In questo articolo parleremo delle Finals del 2004, e non vi nego che questo per me sia un onore dato che vi descriverò una delle Finals più strane che la NBA abbia mai visto: quella tra Detroit Pistons e Los Angeles Lakers. Perché ho utilizzato il termine strane? Ve lo spiego subito.
Ad inizio stagione, la quota che dava i Lakers futuri vincitori del titolo era di 1:1.4. Puntando 100€ sui gialloviola a settembre, il guadagno totale sarebbe stato di 40€. Solo i Golden State Warriors sono stati valutati con una quota più bassa dal 2000 ad oggi. Quella dei Pistons era di 1:15, ovvero scommettendo 100€ sul loro successo finale, la vincita sarebbe stata di ben 1400€. Tutto un altro mondo. Questo discorso delle quote di certo non descrive i valori reali in campo, ma ci aiuta a contestualizzare meglio quale fosse l’opinione pubblica in quegli anni.
Al Michaels, che commentò insieme a Doc Rivers Game 1 allo Staples Center, nella presentazione della partita aggiunge addirittura che molta gente ad inizio anno pensava che i Lakers potessero raggiungere le 70 W stagionali facendo riferimento anche alla notevole possibilità di assistere ad uno sweep da parte dei Lakers. Fortunatamente, i pronostici non sempre vengono rispettati.
Come sono arrivate alle Finals?
Los Angeles Lakers
I Lakers arrivarono ai Playoffs con la seconda testa di serie. Questo valse l’accoppiamento con i Rockets di Steve Francis al primo turno, che alla prima ed unica (ahimè) post-season fece registrare numeri straordinari. C’era anche un giovane Yao Ming. il risultato fu di 4-1 per i Lakers, che fecero valere la maggior esperienza portandosi a casa un paio di partite risolte agli ultimi minuti.
Al secondo turno, ecco l’accoppiamento più difficile che potessero incontrare: i San Antonio Spurs campioni in carica. Shaq e Kobe, abbastanza silenti nella serie precedente, sono chiamati ad alzare i colpi, e non si lasciano desiderare nonostante gli Spurs si portino sul 2-0: ad un passo dal baratro, i Lakers inanellano quattro vittorie consecutive e spazzano via i texani incontrando alle finali di conference i sorprendenti T’Wolves.
indimenticabile tiro a 0.4 decimi di Fisher in Gara 5
Minnesota arriva per la prima volta della storia a questo appuntamento con un’ enorme ondata di entusiasmo. A questo si sommavano il fattore campo e l’MVP in carica della lega: Kevin Garnett, capace di registrare cifre da urlo (32 punti, 21 rimbalzi, 4 rubate e 5 stoppate) in gara 7 contro i Kings. Per i Lakers che non sarebbe stata una passeggiata.
Tuttavia, in gara 1 i Lakers riuscirono subito a ribaltare il fattore campo grazie ad una prova di Shaq da 27 punti, 18 rimbalzi e 4 stoppate e riuscirono ad archiviare la pratica in 6 partite arrivando alle Finals da grandi favoriti.
Detroit Pistons
Negli ultimi anni, superare la Eastern Conference è più semplice, ma nel 2004 i Pistons fecero tutt’altro che una passeggiata. Il primo turno fu agevole con Detroit che spazza i modesti Bucks di Redd e Desmond Mason con un sonoro 4-1.
Dal secondo turno però, la musica cambia: ecco l’attesissimo rematch contro i Nets di Kidd e Martin. New Jersey, reduce da un paio di NBA Finals consecutive, aveva sconfitto proprio i Pistons nelle scorse finali di conference conquistando le due gare in trasferta con uno scarto di soli due punti e quindi concludendo con un (strano a dirsi) sofferto 4-0. La serie è bellissima. C’è un ribaltamento dietro l’altro: si parte con il 2-0 Pistons, si arriva al 3-2 Nets, per poi arrivare ad una gara 7 senza storia
in gara 5 si disputò un triplice overtime. Il primo grazie a questa bomba di Billups
La voglia di rivalsa dei Pistons prevalse da subito e si assiste ad un blow-out di 21 punti. Quella probabilmente sarà ricordata come la peggior serie Playoff mai disputata da Jason Kidd che dovendo sostenere l’intero attacco dei Nets, fece registrare dei dati un po’ poveri: 10,1 punti 9 assist ma con 3 palle perse abbondanti ed una TS% del 36.5%.
