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Phil Handy su The ANDone Podcast – Traduzione

Daniele Sorato by Daniele Sorato
7 Maggio, 2020
Reading Time: 17 mins read
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Phil Handy ANDone

Copertina a cura di Sebastiano Barban

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Durante l’ultima puntata di The ANDone Podcast i nostri Andrea&Andrea – coadiuvati per l’occasione da Luigi Marincola Cattaneo – hanno avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con Phil Handy, una vera e propria istituzione nell’ambito del player development, attualmente nello staff di Frank Vogel ai Lakers e già due volte campione NBA. L’ospite ha raccontato varie fasi della sua carriera: dagli inizi in CBA fino all’arrivo in NBA, passando per la sua esperienza assieme a grandi campioni come LeBron James e Kobe Bryant e la creazione della sua app, 94FEETOFGAME. Il podcast ovviamente è stato registrato in lingua inglese, perciò abbiamo deciso di fornirvi una traduzione in italiano.

[Introduzione e presentazioni in lingua italiana seguite dalla sigla]

Andrea Bandiziol: Ciao Phil, grazie di essere venuto a trovarci nel nostro podcast, comincio subito con la prima domanda. Hai avuto la fortuna di essere allenato da coach Nick Nurse nel 2000, e insieme avete vinto la British Basketball League [il campionato professionistico britannico] con i Manchester Giants: puoi raccontarci qualcosa sulle differenze tra il coach Nurse del 2000 e quello del 2020? Già al tempo vedevi che fosse su un altro livello, e pensi che possa continuare a evolversi e rimanere uno tra i tre migliori allenatori della lega anche nei prossimi anni? Poi, ultima parte della domanda: potresti dirci qualcosa sul primo giorno dopo che sei stato assunto dai Raptors? Il roster inizialmente non era lo stesso che poi avete effettivamente allenato, giusto?

 

Phil Handy: [La risposta alla prima parte della domanda purtroppo si è persa nella registrazione, ma è stata riassunta in italiano all’inizio della puntata]. Toronto era una squadra molto talentuosa, vedendoli giocare e giocandoci contro ho sempre pensato che DeMar [DeRozan] fosse un giocatore molto talentuoso, costantemente All-Star, uno dei giocatori migliori della NBA. Toronto aveva tantissimo talento, ed ero convinto che potessimo coltivarlo e aiutarli a crescere; la mia decisione di andare lì era precedente all’arrivo di Kawhi. Ero fermamente convinto che quel gruppo potesse fare il passo successivo e competere per il titolo anche prima che arrivasse Kawhi.

 

Andrea Snaidero: Parliamo un po’ dell’allenare, noi siamo appassionati ma ovviamente non sappiamo tante cose quante ne sai tu. L’impressione che abbiamo avuto del tuo modo di allenare è che tu lavori a 360°, ma ti concentri soprattutto sul footwork, sull’equilibrio e sul ball-handling. Ciò che mi impressiona di più è che l’evoluzione della pallacanestro sta portando sempre più giocatori a lavorare su questi aspetti, vediamo giocatori di 2.10 capaci di trattare il pallone e guidare il contropiede. Quanta importanza avranno nel futuro questi fondamentali? Ti influenza in qualche modo il nuovo approccio basato sulle analytics?

 

