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L’ultima danza di Chicago

Davide Torelli by Davide Torelli
19 Aprile, 2020
Reading Time: 12 mins read
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the last dance

Copertina a cura di Francesco Perillo

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Estate del 1997, siamo a Chicago, Illinois. Il quinto trofeo di campioni è appena passato in bacheca dopo la consueta parata cittadina, e c’è da decidere se riconfermare o meno il blocco principale della squadra, per riprovarci ancora. Sembra una battuta, ma negli uffici più importanti dei Bulls, “i due Jerry” se lo chiedono davvero se tenere Jackson, Pippen e Rodman.

Probabilmente – nel pianeta – una domanda del genere sono capaci di farsela solo loro, ammesso che non si tratti di un mero esercizio retorico. Jerry Krause vuole rinnovare subito, per evitare che la franchigia cada in quell’oblio dal quale è difficile rialzarsi, una volta abbandonati da Scottie, Phil e Michael, anche se non voler ancora a roster quest’ultimo sarebbe da matti. E lui lo ha detto subito dopo la conclusione della drive for five: torna se tornano anche gli altri. Altrimenti si ritira, o al limite, guarda altrove.

Il General Manager lascerebbe partire volentieri coach Zen, del quale ha biblicamente le scatole piene, così come Dennis Rodman, all’alba dei 37 anni e con la testa completamente alla deriva. Non ne può più dei contorni bizzarri che accompagnano la squadra, dei riti promossi da Phil nello spogliatoio, delle fughe dell’uomo dai capelli colorati: una polveriera pronta ad accendersi fragorosamente.

Non ne può più neanche di Scottie Pippen, che avrebbe ovviamente un discreto mercato e permetterebbe di liberare spazio nel salary cap, considerando quanto continuasse a lamentarsi per lo stipendio (a suo dire) esiguo, con cui venivano retribuite le sue prestazioni in campo.

I Bulls lo propongono a Boston e New Jersey nelle ore precedenti al Draft del 1997, ma le contropartite non convincono. Scottie, di contro, decide di operarsi ad un piede dolorante, sfidando la società nel farlo a settembre, e perdendo così i primi tre mesi di regular season dopo aver saltato il training camp. Lo stesso al quale non partecipa neanche Dennis Rodman, anche lui infortunatosi e fuori per gran parte dei primi allenamenti, dopo aver strappato una riconferma annuale.

Phil, invece, si trova nella posizione di determinante per il ritorno di Michael, consapevole di essere malvoluto dallo stesso Krause, che sogna di sostituirlo con l’amico Tim Floyd, allenatore di Iowa State. La pressione di Jordan – coincidente con quella dell’opinione pubblica – ha la meglio sull’altro Jerry (Reinsdorf), che da proprietario della franchigia si impone nel rinnovare Jackson per un altro anno, con un contratto da “appena” 6 milioni di dollari. Si vola quindi a Parigi per il McDonald’s Open, però “dalla stagione prossima si cambia regime” dichiara pubblicamente Krause.

Il campionato in partenza sarà The Last Dance – l’ultima danza – sottolinea il coach, portandosi dietro gli altri, in quella che appare una crociata della squadra contro la dirigenza, destinata a coinvolgere il resto del globo che segue preoccupato. Vincere di nuovo, dichiaratamente, alla faccia di chi ha già deciso di chiudere baracca spedendo fuori l’artefice riconosciuto dei successi, destinato a portar via con sé nient’altro che Michael Jordan, con Rodman e Pippen che seguono a ruota. Anche se quest’ultimo ci metterà quasi metà stagione ad acquietarsi, chiedendo più volte la cessione, ma resistendo fino alla fine.

 

I due Jerry

Eppure dietro ad una grande squadra, è necessario tributar merito ad una grande organizzazione. I “due Jerry” lo rivendicheranno a lungo, considerando le scelte che hanno accompagnato le loro carriere nella crescita di Chicago, fino al raggiungimento dell’agognato anello nel 1991.

