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La NBPA è più importante che mai

Francesco Barbaresi by Francesco Barbaresi
11 Giugno, 2020
Reading Time: 13 mins read
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L'importanza della NBPA

Copertina a cura di Sebastiano Barban

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La National Basket Player Association (NBPA) -la più “vecchia” associazione sindacale fra le quattro maggiori leghe sportive statunitensi- si appresta ad affrontare l’ennesimo evento cruciale della sua esistenza, a ben 66 anni dalla sua creazione.

Nata da un intuizione di Bob Cousy, leggendario  playmaker dei Boston Celtics dal 1950 al 1963 con cui conquistò ben sei titoli NBA, l’associazione si è sempre battuta per i diritti dei giocatori della Lega, dall’inserimento di un salario minimo per i giocatori fino all’introduzione di un piano pensionistico, passando per le varie clausole contrattuali che regolamentano la free agency e la vita sportiva degli atleti.

 

La storia della NBPA

Fin dall’inizio, le richieste dell’associazione si sono mosse verso l’obiettivo di migliorare le condizioni di tutti gli atleti della Lega: la prima lista di richieste prevedeva infatti l’abolizione della multa di 15$ per il “whispering foul”, infrazione che gli arbitri infliggevano a loro piacimento; un limite di 20 partite d’esibizione, da cui i giocatori inoltre potessero trarre profitto; un pagamento di 25$ per le apparizioni pubbliche che non fossero in radio, in tv o ad eventi di carità e raccolta fondi; la richiesta di pagamento degli stipendi arretrati per i giocatori che facevano parte dei Baltimore Bullets; l’istituzione di un collegio imparziale per la risoluzione delle dispute tra giocatori e proprietari.

Per tutta risposta, la NBA si rifiutò di riconoscere il sindacato e, di tutte le richieste fatte, accettò solo in parte la richiesta degli stipendi arretrati per i giocatori che avevano militato nei Baltimore Bullets. Solo nel 1957, grazie alla possibile minaccia di uno sciopero da parte dei giocatori e alla possibile fusione con il CIO e la AFL, la NBA si trovò quasi costretta a venire incontro alle richieste dei giocatori, riconoscendo di fatto la NBPA.

Tuttavia, le prime vittorie dell’associazione sindacale non spianarono del tutto la strada alle successive richieste dei giocatori. Nel 1961, il nuovo presidente dell’associazione Tom Heinsohn iniziò le trattative con la lega per un piano pensionistico con importo variabile in base agli anni di militanza all’interno della NBA; le trattative si bloccarono al momento della chiusura dell’accordo e Heinsohn, nel 1962, assunse l’avvocato Lawrence Fleisher per riuscire a finalizzare l’accordo; l’avvocato Fleisher rimarrà poi per 25 anni all’interno dell’associazione come consigliere generale.

Nel 1964, con l’avvicinarsi del primo All Star Game trasmesso in diretta nazionale, la NBPA colse l’occasione per mandare un forte messaggio, minacciando uno sciopero per far saltare proprio tale evento. Le richieste della NBPA erano principalmente tre: l’introduzione di un piano pensionistico, l’aumento del salario giornaliero fino a 8$ e il fatto che la NBPA fosse formalmente riconosciuta come l’agente di contrattazione esclusiva dei giocatori.

Messa con le spalle al muro, la lega accettò tutte le richieste dei giocatori e l’All Star Game iniziò con “soli” 10 minuti di ritardo.

L’anno successivo cambiò il presidente alla guida dell’associazione: a Heinsohn succedette Oscar Robertson (primo afroamericano presidente di qualsiasi sindacato nazionale, sportivo e non) e nel 1967, sempre a ridosso dell’All Star Game, l’associazione annunciò che intendeva avanzare ulteriori richieste alla lega, in particolare di migliorare le condizioni del piano pensionistico, di ridurre il numero dei match di esibizione ed, eventualmente, di ricevere una paga anche per tali partite.

Non solo le richieste vennero tutte accolte, ma si riuscì ad ottenere di più, tra cui la cancellazione delle partite in calendario a ridosso dell’All Star Game, un numero limite di partite durante la stagione regolare fissato ad 82 e nuove prestazioni mediche e assicurative.