PH: Questa è un’ottima domanda. Il gioco del basket è cambiato enormemente negli ultimi dieci anni: se pensi sia alla NBA sia al basket europeo, lo stile di gioco è molto diverso rispetto a prima; la posizione di centro nel basket è quasi obsoleta, è come se non fosse quasi più parte del gioco. La mia filosofia è sempre stata quella di allenare i giocatori affinché diventino giocatori completi, non giocatori capaci di giocare in una sola posizione. Ho sempre pensato che se vuoi giocare a pallacanestro, perché non sviluppare tutte le tue abilità? Ovviamente tutti i giocatori hanno un proprio skill set, ma ho sempre pensato che i lunghi dovrebbero essere capaci di trattare il pallone e di saper giocare palla in mano, e che le guardie dovrebbero capire come funziona il gioco in post: prendi questi due aspetti diversi e cerchi di far migliorare un giocatore in modo che sia il più completo possibile. Hai detto bene, alla base ho sempre avuto footwork ed equilibrio, e non importa su che aspetto del gioco stiamo lavorando, – che sia ball-handling, tiro, pick and roll, gioco in post, conclusioni al ferro – quei due elementi sono molto importanti, indipendentemente dalla posizione che si ricopra in campo. Il gioco effettivamente cambia: hai giocatori come Durant, un 2.11, che palleggia molto bene, tira dal perimetro come una point guard, e così via; hai giocatori come Giannis, anche lui molto vicino ai 2.11 di altezza, che ha la palla in mano per la maggior parte del tempo; hai giocatori come Porziņģis, che nonostante sia molto alto gioca molto sul perimetro. La denominazione tradizionale dei ruoli dall’1 al 5 ormai non esiste più, il gioco ormai è sempre più positionless, tutti i cinque giocatori in campo dovrebbero essere in grado di palleggiare, tirare e passare il pallone: queste sono le tipologie di giocatori verso cui si sta muovendo la NBA.
Per me le analytics sono un mezzo necessario che utilizziamo, ma non guidano il modo in cui alleno. Credo nell’allenare in base al talento e nell’allenare a livello “totale”; ho discusso spesso con persone che dicono che si dovrebbero prendere solamente tiri da tre o al ferro, e la trovo una cosa veramente falsa. Nel basket non si vince tirando solo e solamente da tre e al ferro, se pensi alla storia della NBA non riuscirai a trovare una singola squadra che abbia vinto tirando solo da tre e al ferro.

 

AB: Non potrei essere più d’accordo.

Luigi Marincola Cattaneo: I tiri dalla media possono avere un ruolo fondamentale durante i playoff, se gli avversari difendono molto bene sul perimetro devi prenderti per forza qualche tiro che non sia da tre o al ferro.

 

PH: Il campo da basket è molto grande, non è fatto per prendersi solo quei tiri. Pensa a Golden State: hanno rivoluzionato il gioco nell’era moderna ed è vero che tiravano molto da tre, però devi pensare che tiravano parecchio anche dal mid-range. Quando si pensa ai game-winner e pensi ad alcuni tra i più grandi giocatori come Larry Bird, Michael Jordan, perfino Kobe, LeBron e KD, si nota che questi tiri arrivano principalmente dalla media; è vero, ogni tanto quale game-winner potrebbe essere arrivato da una tripla o al ferro, ma la maggior parte del gioco si è sviluppato in quella zona del campo. Credo nell’allenare nel modo giusto: non mi interessa dove ti trovi in campo, possono esserci brutti tiri da qualsiasi zona; l’obiettivo di noi allenatori è quello di far capire ai nostri giocatori come prendersi il miglior tiro possibile da qualsiasi zona del campo, anziché prendersi brutti tiri.

 

LMC: A volte può capitare che un giocatore impari una determinata skill, ma venendo da un’altra squadra – e quindi un altro staff di allenatori e un altro sistema – la impari in modo sbagliato rispetto a come la insegneresti tu. Come agisci in questi casi? Cerchi di cambiarla totalmente, se credi che il giocatore potrebbe giovarne? E quant’è difficile per un giocatore cambiare o reimparare una skill che aveva già automatizzato?

 

PH: In qualsiasi ambiente – NBA, college, Europa – avrai l’opportunità di giocare per allenatori diversi, e ognuno di questi ha un proprio stile, e nessuno di questi è uno stile propriamente sbagliato. Hai sempre giocatori diversi che vengono da un sistema diverso, e devono imparare a giocare seguendo il sistema in cui si trovano in quel momento; gli atleti professionisti riescono a passare da un sistema all’altro e adattarsi, facendo le cose come richiede l’allenatore. Non devi cercare di cancellare ciò che già sanno, devi cercare di aggiungere altre cose al loro bagaglio per metterli più a proprio agio nel tuo sistema attuale. Lo dico da coach: credo che anche l’allenatore si debba adattare e capire la curva d’apprendimento dei giocatori quando arrivano nella propria squadra, e cercare di trovare un modo per aiutarli a trovarsi meglio nel sistema della squadra. Credo che sia uno sforzo che si debba fare insieme, giocatori e allenatori devono collaborare per ottenere i migliori risultati possibili. La mia filosofia è sempre stata quella di creare la miglior relazione possibile con il giocatore lavorando insieme; non sono mai stato un tipo che dice “si fa per forza come dico io”, ho sempre preferito dire “cercherò di aiutarti a capire il sistema e come abbiamo intenzione di giocare in attacco, poi guardiamo il tuo skill set e individuiamo da cosa possiamo cominciare per farti sentire più a tuo agio a giocare in questo sistema”. Giocatori e allenatori sono simili, devono essere disposti a cambiare e ad adattarsi ogni anno perché nella NBA le cose cambiano costantemente. Per fare sì che sia l’allenatore sia il giocatore abbiano successo, queste cose devono accadere in entrambi i sensi.

