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La classe di James Worthy

Davide Torelli by Davide Torelli
27 Febbraio, 2020
Reading Time: 7 mins read
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worthy

Copertina a cura di Sebastiano Barban

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Quando arrivi allo Staples Center di Los Angeles – che l’obiettivo sia una partita di basket, oppure un semplice pellegrinaggio turistico – non puoi fare a meno di guardare con stupore all’ingresso della struttura, con tutte quelle statue di grandi campioni lì davanti. D’accordo, ci sono Wayne Gretzky e Luc Robitaille dei Kings (NHL), il pugile losangelino Oscar De La Hoya, gli storici telecronisti Bob Miller e Chick Hearn (al quale è dedicata pure la strada che passa davanti al palazzo), ma anche i principali giocatori dei Lakers.

E se sei lì per il basket, ti senti un po’ come a Disneyland. Puoi passare accanto a Magic Johnson intento ad impostare l’azione, sotto Kareem Abdul-Jabbar immortalato nel suo gancio cielo, osservare Elgin Baylor in schiacciata, Shaquille O’Neal appeso al ferro ed infine Jerry West – oggi GM dei rivali Clippers – che penetra in palleggio. Anche Kobe Bryant avrà la sua statua là fuori molto presto. Purtroppo non potrà essere lì ad inaugurarla, ma sono pronto a scommettere che a prescindere dal tragico destino occorsogli, l’immortale onorificenza era già in programma. E considerando tutto, farà un effetto ancora più emozionante delle altre, che già di per sé trasformano in un must see un luogo già carico di interesse.

Anche se, osservando dall’interno i numeri di maglia appesi al soffitto, qualcuno effettivamente manca. Starete sicuramente pensando a Wilt Chamberlain, piuttosto che a Gail Goodrich o Jamaal Wilkes, per quanto ci sia un altro giocatore spesso destinato a non essere ricordato, seppur di diritto nel firmamento dei migliori Lakers di sempre. Una versatilissima ala piccola proveniente dal North Carolina – che nel 1982 conduce i Tar Heels al titolo Ncaa –  prima scelta assoluta nel Draft ed ideale finalizzatore dei contropiedi ispirati da Magic nei prolifici anni dello showtime. Quell’uomo risponde al nome di James Worthy, ed oggi compie 59 anni.

Nonostante gli iconici occhialoni – ma probabilmente a causa di una personalità schiva – la grandezza in campo di Worthy finisce sempre nel dimenticatoio dei ricordi. Forse perché destinato a condividere la squadra con personalità ingombranti, surclassandolo in popolarità apparente. Voglio dire, nonostante fosse la stella conclamata della squadra di Dean Smith al College, nei libri di storia si cita sempre il canestro di un giovane Jordan, capace di decidere la finale contro Georgetown, e mai i suoi 28 punti con 13 su 17 dal campo.

Oppure nel raccontare quei Lakers così glamour e popolari, il sorriso di Magic e la pettinatura di Riley vengono indubbiamente prima, così come il gancio di Jabbar o la grinta di Michael Cooper. Eppure stiamo parlando di un giocatore capace di disputare 12 stagioni in gialloviola con una costanza invidiabile, conquistando tre titoli NBA ed un MVP nelle Finals del 1988. Un uomo apprezzato per saper elevare la qualità del suo gioco nelle partite importanti, e per questo rinominato “Big Game James”, almeno fino al giorno in cui – repentinamente e in una squadra in piena ricostruzione – non decide di mollar tutto e ritirarsi, tutto sommato avendo vinto abbastanza. Una storia senza particolari discese e salite, che vale comunque la pena ricordare.

Big Game James

Worthy nasce a Gastonia nel North Carolina, e fa registrare oltre 21 punti, 15 rimbalzi e 5 assist nei suoi anni alla Ashbrook High School. Chiaramente diviene All American, prima di trasferirsi a Chapel Hill alla corte di coach Smith, dove salta buona parte della stagione da freshman a causa di un infortunio alla caviglia. Nella sua stagione da sophmore, accanto ad Al Wood e Sam Perkins conduce i Tar Heeles dapprima alle Final Four, e poi a giocarsi il titolo nazionale contro gli Hoosiers di Bobby Knight e Isiah Thomas.

La sconfitta all’ultimo atto non interrompe i sogni di North Carolina, che l’anno seguente conquisterà il trofeo superando Georgetown, con James eletto giocatore dell’anno in coabitazione con Ralph Sampson, a garanzia di un radioso futuro tra i professionisti. Ed infatti la selezione nel Draft lo premia come prima scelta assoluta, finendo nei Lakers appena laureatasi campioni contro Philadelphia, con il rookie Johnson reduce da 42 punti e 15 rimbalzi giocando centro in gara 6.

I losangelini avevano infatti ceduto qualche anno prima Don Ford ed una prima scelta del Draft 1980 ai Cavaliers, ottenendo i diritti per la pick del Draft 1982. Una lottery favorevole (con lancio della monetina fra loro ed i San Diego Clippers) determinerà così l’arrivo di Worthy nella Città degli Angeli, all’interno di un roster capace di costruire una dinastia, ma apparentemente dietro a Jamaal Wilkes nelle rotazioni.

Nella sua stagione da esordiente, l’apprendistato di James rispetto ad una delle migliori ali piccole della lega, funziona piuttosto bene. Pur partendo praticamente sempre dalla panchina, chiude con oltre 13 punti e 5 rimbalzi di media in circa 25 minuti di impiego, dimostrando dinamismo, duttilità e soprattutto ottime percentuali realizzative. Purtroppo per lui, il campionato di esordio si conclude anzitempo, a causa di un infortunio rimediato in una sfida contro i Phoenix Suns in aprile. La corsa dei Lakers ai playoff si infrange in finale, rimediando un secco sweep dai 76ers di Erving e Moses Malone, ma l’atletica ala piccola non partecipa alla post season, e probabilmente la sua mancanza si fa sentire.