Da una rivalità all’altra, solo che questa è quella più sentita da entrambe le tifoserie. Avete intuito bene: i Pacers erano gli avversari che attendevano i Pistons e lo facevano col favore del pronostico. Indiana aveva disputato una straordinaria stagione regolare da 61 vittorie che valse il fattore campo. La serie era rude, maschia, con le difese che prevalsero sempre sugli attacchi: un esempio lampante sono le 25 stoppate complessive che le squadre si rifilarono in gara 5. L’emblema della serie fu però la stoppata storica di Prince in gara 2 che valse il fattore campo per i Pistons capaci di archiviare la serie contro il loro ex-allenatore Rick Carlisle per 4-2. Una lunga e travagliata strada che portò Motor city alle NBA Finals per la prima volta dal 1990.
Game time!
È quindi tempo di gara 1 e la prima azione offensiva dei Pistons è studiata perfettamente per mettere sin da subito in risalto le lacune difensive dei Lakers negli accoppiamenti. Billups si sposta in palleggio nel lato di Hamilton che prende un blocco cieco da Ben Wallace all’altezza del gomito. Continua a correre nell’altro lato dove lo aspettano prima Prince e poi Sheed con un tandem; Hamilton ricciola dentro per impegnare Malone, che viene bloccato sapientemente da Prince e quindi consente a Sheed di aprirsi completamente smarcato sull’arco dei 3 punti. Rasheed Wallace viene servito puntualmente da Billups che intanto aveva migliorato l’angolo di passaggio. È solo il 3-0 Pistons ma sembra voler essere un segnale più che chiaro.
Gara 1 è in equilibrio: si arriva all’intervallo sul +1 Lakers e da qui tutti si aspettano una fuga dei padroni di casa. Sarà invece Chauncey Billups, futuro MVP delle Finals, a prendere Motor City per mano e realizzare 9 punti conditi da un paio di rubate per firmare sorpasso ed allungo. Crea un vantaggio che poi verrà mantenuto nell’ultimo periodo e consentirà ai Pistons di andare sopra nella serie nonostante uno Shaq straripante da 34 punti con 13/16 dal campo.
Tuttavia, nessun pericolo (apparentemente) per i Lakers: anche nelle Finals del 2001 andarono in svantaggio dopo gara 1 perdendo il fattore campo ma poi riuscirono a vincere abbastanza agevolmente il titolo conquistando le successive quattro gare.
Talento contro organizzazione
Arriva gara 2 e come per tutto il resto della serie, gli accorgimenti sono pochi: i Lakers cercano maggiore fisicità ed aggressività. Provano a ricevere più profondi nella loro triangle offense ma i Pistons sono duri a morire. Tanto duri che arrivano al quarto periodo sul +6 ad una quarantina di secondi dalla fine. Ci vogliono un canestro con fallo di Shaq prima ed una tripla semi-impossibile di Kobe poi, a portare la partita ai supplementari dove i Lakers riusciranno a pareggiare la serie. In questa occasione fu Kobe a guidare i suoi con 33 punti a fronte dei 53 della premiata ditta Billups – Hamilton che ha destato non pochi pensieri alla difesa a angelina.