 

AB: Abbiamo già parlato delle skill su cui ti concentri, che sono più riguardati il gioco con la palla in mano che senza. Tu sei nel Monte Rushmore del player development, e queste abilità con la palla in mano sono le più importanti per un giocatore; la NBA è una lega make or miss, ciò che fai con la palla in mano definisce che tipo giocatore sei. L’attenzione per i movimenti lontano dalla palla e per le X&O’s però è salita alle stelle negli ultimi anni: come si allenano questi aspetti a livello NBA, ed esiste un Phil Handy dei movimenti lontano dalla palla? Tu hai lavorato con Danny Green a Toronto, a Los Angeles e anche a Reno [sede dei Reno Bighorns, ex squadra della lega di sviluppo diventata Stockton Kings], e secondo me i suoi movimenti lontano dalla palla sono tra i migliori della storia. Come ci si allena per diventare Danny Green, e soprattutto ci si può effettivamente allenare per diventare Danny Green?

 

PH: Assolutamente sì. Ciò che tanta gente non capisce riguardo a me è che non mi concentro solo sul gioco palla in mano, sono un allenatore completo e lavoro su tutti gli aspetti del gioco. Se vuoi essere un development coach a livello NBA devi essere in grado di insegnare qualsiasi sfaccettatura del basket – gioco palla in mano, lontano dalla palla, in post, ecc. – perciò per me non è un problema lavorare con Kyrie Irving, LeBron James o Danny Green. Ogni giocatore è diverso e penso di dover essere in grado di allenare qualsiasi aspetto. Giocatori come Danny Green, Kyle Korver e Joe Harris sono speciali, sono molto bravi a muoversi senza palla, anche perché durante la loro carriera non si sono focalizzati particolarmente sulle loro abilità palla in mano: il loro allenamento si basa sull’essere in grado di mettere a segno i tiri che si prendono, di essere in buone condizioni fisiche, di passare correttamente tra i blocchi, di farsi trovare sempre pronti sugli scarichi quando arriva la palla. Da allenatore devo essere in grado di adattarmi anche a questi giocatori e capire come posso aiutarli in base al loro skill set. Perciò credo che Danny Green dovrebbe essere meglio disposto a giocare con la palla in mano, esattamente come Kyrie dovrebbe al contrario essere in grado di giocare senza palla. Cerchiamo di incorporare diversi regimi di allenamento per i giocatori, di fare un po’ di tutto; durante la regular season ciascun giocatore ha circa 20/25 minuti di allenamento individuale, e per esempio Danny Green fa cinque minuti di ball­-handling, cinque minuti di conclusioni al ferro e dieci minuti di movimenti lontano dalla palla per mantenere allenati la sua routine e il suo footwork. Lui riesce a concentrarsi non solo sul tiro, ma anche a migliorarsi con la palla in mano; più lavoriamo con i ragazzi e più gli insegniamo a essere più completi possibile, pur senza snaturare le loro caratteristiche, più riusciamo a insegnargli a migliorarsi in aree del gioco su cui solitamente si concentrano di meno. Mi ricollego ancora al discorso di prima sul rapporto allenatori-giocatori: bisogna lavorare insieme, nessuno dei due deve dire all’altro cosa fare; tante persone sbagliano quando credono che i giocatori NBA dicano agli allenatori cosa fare, è un qualcosa che va a braccetto. L’allenatore può dire “Danny, ho bisogno che migliori al ferro. Tu su cosa vorresti lavorare?” e lui può rispondere “Guarda, io vorrei lavorare su questo e questo aspetto”. Questi scambi di opinioni sono molto importanti per permettere ai giocatori di continuare a svilupparsi.

 

AS: Hai dato due risposte in una sola domanda, perfetto! Hai appena nominato alcuni giocatori come Danny Green, LeBron e Kyrie con cui hai avuto l’onore e il privilegio di lavorare, però quando pensiamo alla tua prima esperienza nella NBA, pensiamo che hai avuto l’opportunità di allenare alcuni tra i giocatori più intelligenti degli ultimi decenni: Kobe Bryant, Pau Gasol, Derek Fisher… Siccome ci hai appena detto che è necessario che allenatori e giocatori lavorino insieme, quanto può imparare un allenatore abbastanza inesperto dai propri giocatori?

