Quando pensiamo ai tedeschi in NBA, il primo nome che viene in mente è inevitabilmente quello di Dirk Nowitzki. La storia la conosciamo perfettamente: nessuno avrebbe scommesso una lira sul lungo di Wurzburg, approdato nella lega con la scelta numero 9 dei Milwaukee Bucks, durante il Draft del 1998 (immediatamente ceduto a Dallas).
Ed invece una crescita tecnica progressiva – esemplificata da una pulizia di tiro difficile da incontrare – lo ha reso il più forte giocatore europeo di sempre ad aver calcato i palcoscenici della National Basketball Association, almeno fino ad oggi. Un titolo NBA nel 2011, un MVP nel 2007 e l’attuale sesto posto nella classifica dei realizzatori ogni epoca (con 31.560 punti totali), sono lì a dimostrarlo.
Prima di lui, il pioniere assoluto era stato Detlef Schrempf da Leverkusen – concretissima ala piccola passata da Indiana, Seattle e Portland, – anche se a voler guardare più indietro, in pochi ricorderanno il nome di Frido Frey. Nato nel 1921 a Utrecht (quando ancora la città si trovava annessa alla Germania), Frey era un brillante studente finito dal Vecchio Continente alla Long Island University, prima di arruolarsi con la Guardia Costiera statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale. Terminato il conflitto, quel talento cestistico sviluppato in terra natia gli tornò utile per disputare una stagione nei New York Knicks. La sua unica, per il campionato 1946/47.
A voler osservare ancora più attentamente, da non dimenticare anche Shawn Bradley: lunghissima speranza bianca selezionata dai Sixers nel 1993 (229 centimetri di altezza). Originario di Landsthul, ma cresciuto a Castel Dale nello Utah.
Non per nulla – a parte i numerosi posters collezionati nei pro ed una media stoppate tra le migliori di sempre, spesso dimenticata – Bradley è ricordato come un fervente mormone, tanto da aver passato due anni come missionario prima di essere chiamato nel draft, dopo aver giocato un anno alla Brigham Young University. Sfruttando la doppia cittadinanza nel 2001, riuscì addirittura a disputare un campionato europeo con la Germania, regalandoci così l’unico motivo per cui rammentare le sue origini europee.
Una storia simile a quella di Kiki Vandeweghe, incredibile realizzatore finito rapidamente nel dimenticatoio, anche lui nato in Germania (ma non per questo tedesco).
Ora, ammettiamo per un attimo che Dirk non sia mai esistito: se dovessimo stilare una classifica sul miglior tedesco di sempre, guardando solo al luogo di nascita, Kiki non potrebbe trovarsi in una posizione diversa rispetto alla prima. Non fosse altro che per le sue medie realizzative, partendo dalle sue caratteristiche offensive per giungere alla “creazione” di quello che oggi chiamiamo “step back”, divenuto con lui arma letale conclamata.
Tuttavia, il buon Ernest Maurice Vandeweghe III (il suo nome alle anagrafe) in Germania c’è nato per caso, ereditando dal padre Ernie e dalla madre Collenn un imprinting piuttosto deciso, rispetto alle sue eventuali capacità cestistiche. Eppure, fosse stato tedesco al 100%, non sarebbe stato difficile definirlo il modello perfetto per il Nowitzki che è stato, oltre a “padre dello step back”.
Una storia che vale la pena raccontare , per far riemergere uno dei migliori realizzatori Nba degli anni 80.
Le origini
Ernie Vandeweghe nasce a Montreal nel 1928, ed esordisce in NBA con la maglia dei New York Knicks nella stagione 1949/50. Come possiamo facilmente immaginare, si trattava di un altro tipo di pallacanestro, ma la carriera del buon Ernie si conclude dopo 6 stagioni con cifre dignitosissime: 9.5 punti, 4.5 rimbalzi e 2,4 assist.