Qualche anno più tardi si arriverà al primo evento di proporzioni mondiali: nel 1967 si era formata la ABA, rivale diretta della NBA, che portò le due leghe a rivaleggiare per ottenere i giocatori migliori, generando inevitabilmente un aumento dei salari dei giocatori; di conseguenza, per tentare di arginare questa impennata dei salari, le due leghe cominciarono a valutare una fusione che avrebbe eliminato questa sana concorrenza tra loro.

In tutta risposta, nel 1970, la NBPA presentò la “causa di Oscar Robertson” ai sensi della legge antitrust: attraverso questa causa i giocatori speravano di bloccare tale fusione e anche di cambiare alcuni vincoli che bloccavano pesantemente la libertà degli atleti, in particolare l’opzione che legava i giocatori a vita ad una sola squadra. La NBPA ottenne subito un ordine restrittivo che bloccò la fusione tra le due leghe, nonostante il tentativo invano della NBA di rivolgersi al Congresso per ottenere l’approvazione di tale fusione.

Fino al 1976 la fusione tra le due leghe fu bloccata e la NBPA sfruttò l’occasione per ottenere un nuovo accordo di classe con la NBA, guidati dal nuovo presidente Paul Silas: ottennero l’eliminazione della clausola che legava i giocatori a vita ad una sola squadra e questo fu il primo passo verso la free agency odierna che tutti conosciamo; inoltre, guadagnarono una modifica al vigente Draft dell ‘epoca, che permetteva ad un giocatore di restare libero un anno invece di entrare a far parte della squadra che lo aveva scelto e anche i giocatori delle high school potevano essere selezionati; oltre a tutto questo, i proprietari pagarono circa 500 giocatori attivi dal 1966/67 al 1975/76 per un totale di 4,3 milioni di dollari e 1 milione di dollari all’associazione per le spese legali.

Questo accordo fu epocale perché cambiò per sempre i rapporti di forza all’interno degli sport professionistici, tanto che qualche anno dopo sia nella NFL che nella MBL ci furono concessioni simili.

Nel 1983 nacque il primo CBA (Collective Bargaining Agreement, ovvero il famoso contratto collettivo) che darà vita al concetto del “salary cap”, in base al quale i proprietari garantiscono una percentuale ai giocatori su ogni dollaro guadagnato mentre i giocatori approvarono il fatto che le franchigie avessero un tetto per gli stipendi di tutti gli impiegati; inoltre, la lega si impegnò a garantire ai giocatori che, in caso di riduzione del numero delle squadre, il numero dei giocatori sotto contratto non sarebbe mutato; la NBPA ottenne anche un aumento del salario minimo per i tutti i giocatori.

Nel 1985 il presidente della NBPA divenne Junior Bridgeman, successore di Bob Lanier, che si trovò a dover portare nuovamente in tribunale la NBA. Con il CBA prossimo alla scadenza nel 1988, i giocatori intendevano ottenere nuovi miglioramenti contrattuali in vista del nuovo accordo, in particolare per la suddivisione del salary cap, variazioni per ciò che riguardava la restricted free agency e la modifica al sistema del draft.

Visto il blocco delle trattative, la NBPA presentò un’altra causa sempre ai sensi della legge antitrust; l’associazione ottenne subito un esito pregiudiziale favorevole e così i proprietari decisero di evitare nuovamente un processo rischioso e scelsero la via dell’accordo: il draft venne così ridotto prima a tre turni (nel 1988) e poi a due (nel 1989), fu certificata l’inclusione dei veterani nel piano pensionistico con almeno 5 anni di militanza nella lega e che hanno terminato la loro carriera prima del 1965 e venne abolita la clausola del “primo rifiuto” dopo che un giocatore completa il suo secondo contratto, con l’introduzione della unrestricted free agency per i veterani.

In 1988, unrestricted free agency began in the NBA.

