Questa è una storia che ha a che fare col talento sincero, col fuoco sacro, con l’incoscienza, con la predestinazione, con la spontaneità a tutti i costi. Una storia che ha come protagonista un ragazzino di 15 anni. Talento precoce, che farà strada nel basket. Molta strada. Magro come un chiodo, sguardo sveglio e scanzonato, con un’attitudine a fare “paniere” raramente vista sui campi da basket italiani.
Un nome il suo, Vincenzo Esposito, che lascia pochi dubbi sulla sua provenienza. La Campania, più precisamente Caserta, la cosiddetta Versailles d’Italia. Una storia sportiva, quella di “Vincenzino”, i cui inizi ricordano sinistramente quelli di un mostro sacro della pallacanestro NBA. Quel Tim Duncan che – grazie a fondamentali in post-basso scolpiti nella roccia come tavole della legge – ha portato i San Antonio Spurs a vette di eccellenza raramente imitabili. In entrambi i casi, si partì da una piscina.
“Il primo sport a cui mi sono approcciato è stato il nuoto. Ma ero fisicamente gracile, mi ammalavo spesso dentro l’acqua, soprattutto in inverno. Allora mio padre decise di portarmi verso sport più ‘asciutti’, provai con il basket e mi accorsi che era una disciplina molto adatta a me. Ero coordinato, atletico, veloce. A 10 anni, le cose che per i miei coetanei erano complicate, a me venivano facili, facevo tutto in modo naturale”, mi racconta al telefono proprio lo stesso Vincenzo Esposito, ora coach del Basket Brescia Leonessa.
Naturale, certo. Non può essere altrimenti, se già a 15 primavere fai la squadra in Serie A1, nella ruggente metà degli anni ’80. Un campionato che, ai tempi, era secondo probabilmente alla sola NBA in termini di livello di gioco. Un campionato in cui un ex MVP come Bob McAdoo decise di approdare, nonostante avesse ancora parecchie cartucce da sparare al piano di sopra.
Naturale, certo. Perché il talento, l’incoscienza, la predestinazione, ti permettono di fare cose fuori dal comune rispetto a un’età davvero troppo “verde” per certe pressioni, per certi palcoscenici. Ma il talento, come sempre, ha bisogno anche di un pizzico di fortuna. Quanti giovani di talento, in Italia come nel mondo, sono sfuggiti alle “maglie” non sempre strettissime degli osservatori? Se fosse nato un Toni Kukoc, che ne so, a Mazara del Vallo, siamo sicuri che il “sistema” lo avrebbe individuato?
“Io ho avuto anche la fortuna di poter esordire nella squadra della mia città, Caserta, che militava nella massima serie”, ammette Esposito. “Era una società che puntava molto sulle giovanili. Così ebbi modo di esordire a 15 anni addirittura durante una partita di playoff. Avevo giocato molto bene tra i cadetti e coach Bogdan Tanjevic, insieme a Franco Marcelletti, mi buttarono nella mischia. Capirono subito che ero in grado di cavarmela molto bene in mezzo al campo”.
Mai come allora, il genio visionario di Tanjevic emerse in tutto il suo splendore. A 22 anni, Vincenzino Esposito era già imprendibile, immarcabile, inarrestabile, a livello italiano. Con la maglia della sua Juventus Caserta sulle spalle e la voglia di spararti una tripla in faccia tutte le volte che il difensore accennava un’incertezza negli scivolamenti-laterali.
In campo, era un attaccante affamato, pronto a prendersi anche quello che la difesa non era disposta a concedergli. Un rilascio della sfera già a velocità NBA, con la capacità di tirare dal palleggio in una frazione di secondo, anche col difensore addosso. Realizzatore senza confini, con punti nelle mani sia on-the-ball, sia quando veniva servito sugli scarichi in posizione di ala. Realizzatore, badate bene, non tiratore. Fa tutta la differenza del mondo.
“Mi sono sempre considerato un realizzatore, non un tiratore puro. Palla in mano, ero capace di segnare in tanti modi. In entrata, con un arcobaleno, in uno-contro-uno”, ammette il coach del Basket Brescia Leonessa.
Nella stagione 1990-1991, arrivò il primo storico scudetto per la Juve Caserta. La squadra aveva un qualcosa di speciale, strizzava l’occhio alla modernità più spinta, con un backcourt composto sostanzialmente da due combo-guard come Esposito e Nando Gentile (padre di Alessandro) a scambiarsi i compiti di impostazione di gioco e di realizzazione. Un uno-due micidiale, per quei tempi, anche per una corazzata come l’Olimpia Milano, che si vide sconfitta in cinque partite nella finale scudetto.