 

PH: Questo tipo di giocatori spingono noi allenatori a migliorarci. C’è moltissimo da imparare dai giocatori; se un allenatore ti dice che non impara nulla dai giocatori, sta mentendo e non va bene. Nel mondo della pallacanestro bisogna sempre crescere e imparare, non potrai mai sapere tutto, perciò se hai l’opportunità di allenare ragazzi come Kobe, Pau, Derek Fisher o Steve Nash è molto importante che ascolti anche loro, perché alla fine della fiera in campo ci vanno loro. Noi possiamo mettere insieme un sistema, avere una filosofia e fare determinate cose all’interno della squadra, ma loro hanno così tanta conoscenza che possono arricchire non solo te, ma anche i loro compagni di squadra. Il mio primo anno da allenatore in NBA è stato un processo molto formativo, ho imparato tantissimo; pensavo di essere già un grande conoscitore, ma ho scoperto che c’è molto da imparare e i giocatori di quel tipo ti spingono veramente a migliorarti come allenatore, in primis perché anche loro vogliono essere guidati dall’allenatore. Quegli scambi di opinioni ti aiutano a diventare un allenatore migliore e un giocatore migliore, ed è una partnership che deve per forza instaurarsi.

 

LMC: Passiamo ad altro, parliamo del peak dei giocatori. Generalmente si considera che il peak dei giocatori arrivi tra i 26/27 e i 29/30 anni, credi che questo peak effettivamente esista e quanto dipende dall’approccio del singolo giocatore e dalle componenti mentali e psicologiche? Quanto può essere migliorato lo skill set di un giocatore durante il periodo di peak rispetto a inizio carriera?

 

PH: È un discorso che fanno in molti, personalmente non credo che l’età conti granché, se un giocatore vuole migliorare può farlo indipendentemente dall’età. C’è la tendenza di dire “Hey, questo giocatore ha 30 anni, non penso possa migliorare ancora”: questo secondo me non è vero, se vuoi migliorare per prima cosa devi lavorare sodo e applicarti. Gli anni del peak arrivano quando gli atleti non si sono sviluppati a dovere da giovani; qui negli USA i ragazzi vanno al college e ci rimangono forse un anno, sono giovani e talentuosi ma la loro conoscenza del basket e di come giocare per vincere non è sempre al top. Arrivano in NBA dopo aver giocato solo un anno al college, e siamo noi a dovergli spiegare come si gioca a livello NBA. Al contrario, ci sono giocatori che stanno tre o quattro anni al college e che vengono effettivamente allenati, che imparano a competere – che è importantissimo – e che imparano a giocare in situazioni in cui la pressione è alta, come per esempio il torneo NCAA. Questi ultimi sono più avanti nel processo di maturazione, e si collegano al discorso sul basket europeo: ci sono giocatori giovani che scendono in campo con la loro squadra quando hanno 13, 14 o 15 anni, sono ancora ragazzini ma imparano a giocare contro gli adulti fin da piccoli.

LMC: Come Luka Dončić.

 

PH: Esatto! Il loro livello è più alto perché hanno giocato contro adulti, hanno imparato a giocare nel modo giusto e hanno imparato a competere, essendo stati allenati in modo diverso. Quando i ragazzi saltano il college e vanno direttamente in NBA, saltano anche il processo di apprendimento di come giocare a basket; quando arrivi in NBA ci si aspetta che tu sia a un certo livello, ma spesso non è così. Crescono col tempo, in tre/quattro anni, per questo motivo vedi giocatori di 25/26/27 anni che cominciano a maturare davvero: attorno al quarto anno cominci a vedere che il giocatore è cresciuto ed è maturato, però è qualcosa che avrebbe già dovuto fare al college. Penso che le squadre che ragionano dicendo “Questo giocatore è stato al college per quattro anni, è un po’ troppo vecchio” sbaglino, non sono d’accordo che un rookie di 24 anni sia troppo vecchio; non importa l’età, per me conta solo la base di partenza a livello di abilità e di QI e quanti margini di miglioramento ha, io utilizzo questi criteri quando penso all’impatto che l’età può avere sui giocatori.