Jerry Colangelo looked at the owner of the Seattle franchise and said to himself…

“You just lost Tom Chambers.”https://t.co/QCemuyiyhi

— Phoenix Suns (@Suns) July 4, 2019

 

Nuove problematiche arrivarono nel 1991 quando la NBPA dichiarò che i proprietari delle varie squadre NBA stavano sottostimando le loro entrate, deprimendo artificialmente il salary cap e diminuendo così la parte dovuta ai giocatori. Con l’evidente possibilità di finire nuovamente in tribunale, la NBA e la NBPA si accordarono per una cifra di 62 milioni di dollari da ridistribuire ai giocatori.

Nel 1995 furono invece i proprietari a bloccare la stagione, subito dopo le NBA Finals, dando il via al primo lockout della storia NBA. Per la prima volta, la NBPA si trovò a “lottare” su due fronti: alla consueta estenuante trattativa con la NBA, si aggiunse una diatriba interna all’associazione che si spaccò sulle modalità di trattazione e di risposta alla lega. I proprietari infatti volevano imporre alcune rigide restrizioni riguardo il salary cap, eliminando svariate clausole che permettevano una moltitudine di “salary cap exception”; gran parte dei giocatori si convinse che l’unico modo per trattare con la lega fosse tramite la decertificazione del sindacato e procedere per vie legali contro i proprietari, fiduciosi del fatto che il tribunale avrebbe abolito il lockout e permesso il regolare svolgimento della stagione mentre le trattazioni procedevano; tuttavia, tale strategia non era supportata da tutti i giocatori che volevano dunque proseguire le trattative tramite la NBPA.

Con l’ennesimo spauracchio di finire in tribunale e senza avere più la possibilità di trattare con la NBPA vista la seria possibilità della decertificazione, i proprietari ammorbidirono le loro richieste e le due parti in causa riuscirono a trovare un accordo soddisfacente: i proprietari ottennero l’eliminazione delle varie “exception”, oltre all’introduzione dell’ormai nota “rookie scale” che prevede dei range salariali ben definiti, l’introduzione del limite per gli anni di contratto e dell’abbassamento della percentuale prevista per i contratti pluriennali (dal 30% al 20%); i giocatori invece mantennero i famosi “Bird Rights”, inseriti nel CBA dal 1983, con i quali si permise ai Celtics di tenere sotto contratto Larry Bird sforando il salary cap, e divenuti uno dei motivi di “scontro” tra giocatori e proprietari proprio per le numerose “exception”; inoltre, eliminarono del tutto il concetto del “restricted free agent” per tutti i giocatori il cui contratto con una squadra fosse terminato, introducendo il principio del “unrestricted free agent”.

Nel 1998 però, si arrivò ad una nuova frattura, questa volta decisamente più profonda. Nel Marzo dello stesso anno, i proprietari annunciarono che avrebbero interrotto il CBA in essere, grazie alla clausola disponibile all’interno dello stesso contratto collettivo. Durante i primi mesi di trattative non si arrivò a nessun accordo e il 01/07/98 la NBA annunciò un nuovo lockout che portò prima alla cancellazione della preseason, poi all’annullamento dei primi due mesi della stagione e, infine, dell’All Star Game.

An interesting article recounting the NBA lockout from the 1998-99 season. https://t.co/fkytPbF0Vp

— Joel Corry (@corryjoel) February 15, 2019

 

Tutto questo perché i proprietari richiedevano una variazione al salary cap, portandolo verso il concetto del “hard cap”, con numerose restrizioni che avrebbero portato, in particolare, all’eliminazione dei contratti garantiti ai giocatori. Con lo spettro sempre più visibile di dover cancellare definitivamente la stagione, finalmente, nel Gennaio del ’99, le due parti raggiunsero il tanto sospirato accordo che permise, da Febbraio, la ripresa della stagione con sole 50 partite da giocare rispetto alle classiche 82.

L’accordo non prevedeva l’inserimento del “hard cap” ma tutta una serie di clausole con cui i proprietari pensavano, e speravano, avrebbero tenuto gli stipendi dei giocatori più bassi, cosa che non è palesemente avvenuta visto come sono andate poi le cose in futuro. Nella stagione 1997-98 i circa 400 giocatori NBA guadagnavano collettivamente un totale di 1 miliardo di dollari tra stipendi e benefits vari; dopo l’accordo del 1999, che scadrà al termine della stagione 2004/05, la cifra totale lieviterà del’80%.