Si vola in Michigan in pareggio ma secondo l’opinione pubblica, erano ancora i Lakers la squadra nettamente favorita. Tuttavia, già nel primo quarto, Hamilton e compagni indirizzano la partita andando sul +8. Gli angelini non riusciranno più a raggiungerli: i Pistons volano sul 2-1, con un Hamilton straordinario da 31 punti e limitando la coppia Kobe – Shaq a soli 25 punti in due.
Mai prima di allora si era vista questa coppia in tali difficoltà, anche se sicuramente le dinamiche extra-cestistiche influirono in modo particolare: già da tempo si parlava di rapporto ai minimi termini tra Shaq e Kobe. Quest’ultimo era coinvolto in un processo abbastanza delicato nel quale lo si accusava di violenza carnale nei confronti di una donna. Nonostante si trattasse di professionisti esemplari, non si può dire che questi problemi non abbiano influito sugli equilibri della serie.
Inoltre, credo che sia giusto collegarmi a questo discorso per aprire una piccola parentesi dove approfondire di quelle voci odierne che col senno di poi, recitano qualcosa come: “quei Lakers erano già a fine ciclo. Oltre al rapporto tra Kobe e Shaq avevano preso Payton e Malone a fine carriera“. Scusate, ma sento di dissentire quantomeno in parte.
Il Postino e “The Glove” sicuramente non erano quelli degli anni migliori (anche perché in tal caso la stagione avrebbe potuto tranquillamente non disputarsi), ma erano lontani dall’essere chiamati ex-giocatori. Nonostante Malone avesse 40 anni, fino alla stagione precedente era ancora in grado di viaggiare a 20 punti e 8 rimbalzi di media e due anni prima vestiva la maglia da All-Star. Per quanto Gary Payton, basta dire che un paio di anni dopo queste Finals, ha avuto un ruolo importante nella conquista dell’anello degli Heat, giocando 24’ di media nelle 23 partite di quei Playoffs.
Chiaramente è tutto da contestualizzare: come scritto già nell’incipit dell’articolo, per comprendere veramente il quadro del tempo, non bisogna pensare con occhi di oggi ma occorre immergersi completamente nella realtà storica del momento. Chi pensa come detto prima, non si rende conto di ragionare a conti fatti e questa cosa non gli consente di vivere il contesto di cui si parla.
Chiusa questa parentesi doverosa torniamo a parlare della serie ripartendo da gara 4. Nonostante il punteggio fosse di 2-1 per i Pistons, i Lakers erano dati ancora per vincitori dalla maggioranza della gente. All’epoca il formato delle Finals non era il 2-2-1-1-1 ( riferito a chi inizia la serie col fattore campo: due gare in casa, due in trasferta, una in casa ecc.) ma omologandosi alla MLB, quello del 2-3-2 ( due gare in casa, tre in trasferta e due in casa) istituito per risparmiare su viaggi e trasporti. Bene, direte voi, e quindi?
Quindi in questa serie, fece tutta la differenza del mondo, perché a livello mentale i Pistons erano consapevoli che perdere una delle tre partite consecutive in casa significava giocarsi le due partite più importanti della serie in trasferta, e proprio per questo avevano grande pressione addosso. Non potevano sbagliare: attendevano altre due gare 7
Shaq decise di mettere in chiaro che gara 4 sarebbe stata diversa: 10 punti (con 5/5 dal campo) e 5 rimbalzi nel solo primo quarto permisero ai Lakers di chiudere in vantaggio i primi 12 minuti, ma questi dati non erano incoraggianti. Quando il tuo miglior giocatore domina e la tua squadra è in vantaggio solamente di un punto, i segnali non sono del tutto positivi. Nel secondo quarto il copione è sempre lo stesso per i Lakers, con Shaq che all’intervallo ha già 17 punti e 12 rimbalzi ma non è sufficientemente supportato dagli altri , Kobe in primis. Per quanto riguarda i Pistons invece, finalmente sembra essere il turno di Sheed, che fino a quel momento aveva disputato una serie abbastanza sottotono per i suoi standard: chiuderà infatti con 26 punti e 13 rimbalzi una prestazione indimenticabile per i tifosi.