Una partita che, tra l’altro, Vincenzo Esposito non giocò fino in fondo, perché si infortunò gravemente proprio durante quella Gara 5 che valeva la storia. Famose e iconiche sono le sue foto, dolorante prima, in lacrime dopo, a bordo campo a sostenere i compagni. Con tutto il suo agonismo, col fuoco sacro che ha sempre delineato il suo profilo come giocatore e come uomo.
Il fuoco sacro non lo puoi spegnere nemmeno con un’infortuno ai legamenti del ginocchio. Un mezzo disastro per ogni sportivo. Brucia dentro di te, il fuoco sacro, indipendentemente dalle tue condizioni fisiche. Esposito quel fuoco ha sempre cercato di farlo ardere a temperatura molto alta, ma costantemente controllata. Altrimenti diventa incendio. Altrimenti non è più un bene. Era un “Diablo”, Esposito, anzi “El Diablo”. Il fuoco lo sapeva usare, lo sapeva maneggiare, se ne alimentava.
E a incendiarsi, alla fine, erano sempre i canestri delle squadre avversarie. In ogni città, in ogni regione, in ogni palazzetto. Oltre i 20 punti di media nella stagione 1992-1993, la sua ultima a Caserta, quando si era capito chiaramente che alla voce “realizzatori italiani in grado di farti male nell’anima”, dovevi mettere senza dubbio il nome di “Vincenzino”, come amavano chiamarlo affettuosamente compagni e tifosi. Di certo, i canestri italiani erano davvero martoriati – in quell’epoca storica – per la contemporanea presenza di gente con particolare feeling per il paniere come Antonello Riva, Sasha Danilovic, Mario Boni e Oscar Schmidt, il “Larry Bird” brasiliano. La grandezza di Vincenzo come giocatore, si misura anche grazie a questi nomi.
L’anno successivo, complice la retrocessione di Caserta in A2, Esposito era pronto per recitare in contesti ancora più importanti. Avete mai sentito parlare di “Basket City”? Bologna, certo, il meglio del Paese. Che sta al basket italiano, come New York o Los Angeles stanno a quello NBA. El Diablo era pronto, non poteva non esserlo. E la Fortitudo Bologna lo accolse a braccia aperte. Ma anche a ugole spalancate, perché tutte le volte che Esposito piazzava una bomba, venivano giù le due torri, Piazza Maggiore e tutti i portici di via Zamboni.
Aveva solo 24 anni, alla sua prima stagione in maglia di una Fortitudo appena promossa in Serie A1. La squadra partì con 6 punti di penalizzazione, ma El Diablo con quasi 26 punti di media la portò addirittura ai playoff, con eliminazione ai quarti di finale. La sua sete di canestri rimase invariata anche l’anno dopo (24,2 di media), con il secondo posto in campionato e semifinali scudetto.
Era chiaro a tutti, ormai, che quel ragazzino di Caserta, dalla mano laser, era nell’élite dei migliori non solo in Italia, ma anche in Europa. Gli scout NBA erano incuriositi dalle sue prestazioni balistiche. Certo, parliamo di un’epoca in cui i sospetti verso i cestisti europei erano ancora a livelli di guardia altissimi. Solo così ti spieghi un Drazen Petrovic che, prima di recitare in endecasillabi con la maglia dei Nets, si trovò ad assaggiare l’amaro del pino tra le file dei Blazers. Solo così ti spieghi un Sasha Danilovic a cui Pat Riley preferì un semplice specialista del tiro da fuori come Voshon Leonard.
Ma Esposito nella NBA ci va, ci sta e mette pure un record. Era la stagione 1995-1996. No, non fu il primo italiano ad aver mai messo piede in campo nel massimo torneo mondiale. Quello si chiama Stefano Rusconi, lo “Shaq italiano”, che lo precedette di qualche partita. El Diablo fu, bensì, il primo del Belpaese a mettere punti a referto tra gli americani, con un leggendario tiro libero. Capitò a Houston, nella gara tra i suoi Toronto Raptors e i Rockets di Olajuwon e Drexler.