Reinsdorf diviene proprietario dei White Sox di baseball nel 1981, e dopo aver raccolto discreti successi orienta il suo sguardo verso la squadra di pallacanestro cittadina, abbastanza in difficoltà nonostante la presenza a roster di giocatori come Artis Gilmore, Orlando Woolridge e Reggie Theus.

Tutto cambia nell’estate del 1984, quando Rod Thorn seleziona Michael Jordan al Draft, grazie ad una serie di fortunati eventi (ad esempio, la selezione di Sam Bowie con la seconda pick, da parte di Portland). Si tratta dell’ultima vera operazione completata da Thorn come General Manager di Chicago, perché di lì a poco Reinsdorf decide di chiamare per quel ruolo uno scout con cui aveva appena lavorato nel Baseball, con una discreta esperienza pregressa in NBA, ed un conclamato occhio lungo in materia di selezioni: Jerry Krause, l’altro Jerry.

Con Jordan i playoff arrivano subito per i Bulls, ma dal regalare spettacolo con un singolo giocatore a puntare seriamente in alto, il cammino è lungo e tortuoso. I “due Jerry” divengono così un coppia in missione, con Reinsdorf ben disposto a non lesinare oculatezza e disponibilità economiche, e Krause a cui viene data carta bianca nelle operazioni, sempre con un occhio di riguardo verso quel patrimonio inestimabile rappresentato da His Airness.

Nella sua seconda stagione NBA, MJ soffre di un infortunio che lo terrà ai box per gran parte del campionato, e nonostante le pressioni degli sponsor sarà proprio Krause a forzarne la riabilitazione con calma, ritardando a lungo il rientro, almeno secondo il giudizio del giocatore. Quando Jordan rientra – nonostante un minutaggio centellinato – la squadra si prende di forza la post season, magari contro i progetti della franchigia che avrebbe preferito giocarsi un posto al sole nella lottery, schiantandosi al primo turno contro Boston nonostante l’iconica gara da 63 punti al Garden di “Dio travestito da Michael Jordan” (come disse Larry Bird).

Ma il General Manager dal carattere poco diplomatico, ha una visione ben precisa del cammino da intraprendere per trasformare i Bulls in una franchigia di successo. Intanto inserisce tra gli assistenti allenatori Tex Winter, sposando il suo rivoluzionario attacco a triangolo come potenziale sistema di squadra (difficilissimo da attuare quanto da far digerire ad una rising star come Mike), poi scommette su un ragazzone che aveva già ammirato da giocatore, Phil Jackson, reduce da una carriera NBA da comprimario ma dall’evidente intelligenza cestistica (con una attitudine estrosa, da ribelle).

Nel Draft del 1987 si porta a casa due talenti sconosciuti come Scottie Pippen da Central Arkansas (scambiato con Seattle per Olden Polynice) e Horace Grant da Clemson, e dopo aver ceduto Charles Oakley a New York in Cambio di Bill Cartwright, la struttura del roster attorno alla sua stella (a dir poco scontenta per quest’ultima trade, riguardante il suo miglior amico nello spogliatoio) appare completa.

Nel campionato 1988/89 i Bulls supereranno il primo turno con un canestro incredibile di Jordan allo scadere (in gara 5 contro Cleveland) volando fino alla Finale di Conference, dove verranno eliminati dai Bad Boys dei Pistons per il secondo anno consecutivo.

I tempi sembrano più che maturi per il decisivo salto di qualità, e l’organizzazione di Chicago decide così di silurare coach Doug Collins, affidando pieni poteri ad un Phil Jackson oramai convertito alla filosofia del triangolo dopo due anni di lavoro accanto a Tex.

Come già detto, il primo titolo per i Bulls arriva nella stagione 1990/91, con i canestri decisivi siglati da John Paxson nell’overtime di gara 5 al Great Western Forum contro i Lakers: il risultato perfetto di un gran sistema di gioco, una organizzazione vincente e uno spogliatoio coeso attorno alla sua prima donna (che non esita a scaricare con fiducia i palloni più importanti al compagno meno dotato).