Questo aumento, porterà inevitabilmente ad un altro momento di tensione che si verificherà nel 2011. Nel 2009, tramite il commissioner Stern, la NBPA fu informata del fatto che non c’era alcuna intenzione di rinnovare l’accordo stipulato negli anni precedenti. Nonostante due anni di trattative, il 01/07/2011 la NBA annunciò il terzo lockout, che portò, per la seconda volta nella storia, alla cancellazione della preseason e ad una parte della stagione.

Come nel ’99 infatti, i proprietari chiedevano un significativo e duro cambio riguardo i contratti dei giocatori, in particolare una riduzione del 40% sul valore di tutti i contratti esistenti e futuri. La NBA propose nuovamente l’introduzione del “hard cap” e alcuni limitazioni ai giocatori in sede di negoziazione dei contratti. Nel Novembre del 2011, la NBPA, in risposta alle dure richieste avanzate dalla lega, rinunciò al suo status di unico rappresentate dei giocatori, i quali presentarono numerose cause ai sensi della legge antitrust negli stati della California e del Minnesota. Di fronte all’ennesimo spauracchio di numerose cause legali e alla possibile cancellazione della stagione, i proprietari ammorbidirono nuovamente le loro pretese e i giocatori decisero di riformare nuovamente la NBPA; si arrivò dunque ad un accordo e l’8/12/11 fu firmato un nuovo CBA.

 

La situazione attuale

Dopo questa serie di dure battaglie legali, la NBPA sta vivendo un periodo di forte incertezza, così come tutto il resto del mondo, a causa dell’ormai nota pandemia; con la sospensione della stagione infatti, la NBA ha visto contrarsi inevitabilmente i suoi introiti (senza dimenticare il “Morey gate” di inizio stagione) e se per ora il problema principale ha riguardato le modalità di ripresa in sicurezza per terminare questa infausta stagione, nel futuro più prossimo il grande problema sarà la ridiscussione del CBA, valido, in teoria, fino al termine della stagione 2023 – 24, ma che potrebbe concludersi a Settembre grazie all’opzione di “causa forza maggiore” prevista nel contratto stesso.

Le parole di Adam Silver in tal senso sono chiare :” il contratto non era pensato per fronteggiare una lunga pandemia”, il rischio che anche la prossima stagione NBA sia condizionata dal Covid-19 è assai elevato, sia per ciò che riguarda il numero delle partite che verranno disputate sia per la probabile assenza dei tifosi nelle arene (il 40% dei ricavi della lega arrivano proprio da lì): la previsione del prossimo salary cap è inesorabilmente al ribasso rispetto alle cifre che circolavano ad inizio anno.

Nei primi giorni di Maggio, il commissioner Silver e Michele A. Roberts (direttrice esecutiva della NBPA, la prima donna a ricoprire tale incarico nonché la prima donna a capo di una importante associazione sindacale sportiva nel Nord America, in carica dal 2014 e rieletta nuovamente nel 2018 per altri 4 anni) hanno avuto un incontro in conference call con vari giocatori dove hanno illustrato i protocolli di sicurezza previsti dalla NBA, stilati con l’ufficio sanità e il CDC, visto che già dall’8 Maggio, in alcuni stati come Colorado, Oregon e Ohio, è stato possibile tornare in palestra ad allenarsi ma solo individualmente ed in maniera volontaria, senza gli “head coach” ma con allenatori ed assistenti per supervisionare i vari workout.

Sempre nella stessa occasione, Silver ha illustrato altri aspetti a cui la lega sta pensando, come ad esempio l’ingente numero di tamponi che serviranno per chiudere la stagione (almeno 15000) e la strategia che verrà attuata in caso ci fosse un giocatore positivo durante la ripresa della competizione (eventualità definita da Silver come “inevitabile”, nonostante l’isolamento e tutte le precauzioni possibili) e che non porterà, almeno nelle intenzioni, ad una nuova sospensione.

Nell’occasione, Chris Paul, presidente della NBPA, ha fatto presente al commissioner come alcune franchigie abbiano fatto pressione ad alcuni giocatori per farli tornare ad allenare il prima possibile, fatto che ha suscitato il disappunto dello stesso Silver, che si è detto profondamente dispiaciuto.