La partita è all’insegna dell’equilibrio, e si arriva in parità all’ultimo quarto sul 56 pari: Shaq sembra aver finalmente trovato il supporto di Kobe, ma nella sponda Pistons i vari Billups, Hamilton e Sheed segnano 29 punti (dei 32 complessivi) nel solo ultimo quarto e rendono vani gli sforzi di uno Shaq leggendario.
Gara 5 è la partita che consacra i Pistons: nel primo quarto i Lakers provano a restare a galla, ma nei due periodi centrali vengono strapazzati da Detroit che rende l’ultimo quarto di gioco una passerella di standing ovation per i suoi 5 memorabili starter. Come ciliegina sulla torta, terminano tutti la partita in doppia cifra e Ben Wallace si leva anche la soddisfazione di catturare 22 rimbalzi. Finisce 100 a 87 una partita che avrebbe potuto avere un margine molto più ampio, ma poco importa: gli underdog, dopo il lontano 1990, tornano campioni NBA, e lo fanno ancora una volta battendo i Lakers.
Chiavi tattiche
Partiamo con un presupposto: a differenza di molte altre serie Playoffs, soprattutto a livello di NBA Finals, non abbiamo grossi accorgimenti fatti dalle due squadre. Molto semplicemente, i Pistons hanno sfruttato al meglio i vantaggi che avevano negli accoppiamenti, mettendo alle strette i Lakers.
i Pistons scelsero di non raddoppiare. Né Shaq né Kobe, se non in quelle situazioni di gioco in cui un difensore si trovava già flottato verso Shaq
per vedere il flottaggio ed il single coverage
Sheed che finta il raddoppio mentre marca Medvedenko. Lui stesso andava verso quella direzione
Vero che Shaq non si poteva annullare, bensì solo limitare, ma è anche vero che si ritrovava in single coverage contro “Big” Ben Wallace. Nelle due stagioni precedenti aveva vinto il Defensive player of the year in back to back; oltretutto affiancato da altri giocatori di stazza come il suo omonimo compagno Rasheed seguito dalla panchina da Okur e Campbell
Stesso discorso per Kobe, che si trovò faccia a faccia con uno dei migliori difensori perimetrali che la lega abbia mai visto: infatti il fisico longilineo di Prince (2,06 m di altezza con un wingspan di 218 cm) unito alla sua grande mobilità laterale, ne fece il prototipo di difensore perfetto da accoppiare con Kobe.
Per quanto riguarda gli altri accoppiamenti, Billups, Sheed ed Hamilton non ebbero grossi problemi a tenere Payton, Malone e George. D’altra parte i mancati adeguamenti apportati su Sheed (Malone o chi per lui non potevano tenerlo in single coverage) e le poche soluzioni di accoppiamenti per il back court, sono stati i punti carenti in casa Lakers: Kobe escluso, comunque legato a diverse responsabilità offensive, di difensori adatti ad inseguire Hamilton o Prince nelle doppie uscite i Lakers non esistevano.
Nei pick & roll giocati da Billups, i Lakers andarono spesso in crisi
Annesso commento di Tranquillo sull’accoppiamento Billups – Payton
Billups muove tutta la difesa col suo pick & roll e Big Ben ha un’ autostrada per schiacciare
La panchina dei Pistons riuscì ad impattare bene nella serie, in quanto i vari Hunter, Williamson e Cambpell garantivano un’intensità difensiva costantemente alta. Questo è uno dei motivi per cui, consultando il defensive net rating, i Pistons sono di gran lunga la miglior difesa della storia dei Playoffs.