E proprio la scelta e la consacrazione di Paxson rappresentano l’esempio principale, per comprendere il talento dell’architetto Krause (il motivo per cui Reinsdorf si fiderà ciecamente delle sue intuizioni anche in futuro). Johnny era un umilissimo lottatore, reduce da due stagioni piuttosto insipide in quel di San Antonio, presumibilmente destinato all’oblio in avvio del campionato 1985/86. Leggenda narra che gli Spurs avessero un debito di 100.000 dollari con Chicago, e che Krause si fosse proposto di rinunciare ai soldi se Paxson fosse stato tagliato, offrendogli la possibilità di firmarlo come free agent. Con i Bulls recitò la parte della point guard titolare a fianco del plenipotenziario Jordan, alla quale non veniva chiesto molto se non concentrazione, grinta e sapersi far trovare pronto sugli scarichi; e Paxson era dotato di un discreto tiro dalla distanza (un po’ lo stesso che veniva chiesto a Hodges ed in seguito a Bj Armstrong).

In gara 2 di finale, segnò 8 canestri su 8 tentativi, per un totale di 16 punti. Quando la serie si spostò a Los Angeles rispose con 10 punti in gara 3 e 15 punti in gara 4 – sempre chirurgico dal mid range –  prima del capolavoro nella decisiva gara 5, con cinque canestri in fila nel supplementare, per un totale di 9 su 12 dal campo.

Al termine dei festeggiamenti e della stagione, la questione del rinnovo di Paxson divenne di estrema attualità, e le sue prestazioni nella Finale appena conclusa si rivelarono doppiamente decisive.

Fino a quella serie, nella mente di Jordan e di Chicago si era instaurata l’idea che Johnny fosse uno da escludere per operare un miglioramento nel roster. Adesso, dopo esser rimasto letteralmente impressionato dalla prontezza del compagno, MJ gli offre addirittura i servizi del suo agente David Falk, il che rappresentava una palese investitura oltre che la volontà del 23 di averlo a suo fianco in futuro. Una scelta decisamente vincente.

https://www.youtube.com/watch?v=GnAr4I3-Z48

È su queste basi che si fonda il primo three-peat di Chicago, anche se a funestare i rapporti tra la dirigenza ed i giocatori, ci sono una serie di episodi basati sostanzialmente sulla personalità di Krause stesso: un uomo senza fronzoli, con una pessima capacità di rapportarsi con gli altri, molto facile da prendere in giro all’interno dello spogliatoio.

All’uscita del libro di Sam Smith “The Jordan Rules” non solo lo spogliatoio inizia a scricchiolare, ma pure il rapporto tra Krause e Jackson diviene complesso, con quest’ultimo indicato come potenziale “fonte” delle scandalose indiscrezioni al giornalista. Si, perché coach Zen è l’unico ad uscire intonso dal libro che svela gli altarini all’interno dello spogliatoio di Chicago, almeno agli occhi di un Krause vittima di appellativi poco simpatici da ricevere, e la loro guerra fredda ha inizio più o meno allora.

Nell’estate del 1993 succederà di tutto, con l’improvviso ritiro di MJ e l’arrivo in Illinois del croato Toni Kukoc, da anni fonte di malcontento soprattutto in Scottie Pippen a causa delle speranze riposte su di lui dalla dirigenza, che lo insegue e corteggia per anni, in attesa che sia pronto per l’esordio in NBA. È lui il conclamato primo tassello delle ricostruzione, un’ossessione che ha da sempre guidato i “due Jerry” anche in epoca di successi, incapaci di programmare il futuro con il terrore di cadere per anni nel dimenticatoio.

 

La seconda era di Chicago

La stagione 1993/94 diviene così una sorta di anno zero, in cui l’instancabile Jerry Krause si impegna a rinnovare la struttura migliore per il triangolo di Winter e Jackson, pur ignorando evidentemente che MJ sarebbe tornato di lì a poco.

