analizzare il mix tra meriti dei vincitori e demeriti dei vinti. Vista a posteriori, l’estate 2011 si dimostrò un crocevia fondamentale nella carriera di James, che analizzò le ragioni della sconfitta e lavorò duramente per migliorare le falle nel suo gioco. Gli Heat allungarono la panchina e misero in campo quintetti più congeniali alle caratteristiche di LeBron, arrivando a vincere il titolo NBA già l’anno successivo contro i Thunder e ripetendosi poi nel 2013 contro gli Spurs.

Le NBA Finals del 2011 non avranno visto trionfare una delle dinastie più durature della storia del Gioco, ma la quantità di narrativa presente e la tensione emotiva che ha permeato tutta la serie sono motivi sufficienti per giustificare il grandissimo fascino esercitato ancora oggi su un numero così grande di appassionati.

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Enrico Bussetti

Enrico Bussetti

Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l’NBA, con i Mavericks come unica fede.

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