Nella stagione seguente la crescita di Worthy lo porta a conquistarsi lo starting five, seppur accanto al “rivale” di roster Wilkes: il minutaggio cresce, e le statistiche migliorano, soprattutto in post season dove Los Angeles è costretta a piegarsi ancora all’ultimo atto, stavolta a vantaggio di Boston in 7 partite. Tutto è pronto per la consacrazione definitiva, che arriva nel campionato 1984/85, concluso con la rivincita in finale e l’agognatissimo titolo nelle mani dei ragazzi di Pat Riley.

Con Worthy, Byron Scott e Michael Cooper il contropiede condotto da Magic Johnson diviene il simbolo della spettacolarità della lega: si consacra definitivamente lo showtime ed il numero 42 gialloviola è una delle stelle più in vista. Si stanzia sui 20 punti di media (più o meno) per sette anni consecutivi, funzionando spesso da principale terminale offensivo, ma apparendo come secondo/terzo violino di squadra, grazie ad una concretezza poco appariscente. Vince nel 1987 e nel 1988, sconfiggendo i Bad Boys in occasione del terzo anello, conquistando anche il titolo di MVP delle Finals con una prestazione da 36 punti, 16 rimbalzi e 10 assist, in una gara 7 strepitosa. Si tratta della sua prima ed unica tripla doppia di sempre, evidentemente nel momento giusto.

Durante la sua carriera raggiungerà sette volte l’ultimo atto del campionato nelle sue prime nove stagioni, prima dello shock del ritiro di Johnson e l’inevitabile declino dei Lakers.

Durante l’ultima chance, ad una squadra  guidata da coach Mike Dunleavy si contrappongono Michael Jordan ed i Bulls, e nonostante un canestro eroico dell’altro Tar Heel Sam Perkins in gara 1 (giunto a Los Angeles), la sconfitta è inevitabile. Anche perché una serie di problemi fisici limitano proprio James, costretto a saltare la definitiva gara 5. Per lui ci saranno altre tre stagioni senza particolari acuti (se non una fugace apparizione di Johnson in panchina, poco ricordata), prima del ritiro dopo 12 campionati disputati e 16.320 punti in carriera.

Un vincente silenzioso

Cosa resta della carriera di James Worthy, quindi? Oltre ad una serie di momenti indimenticabili, la prima cosa che viene in mente sono le vittorie di squadra, con tre anelli NBA ed un titolo NCAA storico per la sua università. Poi ci sono i riconoscimenti personali, con l’ingresso nella Hall of Fame del 2003, il ritiro del suo numero 42 nel 1995, sette convocazioni all’All Stars Game, quel titolo di MVP delle Finals e la selezione tra i 50 migliori giocatori di sempre nel 1997.

Un giocatore versatile, capace di coprire offensivamente più ruoli, forte di una rapidità ideale per marchiare a fuoco lo showtime nella storia, concludendo i contropiedi con violente tomahawk divenute il simbolo del suo gioco. Difensivamente capacissimo di poter incidere ugualmente su più ruoli, forte di una intelligenza cestistica piuttosto visibile e coadiuvato da mezzi atletici di prima qualità. Ma soprattutto, Worthy è stato un uomo capace di stare al suo posto, lavorando con pazienza ed apprendendo dai compagni, aspettando il suo turno per salire di livello quando la competizione si fa dura, stagione dopo stagione.

Magari avrà dovuto sforzarsi di apparire eterno secondo nei momenti più belli della carriera? Del resto quel tiro lo mise Michael e quei Lakers erano sempre e comunque la squadra di Magic. Forse poco importa, quando sei un vincente, ed il punto più alto della collina è il tuo unico obiettivo conclamato: non riesci a vedere nient’altro. Chissà se anche per quello James non decida di ritirarsi dai Lakers all’improvviso, retrocesso oramai al ruolo di panchinaro, come chioccia per i giovani. Fa appena in tempo a veder arrivare Nick Van Exel, e getta la spugna poco prima che il suo ex compagno Earvin provi a tornare di nuovo, per metà stagione, arrendendosi al tempo che passa.

Lui, James Worthy, forse ha voluto evitare proprio quello: diventare zavorra in una squadra destinata a ringiovanirsi, a rinvigorirsi, ad aprire altri cicli. Un ragazzetto direttamente dalla Lower Marion High School ed un gigantesco centro proveniente da Orlando, con un coach Zen in panchina, per esempio. Un gruppo capace di far accendere i riflettori del nuovo millennio sul gialloviola della bassa California, continuando a scrivere la storia della franchigia più glamour della lega. Quella in cui – negli anni 80 di Jerry Buss e degli sfarzi al Forum – anche gli occhialoni indossati dal più rispettoso e poco appariscente degli uomini di Pat Riley, diventavano una moda.

E poco importa se, passando davanti allo Staples, Worthy non vede ancora la sua statua vicino a quella di Magic e Kareem, perché la consapevolezza di aver scritto la storia della lega è in ogni flashback, in ogni video di quell’epoca in cui Johnson conduce il contropiede terminandolo con un no look. E potete star certi che il ricevitore di quel passaggio porta sulle spalle il numero 42, lo stesso appeso per sempre sul tetto del palasport losangelino.

Tags: Los Angeles Lakers
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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