Non malissimo, considerando che il suo ruolo era quello dell’ala piccola (191 centimetri di altezza per poco meno di 90 chili).I Knickerbockers raggiungeranno le Finals tre volte, per essere sconfitti dapprima contro i Rochester Royals e poi dai Minneapolis Lakers, per due anni consecutivi.
Nel 1952 sposa Colleen Klay Hutchins – appena eletta Miss America – per ritirarsi dal gioco quattro anni dopo. Diviene medico al servizio dell’aeronautica statunitense in Germania, trasferendosi così nel Vecchio Continente, dove nasce il suo erede di nome e di fatto.
Kiki Vandeweghe vede la luce il primo di agosto del 1958 a Wiesbaden, nella porzione Ovest del paese.
Che sia destinato ad un futuro radioso sui parquet, lo dice la genetica, e non solo per dirette responsabilità del padre. Infatti la madre Colleen è anche sorella di Mel Hutchins, quattro volte All Stars ed una volta miglior rimbalzista stagionale, chiudendo 7 stagioni da professionista con una quasi doppia doppia di media (11 punti e 9.6 rimbalzi).
Come il padre Ernie, anche lo zio Mel giocherà con la casacca dei Knicks, seppur in conclusione dei suoi giorni da cestista: per Kiki la Grande Mela appare così un destino, anche se prima di arrivarci, la strada è lunga.
Intanto si trasferisce in America per frequentare le scuole superiori, passando dalla Pacific Palisades High School al college della University of California Los Angeles. A UCLA ottiene diversi riconoscimenti, guidando i Bruins alle Final Four del 1980, perdendo in finale contro Louisville (in panchina a condurlo, un certo Larry Brown).
Viene selezionato con la undicesima pick assoluta dai Dallas Mavericks nel draft a seguire, ma non appare esattamente felice della destinazione. Per i Mavs non vuole proprio giocarci, e per questo finisce immediatamente in Colorado, a Denver, dove incontra giocatori del talento di Alex English, David Thomspon e Dan Issell.
Il potenziale offensivo di squadra è decisamente illimitato, e dopo un primo anno dignitosissimo da 11 punti per sfida, il talento di Kiki esplode nel campionato 1981/82, chiuso con 21 punti di media. Con l’approdo di Thompson a Seattle, Vandeweghe sboccia definitivamente, formando con English una delle coppie più devastanti della lega in materia di realizzazioni.
Le due gare dei record
Nel suo quarto anno da professionista, Kiki mette insieme 29.4 punti di media con il 55% dal campo, confezionando una delle partite più incredibili rimaste impresse nella storia della NBA: quella dei 370 punti totali da dividersi tra Nuggets e Pistons.
È il 13 Dicembre del 1983, e Denver ospita la sfida reduce da 4 sconfitte consecutive, ben determinata ad invertire il trend. Dall’altra parte però, c’è Kelly Tripucka: una guardia di origini polacche con un sacco di punti nelle mani, all’interno di un gruppo ancora lontano dal divenire “Bad Boys”, ma già con qualche indizio a riguardo. In panchina siede Chuck Daly, ed a fianco di Kelly ci sono Vinnie Johnson, Isiah Thomas ed un Bill Laimbeer nel fiore degli anni (in stagioni in cui viaggiava agilmente attorno ai 17 punti e 12 rimbalzi per gara).
All’halftime siamo sul 74 pari, mentre al termine dei regolamentari il tabellone della McNichols Arena recita 145 a 145. Kiki è inarrestabile, perfettamente coadiuvato dal collega Alex English, mentre dall’altra parte Tripucka è perfettamente sostenuto da un Isiah indemoniato e da un ispiratissimo John Long.
L’equilibrio regna sovrano e di overtime ne saranno necessari tre: una inutile tripla allo scadere di Richard Anderson fissa il punteggio finale sul 186 a 184 per i Pistons, e si tratta ovviamente della gara con il maggior numero di punti mai realizzati nella storia.
Vandeweghe chiude con 21 su 29 dal campo – praticamente non sbaglia mai – e 51 punti totali. Per gli annali: Alex English ne mette 45, Tripucka 35, Tomas 47 e Long 41.