Nel corso del mese si sono svolte numerose conference call, più o meno ufficiali, tra tutte le varie parti in causa che prendono parte attiva nel mondo NBA; sicuramente, quella che ha avuto più risonanza a livello mediatico, è stata quella che ha visto protagonisti alcuni dei volti più noti tra le superstar della lega. In una chiamata tenuta dal presidente CP3, si sono riuniti in un unico schermo i vari Lebron, Curry, Leonard, Davis, Lillard, Giannis, KD e Westbrook: oltre al “rumore” generato dall’evidente assenza di una superstar del calibro di Harden, questo video raduno è servito a dare ulteriore spinta al processo di ripresa della stagione visto che tutti si sono detti disposti a tornare ad allenarsi e a giocare una volta ottenuta l’autorizzazione dalla lega, in primis, oltre che dalla possibilità di tornare in palestra concessa dai vari stati.

Una spinta importante quella del “gotha NBA”, soprattutto alla luce dei vari tagli allo stipendio a cui andranno incontro i giocatori proprio a partire da questo mese e in maniera non egualitaria: ogni giocatore infatti, in base al contratto stipulato (variabile sia nelle cifre che nel numero delle mensilità), subirà un taglio del 25% sulla mensilità da ricevere, altri invece subiranno suddetto taglio più avanti nel corso dell’anno.

Lapalissianamente, interessa anche alle franchigie far ripartire la competizione il più presto possibile; ma se per i giocatori la questione è relativamente semplice, per il “board of Governors” della NBA la situazione è risultata molto più complessa. Oltre alla questione “ripresa della stagione in corso”, dovendo decidere sia il format (poche partite di rodaggio per terminare la stagione tutti alla pari e poi playoff? Direttamente i playoff con magari qualche match di qualificazione per le squadre appaiate intorno ai seed 7-8-9-10? Playoff tra le migliori 16, senza la divisione relativa alle conference? Ripresa della stagione attuando il più classico dei “mondiali di calcio”?) che il luogo (Orlando – Florida – DisneyWorld o Texas – Las Vegas? O magari entrambi?), le discussioni tra il commissioner e i vari proprietari e dirigenti vertono pure sulla gestione della prossima stagione, cercando di attutire al massimo il probabile danno economico a cui andrà incontro la lega.

In un quadro così intricato diventa dunque ancor più fondamentale il ruolo della NBPA per cercare di mettere d’accordo tutti i giocatori, dai rookie alle superstar assolute passando per role player, journeyman e veterani, che vivono situazioni completamente differenti gli uni dagli altri, sia per ciò che concerne il salario e i relativi tagli, sia per le motivazioni e gli interessi sul piano strettamente sportivo: pensiamo, ad esempio, a come ha cambiato idea LBJ che, all’inizio della pandemia, si dichiarava completamente contrario al giocare senza tifosi e ora invece è uno dei principali fautori della ripresa seppur a “porte chiuse” oppure all’assurda situazione che vivrebbero franchigie come i Knicks, simbolo sportivo di New York, la città americana più colpita dal Covid-19, che si ritroverebbero magari a dover scendere nuovamente sul parquet per una manciata di partite, per terminare l’ennesima sciagurata stagione con il solo obbiettivo di puntare a perdere per avere una posizione migliore in vista della lotteria del Draft.

Come vi ho illustrato, in questo dedalo di interessi che si intrecciano, la NBPA è chiamata a svolgere un importante compito di mediazione a cui non si è mai sottratta, fin dalla sua nascita, e che getterà le basi del rapporto con la lega NBA in vista dell’importantissima ridiscussione del contratto collettivo, vero spartiacque per la gestione delle future stagioni, sperando che non si arrivi all’ennesimo lockout.


Tags: adam silverChris PaulMichele A. RobertsNBPA
Francesco Barbaresi

Francesco Barbaresi

Calciatore apprezzabile e pallavolista mediocre; cestista indecente e tennista sognatore. Qui scrive Francesco Barbaresi che in vita sua praticò tutti gli sport ma non eccelse in alcuno e finì per dedicarsi, con dubbi risultati, alla letteratura.

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