Sostituisce i principali protagonisti del three-peat con autentici alter ego: arriva dal nulla Steve Kerr (il sostituto di John Paxson), la coppia di centri formata da Wennington e Longley (in vista del pensionamento di Cartwright), Pete Myers prima e Ron Harper poi, per coprire il ruolo vacante di guardia titolare.

Nonostante le storie tese tra Pippen – finalmente stella conclamata – e l’astro nascente Kukoc, la squadra chiude la regular season con 55 vittorie, giocando “il triangolo alla perfezione” secondo il General Manager, ma uscendo dopo sette gare in Finale di Conference contro New York. Sotto per due a zero, in gara 3 Scottie si rifiuta di entrare in campo per l’ultima azione, con il punteggio sul 102 pari ed il tiro decisivo nelle mani di Toni, per scelta di coach Zen. Clamorosamente il croato riapre la serie con un canestro incredibile, ma la tensione all’interno dello spogliatoio di Chicago si dimostra costante, e solo uno spirituale Jackson può riuscire nell’impresa di tenere le redini della situazione.

Nel frattempo anche Horace Grant saluta la combriccola, ed il sogno dei “due Jerry” di poter vincere anche senza Michael – a dimostrazione delle centralità dell’organizzazione nei successi di una squadra – naufraga con il ritorno di quest’ultimo, grazie ad un lavoro portato avanti da Pippen e coach Zen, ufficialmente accolto come una benedizione da Reinsdorf.

In realtà, il progetto di ricostruzione senza discesa naufraga definitivamente, e partendo dal presupposto che nessuno rifiuterebbe mai il rientro di un giocatore come MJ, la dirigenza di Chicago si trova nella posizione di dover vincere subito, pescando dal mercato il miglior sostituto di Grant possibile: Dennis Rodman. Per gestire un personaggio come lui a Krause serve tutta la pazienza e le capacità di Phil Jackson, che resta così al timone più o meno serenamente, anche perché la riconoscenza della sua grandezza a livello di ingaggio non gli verrà mai concessa.

Non serviranno le 72 vittorie stagionali, i due titoli consecutivi nel 1996 e nel 1997, un contorno che si plasma e si rende più che efficiente attorno ad un Jordan epico, lo stesso che regala momenti indimenticabili come il nausea game o il canestro allo scadere in gara 1 contro Utah. Come anticipato in avvio di articolo, la tensione tra Jackson e Krause (che indirettamente coinvolge anche Reinsdorf e Jordan, oltre che un Pippen scalpitante) raggiunge livelli irrecuperabili.

Ed è così che una delle squadre più forti di sempre rinuncia alla propria dinastia prima del raggiungimento del limite massimo, prima di venir sconfitta sul campo. I Chicago Bulls avrebbero potuto tranquillamente chiudere la decade con 7 titoli in 10 anni, e probabilmente non avrebbero faticato a battere quel record incredibile degli 8 titoli consecutivi che resta dei Celtics, dal 1957 al 1966.

Se una parte della colpa è da imputarsi al ritiro improvviso di Michael, la forzatura dell’ultima danza resta un qualcosa di unico nella storia dello sport professionistico. Ed il modo in cui – con prepotenza e nonostante una serie di guai – i ragazzi di coach Jackson riusciranno ad alzare al cielo il sesto Larry O’Brien Trophy nello Utah il 14 giugno del 1998, merita un ennesimo sguardo approfondito. Non solo per capire dalla conclusione di una epopea la grandezza della stessa, ma perché anche da come si strutturano i festeggiamenti dopo la sirena di fine gara, gli strascichi di una insensata last dance si manifestano in modo palese.

Perfetta anticipazione di quella rottura definitiva che si sarebbe consumata di lì a poco.

Tags: Chicago BullsMichael JordanThe Last Dance
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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