Non passa molto tempo che Kiki ed i Nuggets si ripetono. 11 Gennaio del 1984, stavolta contro San Antonio: la partita finisce 163 a 155 per le pepite del Colorado, ed è un’altra sfida da record di punteggio, considerando che si conclude dopo i 4 quarti canonici.
Addirittura, nel cercare di recuperare, gli Spurs di Gervin proveranno a rimontare segnando 53 punti nella sola ultima frazione, ma sarà sostanzialmente inutile. Per il figlio di Ernie ci sono ancora 50 punti (stavolta in appena 34 minuti di impiego) con 21 su 30 dal campo.
Il Kiki move
Le ragioni di tutta questa opulenza in attacco, non sono certo da ricercarsi nel presunto atletismo del nativo di Wiesbaden, che sinceramente a fatica riusciva a staccare da terra, pur sapendo muoversi bene in post e sotto canestro. Evidente dimostrazione del proverbiale “white man can’t jump” che ha ispirato una delle pellicole più amate, riguardanti il mondo cestistico.
In realtà l’efficacia di un jump shot piuttosto pulito, è sempre stata il segreto principale del buon Vanderweghe, fin dagli anni di UCLA, quando la squadra venne rinominata “Kiki and the kids” (anche per la sua età anagrafica in quel tempo). Tuttavia, partendo da una notevole capacità balistica, Kiki perfeziona negli anni un movimento considerato allora “pionieristico”, destinato a renderlo immarcabile tanto da entrare nella storia come il “Kiki move”.
Che, considerandone con attenzione la dinamica, nient’altro sarebbe che il famigerato step back tanto in uso nella NBA odierna.
Quindi, se oggi possiamo osservare le evoluzioni di questo metodo per crear distanza tra attaccante e difensore prima del tiro, dobbiamo cercarne l’origine nei primi decenni degli anni 80, grazie a quel ragazzone bianco con la canotta numero 55 di Denver.
Anche se, in realtà, lo step back nudo e crudo era solo la parte conclusiva del famigerato “Kiki move”, reso più efficace da una routine difficile da limitare durante l’azione di gioco. In soldoni, niente di inusuale rispetto al basket che conosciamo: a seguito di una ricezione in due tempi, Vandeweghe effettuava una finta fissando il piede perno, incrociando la partenza per un paio di palleggi, prima di allontanarsi in step back effettuando il tiro, sbilanciando completamente il difensore.
Probabilmente il “Kiki move” non inventa niente di nuovo, con tre tipi di finte che convivono in modo continuativo, ma applicandolo con efficacia trasforma lo step back in un fondamentale.
Anche perché, una volta resosi temibile per il difensore opposto, simularlo per sfruttare lo sbilanciamento dell’avversario battendolo in penetrazione, viene quasi di conseguenza.
Un qualcosa destinato a passare di mano negli anni, attraverso evoluzioni di giocatori come Reggie Miller, Steph Curry e James Harden, e divenendo arma indispensabile per ogni tiratore che si rispetti.
Chiaramente la velocità di esecuzione – e l’applicazione direttamente dal palleggio divenuta marchio di fabbrica proprio del giocatore di Houston – hanno poco di simile con il “Kiki move” di cui sopra. Tuttavia, se il buon Vandeweghe non avesse reso imitabile questo movimento, difficilmente oggi Harden avrebbe potuto testarne variabili che si posizionano ai limiti del regolamento, come il famigerato “double step back”.
Chiaramente, lo stesso Kiki ed il resto degli attaccanti dotati di percentuali efficaci anche nella decade dei nineties, utilizzavano lo step back in un quantitativo ridotto rispetto ad oggi, dove è divenuto decisivo per ogni isolamento che si rispetti.
E questo non è da ricercare nel fatto che, nella lega che fu, gli isolamenti tendevano sempre a concludersi con tiri ad alta percentuale, generalmente al ferro o comunque in avvicinamento.