La difesa sui pick&roll dei Pistons fu progettata per passare in terza contro qualsiasi esterno Lakers, mentre spesso si faceva show piatto su Kobe sia per restare aggressivi sia per concedergli un tiro da distante. I Lakers adottarono praticamente la stessa strategia con Billups, nonostante sia Malone che Shaq non fossero ovviamente in grado di farlo con continuità. Jackson è stato indubbiamente uno tra i migliori coach mai esistiti ma in questa serie, la mancanza di adeguamenti gli costò caro: Phil arrivò ai Playoffs vincendo 29 delle ultime 30 serie disputate non conoscendo praticamente la parola sconfitta, e questo rende ancora più amaro l’esito di questa serie.
Curiosità
Quando si parla di sorprese o di squadre improbabili, si parla di questi Pistons. Proprio a tal proposito, vorrei snocciolare qualche curiosità a riguardo:
– Oltre il titolo del 2004, i Pistons arrivarono alle finali di conference anche nel 2003, e lo fecero fino alla stagione 2007/08 dimostrando una continuità con pochi eguali nella storia.
– I Lakers arrivarono alle Finals del 2004, dopo che nel Three–Peat hanno avuto queste medie nelle complessive 15 gare disputate alle Finals: 106,5 punti per partita, 110 di offensive rating. Alle Finals 2004 i Pistons li costrinsero a soli 81,8 ppg, con 96,1 di OFF RTG. Quindi complessivamente -24,7 punti di media e -13,9 di OFF RTG.
– Sempre nelle Finals del Three–Peat, Shaq ha viaggiato a queste medie: 35,9 punti per partita, 15,2 rimbalzi per partita, 3,5 assist, 3 stoppate, 59,2% di TS% e +13,9 di Net RTG. Nelle Finals del 2004 i Pistons lo hanno confinato alle seguenti cifre: 26,6 ppg, 10,8 rpg, 1,6 apg, 0,6 bpg, 61,5% TS% e +5 di Net RTG (unico Laker con Net RTG positivo). Il tutto con un minutaggio pressoché uguale.
– Escluse le prime Finals, in cui Kobe non era ancora un top player affermato per via della giovane età, quelle del 2004 sono state per distacco le peggiori Finals di Kobe a livello di TS%, ppg e rpg.

Le conseguenze delle finals 2004
Come si aspettavano in molti, il ciclo dei Lakers del three–peat era ormai finito, ed il loro giocatore principale, Shaq, decise di abbandonare la nave insieme altri membri storici come Fox e Fisher. Payton fece le valigie e Malone decise di ritirarsi senza aver coronato la sua carriera con un anello: inizia la ricostruzione, con la sola aggiunta di rilievo di Lamar Odom.
Le tre stagioni susseguenti sono state particolarmente sofferte. Le uniche gioie per i tifosi erano i record individuali di Kobe ma per tornare a sorridere veramente avrebbero dovuto attendere la stagione 2007/08 quando tornarono alle Finals (perse) contro i Celtics. La storia ci racconta che si vendicarono un paio di anni più tardi.
Ironia della sorte, anche il ciclo dei Pistons terminò proprio con quei Playoffs e proprio contro quei Boston Celtics: alla sesta apparizione consecutiva nelle Eastern Conference Finals (alla faccia di chi ancora ad oggi parla di squadra baciata dal destino) i Pistons persero per 4-2 e l’anno dopo, con lo scambio Billups – Iverson, di fatto iniziò la discesa senza fine che ancora ad oggi sembra lontana da una risoluzione.
Ricostruendo i fatti successivi all’anello del 2004, i Pistons persero gradualmente pedine fondamentali della panchina (Williamson, Okur e Cambpell) per arrivare alla prima sanguinosa perdita fra i titolari: quella di Ben Wallace avvenuta nell’estate del 2006 a seguito dei disguidi col nuovo allenatore Flip Saunders. I Pistons riuscirono a restare tra le migliori difese della lega per defensive rating ed aggiunsero Chris Webber al roster, ma a livello Playoffs non riuscirono a chiudere le serie nei momenti giusti. Vennero puniti dall’ascesa di Wade prima e di James poi.