“Mi accorsi subito che era un altro mondo. Mi trovai a dover marcare Clyde Drexler, che giocava guardia-tiratrice. Alto oltre 2 metri, pesante quasi 100 Kg. Alla prima azione mi portò spalle a canestro e io ebbi la sensazione di dover scivolare lateralmente contro un trattore lanciato in discesa”, ricorda con un misto di nostalgia Esposito. “C’erano giocatori davvero fuori da ogni logica. Mi impressionò anche Gary Payton, soprannominato The Glove, uno che aveva sia i tempi in attacco, sia la capacità di silenziare chiunque in difesa”.
I Raptors erano una franchigia appena nata, costruita con il classico Expansion Draft, in cui tutte le altre squadre della NBA lasciano dei giocatori “non protetti” nel loro roster a beneficio delle neonate.
“Mi ritrovai in una squadra piena di giovani interessanti, come il rookie Damon Stoudamire, eccezionale con la palla in mano, Doug Christie, che poi giocò alla grande con i Kings di Chris Webber, e veterani di tante battaglie, come John Salley e Alvin Robertson”, ci racconta. “Ma in NBA mi vedevano come una combo-guard, né playmaker, né guardia”.
Forse il problema più grande di Esposito, a livello tecnico, nella NBA. Oggi, El Diablo con la sua rapidità di tiro, farebbe gola a molte squadre. Il gioco è cambiato, si è evoluto. Negli anni ’90, invece, le combo-guard non andavano molto di moda, per non dire che fossero proprio indigeste. Era un’epoca in cui per giocare da playmaker dovevi essere un gran ragionatore in termini di gestione di gioco, e per fare il “2” dovevi essere almeno 1.98, saltare un metro da terra, stare dietro ogni sera a gente come Mitch Richmond, Michael Jordan o Kendall Gill, delle belve che ti demolivano fisicamente a ogni penetrazione sulla riga di fondo.
Ma il talento sincero di Esposito, il suo fuoco sacro, il coraggio di un giocatore che in pochi anni aveva fatto un viaggio senza precedenti, dalla “provincia” direttamente sulla “Luna”, gli permise di rimanere con i marziani per una stagione intera – al contrario di Rusconi – con una media di 9.4 minuti e 3.9 punti per gara. E la notte di New York, che Vincenzino non scorderà mai. Furono 18 i punti messi a segno al Garden, tra la gente che si dava di gomito e si chiedeva chi fosse quel giocatore magro dal nome così esotico, ma tanto comune tra i paisà di Little Italy.
Un anno passato tra i migliori del mondo, per poi tornare in Italia, dove il suo talento sincero sarebbe stato davvero compreso, apprezzato, coccolato, accudito. Perché non ne nascono tanti di Vincenzino Esposito, sia dal punto di vista tecnico che caratteriale.
E allora via ad altre stagioni italiane di altissimo livello, partendo dalla problematica esperienza con la Scavolini Pesaro, per passare – tra le altre squadre – a Pistoia, Roma, Udine e concludere a Imola nel 2014. Una traversata da epopea cinematografica, a suon di canestri, a suon di gente in piedi sulle sedie dei palazzetti, a suon di azioni che risaltano come vere e proprie dichiarazioni d’amore alla pallacanestro.
Perché Esposito il basket lo ama davvero, nel profondo del suo cuore. E l’approdo alla carriera di allenatore è un qualcosa di così naturale, da sembrare un normale fiume di montagna, che scende dolcemente verso la foce, fino a raggiungere il mare.
Oggi, lo chiamano tutti coach. Il Basket Brescia Leonessa sta puntando molto su di lui, sul suo approccio, sulla sua preparazione e determinazione, per traguardare risultati impensabili per la città di Brescia fino a qualche anno fa.
“Una bellissima piazza, una città magnifica, una società ben organizzata che – in questi cinque anni – ha fatto passi da gigante. Del mio primo anno a Brescia sono molto soddisfatto, la stagione fino a marzo è stata stupenda, al di là di ogni aspettativa. Dobbiamo continuare a crescere gradualmente, con i piedi per terrà, fare un passo alla volta”, conclude Esposito.
Sono sicuro che ce la farà, perché è riuscito a trasferire le capacità che aveva sul campo come giocatore nel suo “nuovo” ruolo di allenatore, di guida, di generale che passeggia attento sulla linea laterale. Perché questa, ve lo ricordo nuovamente, è una storia che ha a che fare col talento sincero, col fuoco sacro, con l’incoscienza, con la predestinazione, con la spontaneità a tutti i costi. E il talento sincero, quello vero, non si crea e non si distrugge, esattamente come l’energia. Si trasforma, ma è sempre lì. Rimane sempre lì.