 

AB: In questo momento vorrei urlare il nome di Brandon Clarke ma non lo farò. Phil, tutti sanno l’importanza che hanno avuto Tony Delk e Randy Bennett nel tuo passato, ma vorrei che tu ci raccontassi un’altra storia: uno step importante della tua carriera da allenatore è stato quando sei stato un volunteer coach nella ex D-League con i Reno Bighorns sotto il leggendario coach Eric Musselman, allenando giocatori come Danny Green e Gerald Green. Ciò che tanta gente non sa è come hai conosciuto effettivamente Eric Musselman; io ho studiato molto su di te e sulle tue partite perciò conosco la storia, però ti chiederei comunque di raccontarci di quando eri un rookie nella CBA e stavi giocando contro i Florida Beach Dogs.

 

PH: Eric Musselman forse è uno dei più grandi coach che la CBA abbia mai visto. Io ero ancora un rookie e giocavo a Omaha, e lui è uno di quelli a cui non interessa chi si trovi davanti, cerca comunque di entrare nella tua testa e di farti sentire inferiore, e cercava di fare lo stesso anche con me: mi diceva qualcosa ogni volta che tiravo, se stavo marcando qualcuno diceva al suo giocatore “Battilo, questo rookie non riesce a marcarti”. Lui non lo sapeva, ma in realtà mi stava aiutando, le partite migliori nel mio anno da rookie le ho avute contro di loro; rispettava il fatto che mi impegnassi duramente, perciò quell’estate mi ha chiesto di giocare per la sua squadra in Florida nella USBL. Alla fine siamo rimasti in contatto per anni ed è diventato un grande amico e un coach che rispettavo molto, perché era molto competitivo e voleva solo vincere. Quando anni dopo mi sono ritirato e ho cominciato la mia attività di allenatore, Eric era diventato allenatore dei Reno Bighorns e sapeva che lavoravo nel player development; noi avevamo mantenuto la nostra relazione, perciò mi ha chiesto se volessi andare con lui e diventare parte della squadra. Io gli ho detto di sì e ho messo a disposizione il mio tempo per fargli da assistant coach nel suo staff, perciò quello è stato il mio primo anno di player development al servizio di una squadra; per me è stata una bella esperienza.

 

LMC: Io sono un grande fan di LeBron, e siccome l’hai allenato dal 2014 al 2018 e poi ancora quest’anno con i Lakers volevo chiederti in che aspetto del gioco è migliorato di più a tuo parere, e se in questi cinque/sei anni insieme c’è qualcosa che ti ha sorpreso dal punto di vista della sua etica del lavoro.

PH: LeBron è semplicemente un atleta incredibile, probabilmente uno dei lavoratori più duri con cui io abbia mai lavorato (e ho avuto la fortuna di lavorare con giocatori come Kobe e Kawhi). LeBron migliora costantemente, più vecchio diventa più migliora; la sua conoscenza del gioco continua a crescere, e la cosa più incredibile è che lui vuole sempre migliorare e imparare, probabilmente è il giocatore più “allenabile” con cui abbia mai lavorato. La crescita maggiore l’ha avuta nel ball-handling e nel footwork, è migliorato esponenzialmente in queste due cose. La gente continua a dire che non sia un tiratore, ma da tre in carriera ha il 35/36%, non è Curry o Danny Green, non è un tiratore micidiale, ma se lo lasci libero lui segna; ha grande fiducia nella sua abilità di segnare, non crede che ci siano zone del campo da cui non può segnare. Nel corso degli anni ho visto cosa fa con il suo corpo per 365 giorni all’anno, non solo per quanto riguarda il basket (a volte fa yoga, stretching, altre volte si fa fare trattamenti, solleva pesi), per assicurarsi di essere sempre al massimo livello. La sua dedizione dentro e fuori dal campo è incredibile, ed è ciò che gli permette a 35 anni di giocare in questo modo, ed è ciò che la gente non capisce. L’ho visto migliorarsi ogni anno, a giocare in post, a trattare il pallone, a tirare… Ha sempre lavorato per migliorarsi in ogni aspetto possibile.