Da considerarsi semmai i comportamenti delle difese, oggi più inclini a cambiare uomo sui pick and roll, neutralizzandolo e costringendo l’attaccante a giocarsi l’uno contro uno.
Generare un vantaggio sfruttando capacità balistiche superiori rispetto al passato, diviene così fondamentale, soprattutto quando il mismatch che si presenta preclude i tentativi di incursione in area.
Seguendo le orme di Ernie e zio Mel
Come anticipato precedentemente, l’approdo nella grande mela di Kiki Vandeweghe era già scritto nel libro del destino, per semplice eredità familiare. Tuttavia, prima di vestire la casacca dei Knicks, la sua carriera doveva passare ancora una fase, teoricamente quella della conferma nel club dei migliori scorer della lega.
Durante l’estate del 1984 i Nuggets decidono di sacrificarlo, scambiandolo con Portland per ottenere il promettente Lafayette “Fat” Lever, il centro Wayne Cooper e l’ala Calvin Natt, messosi in luce per buone doti offensivi e per essere un discreto rimbalzista (il suo soprannome era Pitt Bull).
Oltre a questi tre, Portland mette sul piatto anche due scelte, ed il nostro Kiki si inserisce in una squadra dalle discrete ambizioni – Clyde Drexler è al secondo anno – che guida con 22 punti di media.
Con la crescita di The Glyde e l’arrivo di Terry Porter, i Blazers si rivelano squadra sempre più interessante, ma nonostante il potenziale offensivo impreziosito dalle medie del nostro (27 punti per gara nella stagione 1986/87) si scontra contro muro del primo turno dei playoff per tre anni consecutivi.
È proprio durante l’ultimo di questi, che Vandeweghe soffre un noioso infortunio alla schiena che lo tiene a lungo fuori dai giochi, favorendo indirettamente la crescita di Jerome Kersey nello scacchiere di squadra.
Proprio nella stagione 1988/89 viene ceduto ai New York Knicks, che lo accolgono a braccia aperte pur consapevoli di un presumibile periodo di rodaggio prima del ritorno in campo, a pieno del proprio potenziale.
Oltretutto il figlio di Ernie ha appena superato la trentina, e riuscirà a mostrare sprazzi del suo talento soltanto nel campionato 1990/91 – l’ultimo giocato quasi nella sua totalità, con 75 incontri disputati – mantenendosi sui 16 punti di media a partita, secondo di squadra solo a Patrick Ewing.
Manco a dirlo, i suoi usciranno a seguito di un secco sweep per mano dei futuri campioni dei Chicago Bulls, ovviamente al primo turno.
La carriera di Kiki appare così al capolinea, declinando in modo irreversibile e finendo velocemente nel dimenticatoio: un’altra stagione a New York, una ultima passerella a Los Angeles sponda Clippers, e scarpette appese al chiodo.
Ma un uomo come lui – dotato di una discreta capacità di risoluzione problemi e comprensione dei sistemi di gioco – non poteva restare a lungo distante dal mondo del basket.
Inizialmente ricopre un ruolo di assistente allenatore dei Dallas Mavericks, e magicamente si trova tra le mani proprio quel Dirk Nowitzki di cui parlavamo all’inizio. Forse per comunanza nel paese di nascita, o per le similitudini nell’attitudine in campo, Vandeweghe diviene fondamentale per la crescita del giocatore, accompagnandolo per un paio di stagioni prima di ricoprire ruoli dirigenziali.
Avrà modo di lavorare in seguito come analista per ESPN, e tornare come vice in panchina in quel di New Jersey, promosso anche come coach ad interim.
Oggi ricopre in seguito il ruolo di Executive Vice President of Basketball Operations della NBA, finendo per lo più dimenticato nonostante il talento purissimo messo in evidenzia sul campo.
Ancor meno ricordato come colui che ha “inventato” lo step back, perfezionatosi con il tempo, partendo dall’efficacia del suo “Kiki move”, ancora insegnato dai coach del mondo nei campi di allenamento.