I latini l’avrebbero chiamato annus horribilis: la stagione NBA 2019-20, tribolata e, per certi versi, falcidiata da eventi negativi, è arrivata lo scorso 11 marzo alla decisione, quanto mai rara, di una sospensione delle gare a causa del dilagare della pandemia Covid-19.
La speranza di tutti, ovviamente, è che lo spettacolo possa ripartire dopo la pausa (minima) di 30 giorni. Comunque vada, quest’annata passerà alla storia come una delle più drammatiche del recente passato nel basket professionistico americano. I problemi sono cominciati molto presto, addirittura nel corso della pre season.
1 – Il pasticcio di Daryl Morey
Durante gli NBA Asia Games, infatti, un tweet di Daryl Morey, general manager degli Hoston Rockets e pioniere della cosiddetta Morey Ball, ha rischiato di scatenare una crisi diplomatica fra la NBA e la Cina. Il 4 ottobre scorso, infatti, il GM della squadra texana ha twittato uno slogan a favore dei protestanti di Hong Kong che, da mesi, chiedevano una maggiore autonomia rispetto alle decisioni del governo centrale:

Il razionale e statistico Morey ha valutato probabilmente in maniera errata le possibili conseguenze del suo tweet o, più probabilmente, non le ha valutate affatto. Fatto sta che, pur cancellandolo in tempo zero, Morey ha fatto in tempo a scatenare una sorta di crisi diplomatica. La NBA e gli stessi Rockets si sono discostati immediatamente dalle parole del GM, ma i dirigenti cinesi sono quasi arrivati a chiedere la sua testa al commissioner Adam Silver. Lo stesso Yao Ming, leggenda dei Rockets per tanti anni e, dal 2017, responsabile della Chinese Basketball Association, ha espresso il suo rammarico per le parole di Morey.
Se, grazie a un’innata abilità diplomatica, la NBA è riuscita a far rientrare faticosamente l’incidente di percorso di Morey (seppur con notevoli perdite economiche), i Rockets sono passati nello spazio di un autunno dall’essere la squadra americana con più seguito nell’enorme stato asiatico, a essere quella maggiormente ostracizzata. Il potere di un tweet, ai tempi della globalizzazione e dei social, può deflagrare con una potenza inaudita.
2 – L’addio a David Stern
Il 2020, finora tanto infausto, si apre con un lutto per la NBA. L’ex commissioner David Stern, in coma da inizio dicembre per un’emorragia celebrale, è morto a Capodanno. Stern, a capo dell’NBA per un trentennio (1984-2014), è stato l’uomo che ha contribuito più di ogni altro a rendere il basket statunitense un prodotto globale. Dopo le difficoltà degli anni ’70, Stern è riuscito a rinverdire il prodotto NBA, dandogli una nuova ventata di entusiasmo, sfruttando anche alcuni fattori di traino eccezionali, come il dualismo Magic-Bird o l’esplosione del fenomeno mondiale Michael Jordan. Fra i tanti ad essere chiamati sul palco del draft da Stern, LeBron James ha espresso le sue sentite condoglianze, scrivendo il suo pensiero personale su ciò che il commissioner abbia rappresentato per la NBA:
Grazie per il tuo impegno nello straordinario gioco del basket, che ha cambiato così tante vite fra ragazzi e adulti e, soprattutto, grazie alla tua lungimiranza, che è riuscita a rendere l’NBA un fenomeno di proporzioni mondiali. Senza di te non sarebbe stato possibile.
La sopravvivenza del basket NBA nel periodo più cupo e, soprattutto, la sua emersione come prodotto globalizzato e apprezzato in tutto il mondo si deve principalmente al genio visionario di Stern, traghettatore solido per un trentennio pieno. La sua scomparsa nel primo giorno del 2020 poteva suonare quasi come un avvertimento: sarà un anno tragico. Il mese di gennaio, purtroppo, s’è chiuso con un dramma ancor più violento e inaspettato.
3 – Il dramma di Kobe Bryant
Sono da poco passate le 20 italiane del 26 gennaio (negli Stati Uniti è ancora mattina), quando un’ansa drammatica e stordente lascia terrorizzati milioni di appassionati e di sportivi nel mondo: Kobe Bryant è morto in un incidente in elicottero, mezzo che adoperava spesso per aggirare il traffico losangelino. La notizia rimbalza in breve dappertutto, e purtroppo non è una bufala da smentire immediatamente: l’elicottero su cui Kobe viaggiava s’è schiantato, forse a causa della nebbia, sulle colline sopra Los Angeles. La tragedia assume proporzioni ulteriormente drammatiche quando si scopre che, insieme all’ex Laker, vi erano altre otto persone, fra le quali la figlia tredicenne Gianna.
Un dramma che, in breve, si trasforma in un unico, gigantesco lamento globale: Bryant, 42enne, era un fenomeno riconosciuto su tutto il pianeta, era il punto di riferimento che aveva avvicinato al basket milioni di giovani appassionati. Le sue signature move (fade away, turn around shot, il gioco di piedi) hanno rappresentato per quasi due decenni l’apice di bellezza estetica e di elasticità fisica della pallacanestro americana. 5 volte campione NBA coi Lakers (prima come spalla di lusso di O’Neal, poi come primo violino nelle redivive sfide coi Boston Celtics), 2 volte MVP delle Finali, quarto marcatore di sempre, Bryant era, e continua ad essere pur in soffocante absentia, un’icona straordinaria della pallacanestro; l’uomo che ha rappresentato la lega stessa dall’addio di Jordan fino al dominio post Decision di LeBron James.