 

AS: Phil, so che il tempo che hai a disposizione sta finendo e che devi tornare alla tua squadra, perciò ti faccio le ultime due domande e poi vedi tu di quanto tempo necessiti. La prima è su una storia che tutti conoscono, ma che voglio sentire raccontata da te: giugno 2016, sei con i Cavaliers, siete sotto 0-2 nelle Finals contro Golden State e tu provieni dalla Bay Area, quindi i tuoi parenti e i tuoi vecchi amici ti stanno stuzzicando e provocando via messaggio. Cosa successe dopo la fine di Gara 2? E poi, quanto sono importanti questi momenti in cui c’entra solamente il cuore e non la tecnica e gli schemi? Poi vorrei che ti prendessi qualche secondo per parlarci della tua app e di come può aiutare a migliorare il nostro gioco anche se non possiamo essere allenati da te.

 

PH: Hai colpito nel segno, sono una persona estremamente competitiva e odio perdere, soprattutto quando dopo che ho perso la gente mi stuzzica e mi provoca, mi irrita molto. Durante tutti i playoff eravamo stati bravissimi, eravamo concentrati e stavamo giocando bene, non c’era stata storia con nessuno; poi siamo arrivati alle Finals e i Golden State Warriors si sono presi gioco di noi in Gara 1 e 2. Mi sembrava come se la squadra non stesse reagendo, come se non stessero prendendo quelle partite abbastanza sul serio; non si trattava di schemi e di X&O’s, si trattava di cuore, passione ed emozioni. Siamo alle Finals, dovremmo dare tutto in campo! Perciò ho detto educatamente a coach Tyronn Lue “Coach, questa cosa mi sta facendo uscire di testa, non stiamo giocando abbastanza duramente, posso parlare alla squadra?”. Tutto ciò che ricordo è che, quando ho cominciato a parlare, la mia faccia, i miei occhi e la mia pelle stavano prendendo fuoco, ero arrabbiatissimo che la squadra non stesse giocando con orgoglio e non stesse reagendo; per circa tre minuti ho perso la testa, sono andato in blackout, ho urlato, imprecato e puntato il dito parecchio… Volevo solo che i nostri ragazzi si comportassero da uomini e giocassero in modo competitivo, gli Warriors ci stavano prendendo in giro, gli ho detto che dovevano mostrare un po’ di orgoglio per essere arrivati fino alle Finals e che dovevano dimostrare agli avversari che erano una squadra migliore. La squadra ovviamente ha reagito, abbiamo fatto la storia e abbiamo rimontato da 3-1. Quello per me è stato un bellissimo momento da allenatore.

 

Riguardo la seconda domanda, parte del mio modo di allenare è quello di “restituire” al gioco del basket e condividere ciò che so, ed è così che è nata la mia app, 94FEETOFGAME; è un progetto che nasce da una passione, cioè il desiderio di condividere le mie conoscenze sul basket. Questa app racchiude anni di lavoro, e permette di affinare varie parti del gioco (footwork, tiro, ball-handling, pick and roll, difesa, conclusioni al ferro, giochi a due), c’è veramente di tutto. Specialmente adesso durante la pandemia la gente non riesce a rimanere in contatto con i propri allenatori, non ci sono gli spazi per allenarsi, però si possono fare un sacco di cose a casa e l’app vuole dare una via d’uscita e un po’ di sollievo per quelli che vogliono continuare a lavorare e allenarsi. 94FEETOFGAME è per ogni giocatore, ogni allenatore, ogni preparatore e perfino ogni genitore che voglia capire di più del gioco del basket, è un ottimo mezzo per conoscere meglio il basket.

 

LMC: Mi ricordo di quanto ti ho contattato per la prima volta tre/quattro anni fa e tuttora sono contentissimo di averlo fatto, è qualcosa di incredibile pensare di poter parlare con te se ripenso a tre/quattro anni fa. Vorrei ringraziarti ancora una volta per questa cosa.

PH: Io vi ringrazio per la vostra pazienza, lo apprezzo molto e sono contento che siamo riusciti a portare a termine questa cosa oggi.

AB: Grazie mille Phil, apprezziamo moltissimo.

PH: Quando mandate in onda il podcast mandatemi il link, non vedo l’ora.

Tags: DeMar DeRozanDerek FisherEric Musselmankobe bryantLeBron JamesLos Angeles LakersNick NursePhil Handytoronto raptors
Daniele Sorato

Daniele Sorato

Tifoso suo malgrado dei Timberwolves e della Juventus, nel tempo libero studia Scienze Internazionali all’Università degli Studi di Milano, viaggia e colleziona dischi. Odia parlare di sé in terza persona e sicuramente non si guadagnerà da vivere scrivendo bio.

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