Rispetto al lutto di Stern, la dipartita di Bryant rappresenta un dolore ancor più lancinante: un eroe, ai nostri occhi imbattibile e incorruttibile, strappato alla vita, insieme alla figlia e ad altre otto persone, con violenza improvvisa e inaggirabile. Un lutto che ha colpito direttamente, nell’epoca dell’informazione immediata e globale, gli appassionati di pallacanestro. Tante le iniziative per ricordare Kobe, a partire dalla più genuina: One last shot. Una domenica di campettate e socialità, per celebrare Kobe ed esorcizzare il dolore della sua perdita.
Fino al recente 24 febbraio quando, allo Staples Center di Los Angeles, è andato in scena il Memorial per Kobe, la figlia Gianna e le altre sette vittime dell’incidente in elicottero. Fra i tanti interventi, oltre a quello commovente della moglie Vanessa, è spiccato quello di Michael Jordan. His airness ha svelato al mondo il suo lato più fragile, rivelando come per lui Kobe fosse una sorta di fratello minore:
Come businessman, come storyteller, come padre, come giocatore e come genitore, Kobe ha lasciato tutto sul parquet. […] Quando Kobe è morto, una parte di me è morta con lui.
Il dolore personale di Michael Jordan è il sunto della sofferenza provata da ogni singolo appassionato, che ha visto spezzare il fragile filo dell’esistenza di un uomo apparentemente inscalfibile, e si è visto ricordare, nell’immediatezza di un lancinante dolore, la caducità dell’esistenza umana. Quasi come un eroe omerico, Kobe ha lasciato il mondo nel pieno della sua giovinezza. E come un eroe sportivo difficilmente verrà dimenticato.
Inevitabilmente, la morte di Bryant ha segnato uno spartiacque nella stagione NBA, influenzando lo svolgersi della seconda metà di stagione e lasciando un alone di stranita sofferenza nel prosieguo della Regular Season. Anche la pausa dell’All Star Game, solitamente momento d’evasione e divertimento, è stata dedicata alla memoria della stella di Philadelphia. I giocatori delle due squadre hanno indossato le casacche con il numero 2 (i membri del Team LeBron) e con il numero 24 (i membri del Team Giannis), per ricordare i numeri di gioco di Gianna e Kobe. Inoltre, da quest’edizione il premio di MVP dell’All Star Game è stato dedicato a Bryant, capace di vincerlo ben 4 volte (record di trionfi condiviso con Bob Pettit). Progressivamente, la situazione si è poi incanalata verso una doverosa normalità, fino alla diffusione pandemica del Coronavirus.
4 – Il dilagare del Coronavirus frena l’NBA
Il Coronavirus, scoppiato in Cina a inizio gennaio e diffusosi in Italia attorno alla metà di febbraio, pareva rimanere in disparte negli USA, dov’era considerato fino a non più di una settimana fa come una qualsiasi influenza stagionale. Tanto che, interrogato sull’argomento dai media, Rudy Gobert, centro degli Utah Jazz, si permetteva in conferenza stampa di dileggiare l’eccessiva preoccupazione dei giornalisti, fingendosi untore strafottente nel toccare tutti i microfoni in sala stampa:
La conseguenza, non stessimo parlando di una pandemia con criticità importante per una parte a rischio della popolazione, farebbe anche sorridere: prima della gara contro OKC dello scorso 11 marzo, Gobert, influenzato, viene sottoposto al tampone. E, proprio lui, che scherniva i giornalisti preoccupati, risulta essere il primo contagiato fra i giocatori NBA, seguito a ruota dal compagno di squadra Donovan Mitchell. Immediata la risposta dei dirigenti della massima lega cestistica mondiale, che sospendono il campionato: per almeno una trentina di giorni nessuno scenderà in campo, come scrive lo stesso Adam Silver in una lettera aperta rivolta a tutti gli appassionati:
L’ennesimo colpo al morale di giocatori, addetti ai lavori e semplici tifosi: la NBA si ferma per almeno un mese. Poi tirerà le somme. Nel frattempo, si affastellano i dubbi: come e quando si ripartirà? Si concluderà interamente la stagione regolare o verrà accorciata? Si finirà per giocare l’intera post season durante l’estate? Per ora solo sullo sfondo, anche l’ipotesi di una cancellazione della sfortunata stagione in corso potrebbe divenire una soluzione, qualora il problema perdurasse più del previsto. La speranza è che, con la giusta prevenzione e le contromisure adeguate, il Covid-19 possa essere sgonfiato e, anche lo sport, possa progressivamente tornare ad una routine di normalità.
L’unica certezza, ad oggi, è che raramente una stagione NBA era stata falcidiata a tal punto da eventi negativi e tanto tristi. Una maledizione, un malocchio pare quasi aleggiare sulla lega di pallacanestro più famosa del mondo. Ma, siamo certi, anche stavolta lo spettacolo tornerà ad avere la meglio. Basta avere un po’ di pazienza.